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Chiamala, se vuoi, RAItudine

sandra-mondaini

Ebbene sì, mi tocca parlare ancora della RAI. Ma stavolta non è per scongiurare con una petizione la cancellazione dei video d’archivio da YouTube, o per parlare di OTT-TV, Social TV, modelli di business e altri temi poco estivi.

No, questo è proprio un post sentimentalista, di quelli che si scrivono sotto l’ombrellone ripescando nei propri ricordi e nei propri istinti primari.  Il motivo di questa struggenza agostana è che la RAI, per un verso e per un altro, negli ultimi tempi è tornata far parte della mia vita, dopo qualche doloroso anno di “ok, ma restiamo amici”. E questo tipo di ritorni di fiamma, per uno che si spaccia per un freddo studioso degli ecosistemi dei media, può avere effetti collaterali dirompenti da un punto di vista emotivo.

Ripensandoci, il punto è che l’aver studiato la RAI e le sue evoluzioni, prima per gioco e poi anche per lavoro, è stata solo l’ovvia conseguenza di un mio desiderio infantile, e cioè un mondo in cui le persone – alla radio e alla televisione – avrebbero visto e ascoltato le cose più belle (sì, ho scritto proprio “più belle”, non a caso ho usato l’aggettivo “infantile”), e non quelle decise da un responsabile marketing della Findus.

Il che sposta da sempre la mia attenzione molto più sull’evoluzione delle radio e delle televisioni pubbliche, nel mondo, rispetto alle varie aziende televisive private, per le quali la missione è ovviamente e legittimamente fare profitti, a prescindere dal valore del contenuto.

Come ben sappiamo la RAI, negli ultimi anni, complici una serie di vicende politico-economiche più o meno note a tutti, ha finito per costituire una versione “sfigata” della televisione privata sia nel modello di business sia, come conseguenza, nella tipologia dei contenuti, allontanandosi notevolmente da questo tipo di utopia alla quale – almeno idealmente – il contratto di servizio sembra tutt’ora ispirarsi.

Lo scopo di chi ha indirizzato questa ormai trentennale deriva era precisamente e consapevolmente quello di far vincere il privato. E’ il privato, infatti, ad aver potuto in Italia operare in una sostanziale condizione di monopolio, e tutta l’operazione è stata resa ancora più facile dal sostanziale e tutt’ora perdurante dominio di un solo soggetto su tutta la raccolta pubblicitaria televisiva. Un dominio che permette a costui di stabilire non solo quali prodotti esistono, ma anche quali politici sono ancora in vita, quali fatti avvengono, quali problemi affligono il paese e quali sono le soluzioni a tali problemi. Se non abiliti quel modello, se non rispetti quel vincolo non vai in TV, quindi per gli italiani semplicemente non esisti.

Ora, io sono ben consapevole dell’argomento che qualcuno potrà opporre rispetto a questa premessa. Prima ancora di stabilire quale sia la missione di un servizio pubblico, e se davvero di un servizio pubblico radiotelevisivo vi sia bisogno, chi può salire su un piedistallo e stabilire cosa è un contenuto di valore e cosa non lo è? Non è forse questo intervento pretenzioso ad opera di una presunta élite intellettuale nel libero mercato dei contenuti a costituire in linea di principio l’infrazione di una libertà fondamentale dell’individuo, quella di nutrirsi dei contenuti (e dei valori) che vogliamo, proprio come ognuno ha il diritto di saccheggiare gli scaffali di junk food nei bar e nei supermercati?

Ecco, c’è un problemino. Questi ultimi trent’anni hanno dimostrato che questo  argomento è tutt’altro che ineccepibile, e ce lo dicono in primis i desolanti dati sull’analfabetismo di ritorno. Semmai tale tesi ha costituito l’alibi perfetto che ha permesso alla televisione pubblica di svuotarsi di tutto quel racconto dell’Italia e del mondo che grandissimi professionisti, almeno fino a tutti gli anni ’80, hanno provato a riversare nelle case degli italiani. Creando un linguaggio e persino una lingua comune, per cominciare, ma anche tanti motivi per stare insieme, per non guardarsi sempre e comunque in cagnesco sul pianerottolo, come pare oggi, nei tempi della crisi di sistema e dell’inevitabile, quotidiana “guerra dei poveri”.

E l’essere stati capaci, per tanti anni, di far scoprire agli italiani la cultura, il teatro, il cinema e persino di dare una rappresentazione alta della politica, al fianco di un intrattenimento leggero ma sempre “degno”, nel senso del rispetto dell’intelligenza del telespettatore, non fu – almeno a mio parere – solo merito di competenze e professionalità, ma anche di una pratica consolidata negli anni, quella che ho sempre chiamato “RAItudine“. Che poi è rimasto l’unico vero tratto distintivo del nostro servizio pubblico anche rispetto a quelli degli altri Paesi, animati in larga misura da propositi e missioni simili.

E che cos’è questa RAItudine di cui sto vaneggiando? Beh, in estrema sintesi potrei chiamarla quella capacità di rendere leggera e parte del nostro quotidiano quella stessa pesantissima missione e quegli stessi impegnativi propositi: educare il Paese, far scoprire la bellezza delle nostre diversità ai nostri stessi connazionali, consolidare la coesione sociale e il rispetto dei valori comuni attraverso la diffusione di uno stile e di un linguaggio comune.

Tutte cose che – si badi bene – nell’immediato dopoguerra non c’erano, e che quindi andavano inventate ex novo. Una operazione che richiedeva un fortissimo senso di responsabilità,  quella responsabilità che chi ha svuotato di senso il servizio pubblico sa bene di aver dovuto mettere da parte, magari con l’ipocrisia ormai ventennale dei bollini verdi e rossi che tutto e il contrario di tutto hanno fatto penetrare dal video direttamente nelle teste delle ultime generazioni.

Certo, i Bernabei che si inalberavano per le calze color carne delle gemelle Kessler erano davvero degli inguaribili e dannosissimi bacchettoni. Eppure dietro l’ingenuo scrupolo si celava proprio quella magica parola, “responsabilità”, che oggi, in virtù dell’inattaccabile alibi liberista, vorremmo rimuovere del tutto dalla tag cloud dei nuovi costruttori di immaginari, dei nuovi piani della rapprentazione di un Paese che forse ha paura del proprio essere “Paese Reale” (e infatti ne racconta un altro, che non è mai esistito).

La cosa affascinante che ho scoperto negli ultimi tempi, e che mi fa ancora sperare in un ritorno se non a quella RAI, che ha fatto ampiamente il suo tempo, a quel senso di responsabilità, è che i residui fossili della RAItudine hanno ben resistito a trent’anni di Pensiero Unico Berlusconiano e all’arrivo in massa delle sue truppe cammellate in tutti i luoghi di potere, RAI compresa.

Ricordate quando Sandra e Raimondo furono letteralmente comprati da quella che allora si chiamava “Fininvest”? Ce li ritrovammo eternamente vestiti lui in un clamoroso smoking, lei in un tripudio di paillettes obbligatorie, un po’ imbarazzati al centro di un lustratissimo studio milanese, quasi a voler essi stessi costituire l’unico motivo per farci cambiare canale. E infatti, privi di autori all’altezza e costretti a improvvisare (eh sì, il “Sandra e Raimondo Show” impallidiva di fronte al leggendario “Tante Scuse”), ci facevano cambiare due volte: la prima per andare su Canale 5, la seconda per tornare a guardare Benigni e Troisi sulle reti di stato.

Eppure proprio quella spregiudicatezza che i cugini d’oltralpe rispedirono al mittente (con tutto il cucuzzaro di “La Cinq”, che brividi) da noi trovò terreno estremamente fertile. Non ne potevamo più di Fanfani che ritardava l’arrivo della TV a colori (“gli italiani non possono permettersela in piena crisi petrolifera”), degli anatemi di Pasolini contro il consumismo che distruggeva la nostra innocenza. Perché noi quell’innocenza volevamo prenderla a martellate. Volevamo un mondo scintillante di soubrettes finalmente scollate proprio perché eravamo sessualmente repressi, perdendo così anche il treno di una vera liberazione sessuale di stampo mitteleuropeo, che invece quasi riuscì persino alla Spagna di Felipe Gonzales, ansiosa di liberarsi in fretta dalle pastoie di decenni di catto-franchismo.

Probabilmente si trattò di un passaggio obbligato. Il problema è che ne affidammo le redini a chi, come oggi sappiamo, pensava a tutt’altro. Mentre, per dire, nel 1969, quando fu allestita in RAI la diretta fiume per la conquista della luna, qualcuno che pensasse a noi, a noi telespettatori (e non al responsabile marketing della Findus, in prima battuta) c’era davvero.

E quindi, invece di copiare le musiche roboanti che contrassegnavano l’analoga moon coverage sulle privatissime CBS, ABC e NBC, c’era qualche assennato Capo Struttura che decise di attenuare l’enfasi, rilassarci con una sorta di musica d’ascensore mentre Andrea Barbato e Tito Stagno annunciavano i collegamenti con Cape Canaveral e le altre sedi collegate. Ecco, per farvi capire bene cosa intendo con RAItudine, vi invito a sbirciare le immagini di quella serata televisivamente perfetta, che – con tutti i vincoli tecnici dell’epoca – più di ogni altra cosa fa capire cosa e come dovrebbe essere un servizio pubblico quando racconta un evento di quella portata a una intera nazione. E in che modo la televisione fosse ancora in grado di incarnare il concetto di “responsabilità”.

Ebbene, la cosa che sto scoprendo in questi giorni è che l’eredità, o forse solo i residui fossili di quel tipo di indispensabili scrupoli nella televisione pubblica ci sono ancora oggi. Per esempio quando “sente” di dover adottare HTML5 nei formati dei video sul web. Oppure quando avverte l’obbligo di sperimentare l’interazione con altri schermi, quelli che la televisione privata guarda ancora con terrore. O quando ti inonda il salotto delle austere e mai interrotte note del quinto canale della filodiffusione, che oggi viene correttamente definito un canale di pubblica utilità.

Ma anche quando mette a disposizione in podcasting quasi tutte le più importanti rubriche radiofoniche, e non ha paura di usare questa parola nei richiami delle sigle finali  (“tutte le puntate sono disponibili in podcast”). Qualcosa resterà, pensa la testa del broadcaster, e magari qualche nipote potrà spiegare alla nonna come non perdere più una puntata di Fahrenheit.

E infine quella RAItudine ancora salta meravigliosamente fuori quando un pioniere del Web 2.0 come Antonio Sofi chiama a raccolta, fin dentro i teatri di posa di Via Teulada, un manipolo di twittaroli (il neologismo è della formidabile Celestina Pistillo), con l’intento di  movimentare i talk show della prima serata. Forse l’unico modo, far entrare la Rete fin dalla concezione del format, per aprire un programma come Millennium alle suggestioni e alle provocazioni di Twitter, non più e non solo un rutilante esercito di aforisti da strapazzo, ma anche una arena di vox populi in tempo reale.

Ecco, io vorrei tanto che dalla tenacia dei consapevoli e inconsapevoli, vecchi e nuovi vessilliferi della RAItudine, dell’amore per il Pubblico, del primato dello scrupolo sul modello di business imparassimo anche noi, anche noi blogger o quello-che-siamo-diventati che, lasciatemelo dire, secondo me continuiamo a scrivere e a pubblicare le cose migliori proprio quando nessuno ci paga, o meglio quando ci appaga il senso di libertà e il voler bene a chi ha la bontà di seguirci.

Perché è del tutto legittimo scrivere, parlare in pubblico, salire su un palco per essere notati e alla fine anche meritatamente ingaggiati da una radio, da una televisione o da una casa editrice. Ma quando vi leggo, che poi è un po’ come guardarvi negli occhi, le cose più belle mi arrivano quando le pensate, o le “sentite”, libere – e quindi gratis.  Per me che vi leggo e – ahimé – anche per voi che le scrivete.

E non, per intenderci, quando qualcuno vi mostra i lontani bagliori delle paillettes di una imbarazzatissima Mondaini, ma solo dopo aver stilato l’inesorabile e antichissimo elenco delle regole per farvi “funzionare”.

 

Fuga da YouTube: errori, diritti, doveri e un appello

mina

 

A seguito del mancato rinnovo dell’accordo Rai-Google, da domani 1 Giugno spariranno da YouTube tutti i video ufficialmente pubblicati da Rai (parecchie migliaia di clip). Sempre da domani, la Rai potrà chiedere la rimozione delle migliaia di propri video pubblicati dagli utilizzatori di YouYube, quasi tutto materiale d’archivio, e sui quali (proprio in virtù di quell’accordo) Google – grazie al sistema ContentID – riconosceva alla tv pubblica italiana una quota di ricavi in base alle views di ogni clip.

Cosa succederà adesso? Il materiale “nuovo”, che  poteva essere consultato sui canali ufficiali Rai di YouTube, migrerà sull’ottimo portale Rai.tv, senza – almeno così assicura l’azienda radiotelevisiva di Stato – che vi sia alcun “cono d’ombra” durante questa complessa transizione. Credo si debba avere molta fiducia su questo, nel senso che si tratta della quota di contenuti su cui Rai spera di recuperare molta raccolta pubblicitaria gestendola in-house e finalmente sottraendola al sistema di Google.

Il materiale d’archivio invece, in stragrande maggioranza pubblicato su canali non ufficiali (quindi illecitamente) su YouTube, sarà verosimilmente rimosso su richiesta della stessa Rai, proprio come accade ormai da molti anni con le clip catturate da Mediaset.

Ora, nel cercare di elaborare un giudizio – positivo, neutro o negativo – su questa scelta, non credo sia il caso di snocciolare numeri. In fondo, tutto dipende da Google, e non conosciamo i termini che hanno fatto naufragare la trattativa per il rinnovo. Forse se avessero negoziato una quota più alta oggi non staremmo nemmeno a commentare questo esito.

Credo che sarebbe scorretto anche fare della dietrologia, per esempio immaginandosi un Gubitosi costretto a mandare un segnale di “austerità e delivery” al Governo, resosi necessario dopo il taglio di 150 milioni di euro paventato dall’esecutivo.

Però su una cosa credo sia opportuno spendere qualche considerazione: se per quanto riguarda i canali ufficiali e i materiali “nuovi” (diciamo dell’ultimo anno) mi pare giusto immaginarsi una azienda pubblica fatta di manager che devono compiere scelte strategiche per far quadrare i conti, diverso – molto diverso – è il discorso per la massa di quei capture illeciti di materiali “vecchi”, sui cui Rai non riesce a monetizzare granché.

Il modello della raccolta pubblicitaria online attualmente perseguito da Rai.tv si fonda infatti su “ciò che va per la maggiore”, e cioè “ciò che adesso va in televisione”: le dirette streaming, la catch-up tv dell’ultima settimana, le clip più interessanti, dove impera ormai da anni sua maestà lo spot in pre-roll. Bisogna dire che si tratta di una strategia del tutto ragionevole, perseguita con intelligenza da persone che ne sanno, cercando di proporre la miglior user-experience possibile sia sul sito sia sull’applicazione Rai.tv, non a caso una delle più scaricate in Italia.

Ma tutto il resto? Quanti soldi, e come intende farli Rai.tv con le vecchie puntate di StudioUno, con l’integrale della diretta per la conquista della luna del 1969, coi telegiornali del rapimento Moro, con tutte quelle cose – per intenderci – che oggi si possono ancora trovare su YouTube e domani, anzi tra pochi minuti, verosimilmente inizieranno a sparire?

Spiace dirlo, ma io credo che la Rai non abbia una vera strategia per monetizzare questi contenuti, e consideri una specie di incidente il fatto che oggi i video su YouTube siano le vere “teche”, la vera memoria collettiva del Paese. Ed è un peccato, perché è proprio grazie a YouTube che oggi molti giovani italiani possono sapere cos’è stata la Rai prima di diventare, per qualche disgraziata evoluzione politica, una brutta copia di Mediaset senza che ve ne fosse alcun obbligo nè economico nè istituzionale (anzi). Prima dei “meravigliosi” anni ’80 la Rai era una straordinaria fabbrica di idee, cultura, informazione, intrattenimento di prim’ordine a disposizione di tutti. E se a disposizione di tutti lo era rimasta lo si doveva proprio alle formichine che su YouTube catturavano quei vecchi programmi e li ripubblicavano certo non per fine di lucro.

Ma sono davvero queste vecchie trasmissioni, sono questi pezzi di storia i colpevoli di quel furto di attenzione nei confronti di Rai.Tv, o  – peggio – dell’intoccabile schermo del salotto minacciato dalla Chromecast? E’ per colpa di una YouTube dove puoi trovare Mina e Alberto Lupo, le commedie di Eduardo, i supplementari di Italia-Germania 4-3 che la Rai “sta perdendo ricavi”?

Ovviamente no. Nonostante le ossessioni di chi lavora nella incrollabile logica del broadcaster, chi studia gli user behavioural trends sa che i veri responsabili di questo furto sono da cercarsi altrove: su Facebook, su Whatsapp, persino su Candy Crush. E su milioni di altri schermi che, fregandosene della Rai e molto spesso anche di YouTube, governano sempre più la vita in salotto, in cucina, in camera da letto, in tram, in ufficio, ovunque. E’ per le tante altre cose che succedono su questi schermi, che solo in minima parte o comunque per altri versi hanno a che fare con “la televisione”, che guardiamo sempre meno “la televisione”.

E’ buffo perché vedete, nel fare questi discorsi, ci sto cascando anch’io. Sto discutendo del modello di una televisione che sarebbe di tutti (la Rai) come se fosse la televisione di uno solo (Mediaset), mettendo direttamente in relazione lo stesso modello di business (la raccolta pubblicitaria, la pay-tv) come se non esistesse un contratto di servizio, come se la Rai non avesse appunto proprio quel ruolo, cioè quello di usare tutte le tecnologie disponibili per ricordarci chi siamo, come eravamo e dove potremmo quindi decidere di andare.

Le scelte di altri grandi operatori di televisione pubblica in Europa ma anche nel resto del mondo, da sole, dovrebbero dirci a sufficienza quanto sia miope trattare l’argomento mettendola su un semplice piano di confronto di strutture di costi e ricavi.

Ora, non è difficile immaginarsi che qualcuno a questo punto possa obiettare “e allora che facciamo, chiudiamo la Rai, o la privatizziamo come in Grecia, visto che i soldi per tenerla in vita sono finiti?” La domanda è legittima, ma è come se arrivasse da un canguro che sta per affogare per aver voluto sfidare a nuoto un delfino, invece che a salto in lungo, e non si vede perché debbano essere i diritti (eh sì, sono “diritti”) dei cittadini a doverne pagare le conseguenze. La vera domanda è: quanto è disposto il Governo a far rinascere la Rai, a farla tornare ad essere una risorsa per il Paese al servizio di quella economia della conoscenza di cui proprio nei proclami governativi si parla di continuo?

E per quanto siano ridicoli gli appelli, specie quando arrivano da un semplice blog come questo, allora forse è il caso di chiedere a chi – per legge e per conto nostro – concede a questa azienda l’incarico di svolgere un servizio pubblico (ah, quanti termini vintage), di fare due semplici cose:

  • chiedere alla Rai di studiare e mettere in atto una efficace strategia di monetizzazione, con tutti i mezzi disponibili, dei contenuti “nuovi” su Rai.tv e sulle altre proprie piattaforme in modo da contribuire in modo decisivo al salvataggio e al rilancio dell’Azienda;
  • imporre alla Rai di rinunciare a far rimuovere i contenuti “vecchi” da YouTube, così da salvaguardare l’unico vero archivio naturale dell’azienda seriamente accessibile al pubblico, che dà lustro alla storia della prima industria culturale del Paese e non minaccia in alcun modo i modelli di business attuali.

Chiedo troppo? Non lo so, ma non potevo star qui ad assistere impotente allo stacco della spina. Almeno non avrò il rimpianto di non averci provato.

Tra Roma, Berlino e Viterbo alla ricerca di un respiro più lungo

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Sono stati giorni un po’ convulsi, quelli delle ultime tre-quattro settimane. Come spesso accade in questo periodo dell’anno, con alle spalle un inverno segnato da una fitta sequenza di “cose da fare”, a volte senza troppo costrutto, ho sentito il bisogno di fermarmi a scambiare idee con quelle poche persone con cui ti capisci al volo per staccare un po’, soprattutto di testa.

Mi sono corse in aiuto le persone, ma anche i luoghi. Complice l’invito al Media Web Symposium di Berlino, ho raccontato agli amici del Fraunhofer le mie riflessioni su Tumblr, l’unica cosa di lungo respiro a cui ho potuto lavorare negli ultimi tempi, mettendo insieme nuovi dati e alcuni studi comportamentali sui trend d’uso dei social media.

L’ultima frase delle mie slide, peraltro, non ha alcuna base scientifica: sono io che spero di vedere nell’apparentemente inspiegabile sopravvivenza di Tumblr il possibile segnale di un riflusso. Credo che alcuni di noi inizino a cercare un buen retiro segnato da un più basso investimento cognitivo e un minor controllo sociale, con meno ostacoli alla libertà d’espressione e alla condivisione di emozioni nella loro forma più immediata. Senza, per intenderci, che le molte persone con cui abbiamo a che fare quotidianamente, online e offline, ne debbano trarre “significati” o peggio “conseguenze” secondo codici che peraltro sarebbero ancora tutti da scrivere, visto che quelli preesistenti non valgono più.

Il disagio verso i luoghi socialmente pesanti, dove ogni tuo comportamento viene letto, interpretato e giudicato da chi conosce non solo la tua identità, ma anche la tua storia vale anche, manco a dirlo, nel mondo reale. Per rimanere nella metafora di questi giorni, Roma è per me pesantissima, così come Berlino è straordinariamente leggera. Mi piacerebbe poter dire che ciò dipende da una condizione soggettiva (magari chi vive a Berlino da trent’anni potrebbe fare il ragionamento inverso), ma alcune cose mi dicono che c’è anche un problema di “predisposizione alla pesantezza”. Eternità, per intenderci, significa anche immobilità, e l’immobilità è il brodo ideale per il controllo sociale e la pretesa di una chiave di lettura universale dei comportamenti.

Forse l’unica cosa di cui non solo chi sfoglia foto su Tumblr, ma anche chi cammina per le nostre strade inizia a sentire il bisogno è liberarsi dal vincolo di necessarietà tipico di molti nostri paesaggi urbani. Ogni cosa che vediamo o sentiamo risponde a una necessità: l’insegna, il cartellone pubblicitario, il rumore del traffico, la musica nei negozi, la gran parte degli odori e dei profumi. Questi elementi non sono da respingere in quanto tali, anzi spesso è esattamente ciò che cerchiamo in una città. Ma quando sono loro a cercare pezzi della nostra vita, spesso per sfilarceli via, con la tendenza ad occupare tutto lo spazio disponibile dentro di noi, ecco che la città diventa insostenibile, ed è esattamente questo che Roma in questo frangente storico sta diventando: una somma di vincoli di necessarietà.

Se ho bisogno di un respiro più lungo, ho bisogno di spazio per farlo. E Berlino – coi suoi spazi ancora in cerca di una nuova identità, residui delle fratture del passato – mi corre in soccorso, come a volte provo a raccontare anche per immagini. Non so se Roma sia la mia Facebook, e Berlino la mia Tumblr, ma tutto sommato non importa, le metafore le lasciamo ai quotidiani manovali del significante. Ma con buona pace di Jep Gambardella, che mette tutto su un piano orizzontale (“le cose che voglio fare e le cose che non voglio fare”), l’esigenza di una prospettiva più ampia è la scoperta più importante dei miei ultimi scampoli di esistenza, da reinvestire in quelli venturi.

Prima di Berlino peraltro, grazie agli organizzatori di Medioera, delle lessons learned from Tumblr ho potuto parlare a Viterbo con persone ben più autorevoli e mentalmente libere di me come Mafe e Gallizio. Viterbo è forse l’unica provincia del Lazio che sta provando a legare il suo territorio a una “scatola delle idee”, che per ora prende la forma di un festival di cultura digitale ma che probabilmente potrebbe connotare molti altri momenti pubblici nel corso dell’anno. Ne varrebbe la pena anche anche se lo scopo fosse solo quello di far entrare nei grandi circuiti le tante cose belle e buone prodotte da questa terra, per non parlare della bellezza e dell’autenticità delle persone. Ne è venuta fuori una discussione a cavallo tra il freddo lavoro dell’analista e l’intimo rapporto che ognuno di noi ha col Web e le cose che ci stanno dentro. Sono sicuro che il nascente libro di Mafe sulla natura rivelatrice del reale di Internet aggiungerà molta carne al fuoco, su questo e su altri temi adiacenti.

So solo che da questo mese di parole, suoni e colori, come forse si sarà capito, mi rimarrà parecchio. Quindi sento di dover esprimere la mia riconoscenza a chi le ha dette, a chi li ha suonati, a chi li ha dipinti. Sperando di tornare presto sui luoghi del delitto.

Il Web e i sonni tormentati di Michele Serra

amaca2Nella sua “Amaca” di oggi, che mi permetto di pubblicare qui sopra nonostante la minacciosa dicitura “Riproduzione Riservata” (appellandomi l’art. 10 della Convenzione di Berna per i fini di discussione), Michele Serra sostiene che l’aumento degli spettatori al cinema (+6% nel 2013) sarebbe un dato sufficiente per smentire non solo la crisi del cinema in sala, ma anche dei giornali, dei libri, della televisione a vantaggio del presunto “web social-cannibalizzante” che come sappiamo tormenta da qualche tempo i sonni dell’autore.

Ora, premesso che di crisi del consumo di cinema nelle sale non mi pare se ne parli più, o meglio se ne parla – a sproposito – dagli anni ’80 (quando il Web era un giochino per militari e accademici nerd) ci sono alcune sconnessioni logiche nel ragionamento di Serra che mi rendono un po’ perplesso.

Secondo la sua tesi la crescita del pubblico dei film in sala dimostra che evidentemente il web, che impone un consumo “monocratico” e “autistico” (queste le sue eleganti parole) davanti a uno schermo personale, non permetterebbe alla gente di uscire di casa, frustrando la naturale “voglia di condividere lo spettacolo con altre persone” di ognuno di noi. Di qui “l’effetto rinculo” che riporterebbe la gente in massa nelle sale cinematografiche.

Il problema è che Serra estende la portata delle sue conclusioni per dimostrare che l'”intero vecchio mondo mediatico” sarebbe dunque al riparo delle “previsioni funeste” dei “nuovisti”. Ne dedurremmo che, secondo lui, presto la gente leggerebbe sempre fuori di casa, in compagnia, il giornale o un libro di carta, ascolterebbe sempre fuori di casa, ancora in compagnia, la radio a transistor e infine guarderebbe sempre fuori di casa, sempre in compagnia, la televisione catodica e con la valvola termoionica. Nel 2014 quindi funzionerebbe come nel 1961, quando i miei genitori, grazie alla TV catodica che trasmetteva “Lascia o raddoppia?” in un bar di Montecatini, si conobbero “nel mondo reale” permettendo così la mia nascita qualche anno dopo.

Al di là di questo evidente salto logico, che sembra voler ignorare la sacrosanta peculiarità dell’esperienza “in sala” (su cui mi sono già ampiamente speso, come racconta Maria in questo post), colpisce la spregiudicatezza con cui Serra sia del tutto indifferente al fenomeno per cui le persone, proprio grazie al Web e agli schermi portatili:

1) fruiscono contenuti lontano da casa, nei tempi morti, liberando del tempo per la propria vita sociale “fisica” (per esempio guardano un film o leggono un e-book sui mezzi pubblici mentre vanno al lavoro o a trovare gli amici)

2) usano i social network come Facebook, e sempre più le piattaforme di instant messaging non tanto per “surrogare” una qualche vita sociale su uno schermo personale, ma per permetterla lontano dallo schermo: si organizzano, creano eventi, si danno appuntamento nel mondo reale, lontano dalle case in cui erano confinati quando era proprio la televisione a fungere consapevolmente da “surrogato” (con i reality, per fare l’esempio più lampante).

Da un giornalista del calibro di Serra, che si richiama da sempre a un inderogabile illuminismo cartesiano, non mi aspettavo un ragionamento così sgangherato. E non so se augurarmi se si tratti di una piccola perdita di lucidità, o solo dell’ennesimo, maldestro tentativo di tirare l’acqua al mulino del “vecchio medium” di turno.

Un’isola virtuale per il mondo reale

montaggio di salvatore mulliri

Conobbi Salvatore Mulliri, con il nick “Isola Virtuale” circa quattro anni fa, grazie alle sue vignette su Tumblr e Friendfeed. Lo so, parlare di “vignette”, nel suo caso, è limitativo, come del resto lo sarebbe parlare di “montaggi”. Ma non è facile attrezzarsi con le definizioni in un mondo in continua evoluzione come quello della comunicazione digitale.

Salvatore è un “anticipatore” della rivoluzione dei contenuti in rete. Un creativo in grado di cogliere i trend sociali nella loro fase acerba. E’ uno dei primi ad aver capito il valore della conversazione che può essere innescato da uno spunto creativo, fino a farsi MEME, tormentone. Quando pubblica una vignetta  – ok, chiamiamole così per ora –  inizia subito a dialogare in tempo reale con chi la commenta, estendendo a dismisura il potenziale del messaggio e di tutti i meta messaggi associati. Proviamo a immaginarci il Forattini nella sua fase di declino che si azzarda in un esperimento del genere, con la gente che gli chiede “ma che significato hanno quei gabbiani?” e lui che non può esimersi dal rispondere “non so più cosa disegnare”. Immaginiamoci un Bucchi, un Giannelli, che ingaggiano sotto le loro vignette una conversazione su un fatto di attualità, fino a doversi esporre, argomentare, o continuare sul filo dell’ironia.

Ecco, questa è la prima cosa che fa Salvatore. Lui “conversa”, come i pionieri del Cluetrain Manifesto hanno stabilito che si debba fare in rete proprio perché grazie al Web sono tutti sullo stesso piano: artisti e “loggionisti”, creativi e distruttivi, geni e detrattori di geni. Con la certezza che ogni opinione ha un mercato, e quindi c’è gloria per tutti.

Il fatto che tutto questo si svolga principalmente in un social network per “addetti ai livori” (come lo definì sagacemente un blogger del calibro di Enrico Sola, al momento di abbandonarlo) rende il tutto ancora più interessante. FriendFeed è a ragione stato definito “il socialino dell’odio”, proprio per il fatto di essere il dominio quasi incontrastato dei cattivi, dei cinici, dei distruttori. Perché si sa, se per caso hai la sfortuna di nascere senza alcun reale talento creativo, puoi sempre distinguerti parlando male degli altri. In fondo è infinitamente meno faticoso e quasi più redditizio.

Dal mio personalissimo punto di vista di osservatore delle dinamiche andreottiddel Web, lo spettacolo dell’originalità creativa di Salvatore che sovrasta “le guerre dei poveri di talento” con le sue vignette è forse uno degli ultimi motivi che fa sperare in una rete capace di superare le logiche della comunicazione mainstream. Di sconfiggere, in definitiva, una omologazione culturale per anni imposta non solo dai vincoli delle piattaforme tradizionali, ma anche per la sempiterna disponibilità del pubblico passivo a cercare aggregazione nella riconoscimento di schemi e figure, senza correre il rischio di esplorare la diversità di nuovi linguaggi e nuove culture che non fossero quelli introdotti dall’alto.

Se c’è una cosa che internet sta regalando alle nuove generazioni, e lo dico a dispetto dei tanti neoluddisti che vivono oggi la loro effimera età d’oro, è un ecosistema mediatico finalmente aperto a questi nuovi linguaggi e a queste nuove culture. Culture che solo per comodità definiamo “digitali”, ma potremmo semplicemente definire, finalmente, libere dai vincoli funzionali delle catene produttive verticalmente integrate.  Prima ancora di non essere preventivamente censurabile da qualche “padrone in redazione”, Salvatore, anche in un ipotetico mondo di stampa libera e “guardiano della democrazia” avrebbe dovuto comunque concordare tempi di uscita e di stampa. E il suo lavoro sarebbe stato vagliato, se non direttamente dall’editore, dal gradimento degli inserzionisti. E nessun vignettista sano di mente vorrebbe vedere il suo lavoro giudicato dal responsabile marketing della Findus o della S. Pellegrino.

Ma nel comporre e pubblicare i suoi montaggi digitali, Salvatore è libero da un altro mantra che si presumeva eterno: l’individualità dell’atto creativo. Quando lo invitai a parlare alla BlogFest 2012, dal palco di Riva del Garda Salvatore pronunciò parole che lasciarono molti di stucco, e forse fecero anche storcere il naso a qualcuno. “Sono orgoglioso di essere influenzato, nelle mie vignette, dalla folla degli utenti di Internet, e di ispirarla a mia volta per nuovi spunti creativi. La creazione per me non può essere un atto solitario”. Nè, mi verrebbe da aggiungere, può essere la proprietà di un solo autore.

Quando Lawrence Lessig, profeta dei Creative Commons, proclamò  alla Camera dei Deputati nel 2009 che il mondo era entrato  “nell’era della cultura condivisa”, a qualcuno sembrò una di quelle frasi altisonanti buone per ingraziarsi una platea accomodante. Di fatto, nei trend d’uso e di fruizione dei contenuti digitali che mi trovo a studiare per  lavoro, poche profezie hanno avuto un maggior riscontro di quelle parole.

I report degli infoprovider dell’industria dei media concordano su un punto: la principale leva di interazione con un contenuto si sta spostando rapidamente dalla fruizione alla condivisione. Il ruolo principale di un contenuto non è più – dunque – solo quello di informare, intrattenere, acculturare, ma anche di ispirare altre persone a modificarlo, remixarlo o crearne uno integralmente nuovo.

Le vignette di Salvatore-IsolaVirtuale sono spesso dei remix, che a loro volta vengono modificate in MEMI e tormentoni prima dagli utenti più smaliziati, poi via via anche da tutti gli altri. A dare nuovo senso a una vignetta, del resto, può contribuire anche un solo commento, e Internet non pone filtri o setacci. Se in giro c’è un commento geniale, sarà pubblicato, e ne ispirerà altri istantaneamente.

Ma il tema della open culture non riguarda solo la co-creazione delle idee, e si estende agli strumenti che decidiamo di mettere nella “cassetta degli attrezzi”. Nell’elaborazione grafica, per esempio, Salvatore si serve esclusivamente di software Open Source, vale a dire applicativi che migliorano grazie al costante contributo di una comunità di sviluppatori. La sua storia ci insegna che tutto sta cambiando, non solo nell’industria dei media, ma anche nel modo in cui ci rapportiamo a una idea, a un contenuto, a un racconto. Le chiavi di questo passaggio cruciale sono la partecipazione, l’apertura, la condivisione da opporre all’autorialità proprietaria e che si apre al mondo esterno solo attraverso una catena di vendita, protetta da silos impenetrabili.

Non c’è miglior modo per cogliere l’essenza di questa transizione se non attraverso l’opera e le pratiche di chi ha scelto di attraversare un terreno così vergine col suo genio, ma anche con la sua coerenza ed onestà.

Il Web, gli altri e la libertà di costruirsi una prigione dorata

Internet-dissent-ccL’altro giorno, dopo parecchio tempo, ho ripreso a guidare l’automobile. Molte cose mi sono venute automatiche, altre no. E me ne sono accorto quando una signora, dietro di me, ha suonato nervosamente il clacson. Non capivo perché, ma credetti che intendesse avvertirmi di qualcosa, magari un pericolo immediato, come prescrive il codice stradale.

E invece no, non intendeva avvertirmi di nulla. Voleva solo esprimermi il suo fastidio perché mi stavo spostando sulla corsia di destra, con regolare freccia accesa da alcuni secondi, mentre lei voleva sorpassarmi proprio a destra. A confermarlo, la pronta occhiata di riprovazione, mista a un velato disprezzo, che mi ha raggiunto attraverso il retrovisore.

Ora, come ben sappiamo la riprovazione riguarda l’atto, mentre il disprezzo riguarda la persona. Ma il codice di comportamento tra sconosciuti in automobile permette di esprimere bene entrambe le sfumature. Sia su binari paralleli, sia, (se necessario, quando non vogliamo andare troppo per il sottile), anche in un unico minestrone di brutti sentimenti pronti per l’uso.

Fondamentalmente, un comportamento che non condividiamo ci offre l’opportunità non solo di sentirci migliori di qualcun altro, ma persino di cercare conforto, magari con uno sguardo complice o incredulo, in qualche altro automobilista o pedone nei paraggi.

Nel traffico, infatti, non vale lo stesso codice di condotta che normalmente osserviamo verso gli sconosciuti. Dove magari è ammesso un qualche scarno dialogo strettamente legato alla condizione in cui palesemente ci troviamo: le informazioni sui mezzi passati alla fermata del bus, sull’ordine di chiamata nella sala d’attesa del dentista, e così via.

No. in auto la barriera del veicolo – che ci protegge, ma è anche un arma d’offesa – garantisce è una sorta di semi-anonimato dove ogni atto può – anzi, deve – essere debitamente teatralizzato. Uno sguardo, un epiteto, un labiale, un gestaccio attraverso il finestrino assumono spesso una rilevanza semi-pubblica. Compresa l’occhiata con cui squadriamo il volto di chi ha compiuto una manovra particolarmente odiosa, forse per trovare nei suoi lineamenti la conferma lombrosiana del nostro pregiudizio di partenza. Che poi è sempre lo stesso assunto, che suona più o meno così: “il mondo va a rotoli perché noi facciamo parte di una sparuta minoranza di persone civili, che sanno guidare e hanno  rispetto per gli altri; questi parassiti invece, quando tornano a casa, forse picchiano le loro mogli e lasciano i loro cani sul terrazzo tutta l’estate”. Confortati da questa certezza, come premio, quantomeno vorremo guardarli in faccia, per vedere il volto del male, della stupidità, dell’arroganza.

Semi-anonimato, dicevamo. E rilevanza semi-pubblica, abbiamo aggiunto. Ecco, io credo che questi termini – qui sul Web – dovrebbero farci scattare un rumoroso campanello d’allarme. Perché si tratta delle stesse condizioni in cui ci troviamo quando decidiamo di interloquire con uno sconosciuto su Facebook, in un post leggibile da altre persone. Dove puntualmente, anche qui, scatta in noi qualcosa di lombrosiano quando ci imbattiamo “negli altri”, nella “massa informe”. Cioè in tutti quelli che fondamentalmente, riteniamo meno informati, meno consapevoli, meno attrezzati di noi: dal grillino complottista, alla bimbominkia sgrammaticata, al pasionario irragionevole di questa o quella parte politica, allo spammatore di foto di cani scuoiati, all’irriducibile ricondivisore della bufala più evidente, e così via.

Tutta gente che – mannaggia! – può anche lei scrivere ed essere condivisa con successo su facebook, creare pagine con diecimila like per una petizione contro un inesistente sperpero di danaro pubblico, trasformare una battuta volgare e sessista in un tormentone, perché per cento persone mosse dal demone di pubblicare qualcosa di becero ce ne saranno sempre migliaia pronte ad amplificare il messaggio, e tutto per colpa di quel maledetto bottone “share”.

Ora, a ben vedere, il risultato è che con gli sconosciuti, nelle discussioni pubbliche (proprio come accade in auto) siamo motivati a dialogare quasi sempre in un solo caso: quando appunto non siamo d’accordo con loro. Specie quando abbiamo l’opportunità unica di far passare l’eterno messaggio identitario, lo stesso che regna da sempre in mezzo al traffico e cioè quello per cui “io sono migliore di te”.

E a prescindere dal merito e della gratuità di una affermazione del genere, siamo davvero di nuovo di fronte a una grave sconfitta. A sentire Lawrence Lessig il web (a differenza del traffico cittadino) ci permetterebbe di trovare il bello proprio nello sconosciuto e nell’inaspettato, la famosa “serendipity” di cui si favoleggiava nei primi barcamp. Ai tempi, iniziavamo a guardare molti illustri sconosciuti negli occhi, e quegli sconosciuti ci piacevano. Ma proprio ora che siamo riusciti ad aggregare le nostre conoscenze per interessi e passioni comuni, partendo dalla rete ma portando spesso queste affinità nel mondo degli atomi, ecco che ci siamo di nuovo chiusi a riccio e ci apprestiamo a salire sull’Arca, mentre fuori vediamo solo un diluvio universale di ignoranza e stupidità.

Siamo diventati, in sintesi, ciechi – ma per scelta. Appagati dalle continue, pulviscolari gratificazioni della nostra cerchia abbiamo stabilito di non voler guardare oltre ciò che è distante da noi. Con buona pace della social diversity e della shared culture propugnata da Lessig e da altri visionari.

La cosa più triste è che questa cecità sociale diventa ancora più grave di fronte a quello che accade, lontano dalla rete. Come accennai di recente all’Internet Festival di Pisa (e ringrazio Maria per averlo ricordato), se siamo disposti a pagare perché qualcuno ci imprigioni in una sala buia per assistere a qualcosa che potremmo serenamente vedere anche nel salotto di casa (di solito un film, ma più di recente anche eventi live e persino versioni “da big screen” di mostre d’arte), questo indica un mutamento radicale della nostra prospettiva sociale.

Il punto è che con “gli altri” non vogliamo più parlare, al di fuori delle nostre passioni, dei nostri interessi verticali, perché sui problemi reali, sui temi di attualità i media analogici ormai da vent’anni ci hanno insegnato a metterci uno contro l’altro, e i flame su facebook sono solo un ovvio riflesso di questo consolidatissimo andazzo. Guardiamo il vicino di casa o il parente al cenone di Natale non come una persona che ha i nostri stessi problemi, ma come l’idiota che pensa di risolverli votando per uno che dice “vaffanculo” nelle piazze. E dal tizio che stringe “Libero” sotto il braccio  ci aspettiamo uno squallido tentativo di passarci avanti nella fila della posta.

Pretendiamo di avere un raffinatissimo e lombrosianissimo sguardo socio antropologico su tutto e su tutti. E francamente mi chiedo, a volte mi chiedo, che razza di cambiamento potrà mai innescare un Paese prigioniero di una prospettiva del genere.

Rimini, la transizione al rallenty

Questa è la volta che capirò se scrivere un post sul divano a piedi scalzi, con un bassotto che te li lecca tutto il tempo, può essere fonte d’ispirazione.

Vorrei scrivere il classico sbrodolone a consuntivo della Blogfest, nessuno mi ha obbligato, ma il punto è che i molti confronti “live” con le persone incontrate sul posto mi hanno schiarito le idee su alcune cose che ho sempre pensato e che finora avevo elaborato solo in parte.

Gianluca sa cosa penso della sua creatura, dai tempi delle prime edizioni. Ne abbiamo parlato più volte francamente, senza ipocrisie. Per me è troppo allineata agli stili della comunicazione televisiva per poter essere una vera festa della Rete. Lui ribatte che in Italia c’è ancora troppo strada da fare per gettare il cuore oltre l’ostacolo e rinnegare i linguaggi, i tormentoni, i riflessi condizionati della TV. Alla fine ciascuno rimane della sua opinione, ma siccome siamo nella stessa barca  (nei rispettivi ruoli) alla fine bisogna stare tutti e due a testa bassa, e pedalare. OK, facciamo che la barca è un pedalò – ma ci siamo capiti.

Certo, dispiace confrontare la realtà italiana con gli USA, dove il festival SXSW (nato come un raduno di sviluppatori) è diventato negli anni una straordinaria kermesse di tutta la cultura indipendente, dal cinema alla musica, alla letteratura, al giornalismo, ecc. Mentre laggiù internet è considerato un volano di tutti questi movimenti, che entrano progressivamente in concorrenza coi fenomeni di massa costruiti da major e broadcaster, qui da noi è l’esatto contrario: l’evento più “vissuto” dalla socialsfera ha senso nella misura in cui “risuona” negli strapuntini concessi ai protagonisti su giornali, radio e TG (la famigerata “rassegna stampa”).

Questo – si badi bene – è un mio punto di vista personale, ma non riesco a passarci sopra. In fondo a me non interessa troppo “la purezza di “Internet”, “la net neutrality contro i walled garden” o “HTML5 contro gli App Store”. A me interessa tutto ciò che può far crescere musica, cinema, spettacolo, cultura, informazione indipendente. Se poi volete chiamarla “cultura digitale”, fate pure: io me la cavavo benissimo anche captando le community radio in onde medie o facendomi spedire i vinili dall’estero.

Ora, semplicemente, sarebbe più facile. Peccato che i tesori della cultura digitale, ovviamente, sono tutti molto lontani da casa. Si scovano nei podcast di oscure radio universitarie canadesi, nei canali youtube dei “nuovi miagolatori” di BaebleMusic, nella splendida serie House of Cards (un prodotto televisivo del tutto ortodosso, ma prodotto autonomamente da Netflix, senza interferenze), nel formidabile video magazine di Gestalten.tv, solo per citare qualche caso particolarmente eclatante.

Il punto è che non è facile convincere gli sponsor di un evento come la Blogfest senza usare i loro parametri, le loro misurazioni. Nel mio piccolo, insieme ad altri colleghi molto motivati sto provando a far passare in azienda altri elementi di valutazione che non siano sempre e solo quelli della pubblicità tabellare, ma non è facile. E allora, come ben sanno gli amici di Macchianera, occorre arrivarci per gradi, correggere il tiro, battere altre strade.

La cosa migliore dell’edizione di quest’anno è stata, guarda caso, il respiro più ampio. Il WriteCamp (a mio avviso la sezione più pregiata del pur ricchissimo programma) ha avuto uno spazio adeguato, con la domenica non più relegata a “giornata povera” della manifestazione. Ci sono stati dibattiti di alto livello (formidabile quello con Calabresi e Gramellini, due modi molto diversi di strappare applausi – direi), c’è stato l’enorme filone del food, c’è stata soprattutto una gigantesca carrambata collettiva. Eh sì, perché se Riva del Garda è sempre stato un “ri-trovo” dei blogger della prima ora, Rimini è stata la fiera del “trovo e finalmente ti conosco”. Si è registrata una netta maggioranza, per capirsi, di “quelli che io alla Blogfest non c’ero mai venuto e mi sembra stupenda”, quasi stupiti dell’eco di tutte le polemiche e i veleni pregressi maturati in troppi anni di autoreferenzialità e di chiusure a riccio. Da solo, questo risvolto giustifica il trasferimento nella più raggiungibile ed accogliente riviera romagnola.

Poi vabbè, il rischio del millesimo panel schiacciato tra neo-luddisti e tecnofatalisti è sempre dietro l’angolo. Però la sensazione è sempre quella: mondi, ambiti, contesti (sto provando a non scrivere “caste”) che sentono la loro professionalità minacciata dai nuovi modi di fare le cose con la rete. Gente che piuttosto di ammettere di doversi spostare di un millimetro (dalla propria Olivetti Lettera 22, dal borderò, dal centro media, dal comunicato stampa, dall’inviato barricato nella suite dell’Hilton di Nairobi col giubbotto Wrangler comprato a Piazza Vescovio) preferisce stare a guardare il meteorite dello Yucatan che diventa sempre più grande sulla propria testa.

Proprio ieri leggevo un libro sulla storia dei trasporti pubblici a Roma. Pare che quando furono introdotti i tram elettrici (mentre i primi tram erano trainati sulle rotaie da cavalli) i conducenti delle vecchie vetture, pur essendo i naturali candidati a guidare quelle nuove, si rifiutavano di sottoporsi a quel minimo di riconversione professionale necessaria per affrontare la transizione. Secondo loro, gli utenti del servizio avrebbero dovuto continuare ad apprezzare la loro competenza nella gestione delle stalle e dei depositi per le vettovaglie degli animali da traino. Gli utenti avevano in realtà solo bisogno di un trasporto pubblico più efficiente, di vetture più veloci, di strade più pulite. Così le compagnie di tram non ci misero più di tanto ad assumere conducenti nuovi.

Ecco, a me i vari Gramellini e Merlo, quando si scagliano contro twitter, fanno lo stesso effetto dei conducenti-stallieri. Sono degli straordinari, impareggiabili conducenti, ma si rifiutano di abbandonare i cavalli e la biada.

Chissà per quanto, alla blogfest o eventi simili, continueremo ad assistere a discussioni su transizioni che non vanno più nemmeno raccontate, perché sono sotto gli occhi di tutti. A meno che non ci si esalti nell’osservare un declino ripreso in super-slow motion. Dove la scena al rallentatore, col meteorite che si avvicina e alla fine si schianta al suolo, avviando un inverno lungo mille anni, la manda in onda la sapiente regia del festival. Proprio perché il pubblico – in fondo – non aspetta altro.

La tecnologia è sopravvalutata

danielProvate ad aprire il menu “impostazioni” di Facebook. Non passa settimana che non venga introdotta una nuova funzionalità per dare all’utente il massimo controllo possibile – da un punto di vista tecnologico – del proprio account. A partire dalle liste, che permettono di scegliere chi può vedere i nostri post, per proseguire con la privacy (chi mi può contattare, chi mi può taggare, chi può vedere quello che gli altri postano nella propria timeline, ecc. ecc.) per finire con le opzioni “block” e “report”, in caso di decisioni più drastiche.

Se proviamo ad approfondire, scopriamo che è un trend generalizzato. I cosiddetti “Over The Top” players (e quindi anche Google, Amazon, EBay, ecc.) pensano così di rispondere alle crescenti – e ingiustificate – accuse di prestarsi agli abusi, quando non al compimento di veri e propri reati.

Si tratta, per carità, di funzionalità utilissime, ma che prestano il fianco a un equivoco: quello che il problema dell’uso dei social media (e quindi anche la soluzione degli abusi) sia un problema tecnologico. Cedere, come fanno gli OTT, a questo equivoco significa legittimare le posizioni di chi – spesso per difendere le proprie piattaforme di comunicazione “a una via” – accusa i social media in quanto tali, cioè “a due vie”. In quanto, per l’appunto, “social”.

In un social media, per quanto ricco di nuove funzionalità e di opzioni di personalizzazione, gli “effetti emotivi” di una azione compiuta nei nostri riguardi ha in realtà a che fare in primissima battuta coi codici (e quindi coi significati) che individualmente attribuiamo a tali azioni.

L’esempio più banale è il famigerato “Poke” di facebook. A seconda del contesto, del vissuto delle due persone che se lo scambiano, del significato individuale che gli attribuiamo se arriva da uno sconosciuto o comune se fa parte di una “storia” o di un linguaggio tra persone in confidenza, potrà voler dire molte cose diverse e determinare effetti emotivi molto diversi. Non a caso, quando fu introdotto,  non avendo alcun codice comune di interpretazione, generò parecchi equivoci.

Ma i problemi principali nascono dalla confusione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Infatti, quando scriviamo qualcosa in pubblico, spesso mandiamo un messaggio speciale a qualcuno in particolare, pensando che lo possa leggere in un certo modo,  presumendo di avere un codice comune di intepretazione di quel messaggio. O magari ci rivolgiamo alla nicchia che condivide il nostro linguaggio pensando che ciò sia sufficiente perchè possa essere decodificato nel modo che desideriamo.

A volte, inconsciamente o meno, gestiamo i nostri messaggi pubblici con le logiche della comunicazione di massa. Se siamo molto noti in un ambito ristretto (se ci leggono spesso – diciamo – un migliaio di persone) ci comportiamo da “microcelebrità” e pensiamo di rivolgerci indistintamente alla nostra “micromassa”, adottando un nostro stile che riteniamo sia “micro-universalmente riconosciuto”. E tutti questi ossimori (microcelebrità, micromassa, microuniversale ecc.) dovrebbero rivelarci quanto mal riposta sia la nostra speranza di aver scritto un codice forte come quelli consolidati in anni da chi (giornali, radio, televisioni) poteva nutrire questa ambizione per il fatto di gestire canali esclusivi e monodirezionali.

Sovente ci comportiamo come quegli adolescenti che avendo una propria grezza idea di come debba svolgersi una relazione sociale rimaniamo delusi (e scornati) quando vediamo che l’interlocutore, banalmente, la vede diversamente.

Pensiamo alla famigerata funzione “visualizzato alle” di Whatsapp. il “Gruppo A”  dà per scontato che l’instant messaging richieda sempre una risposta immediata. Altri, il “Gruppo B”, lo considerano un mezzo del tutto asincrono, proprio come la posta elettronica.  Ebbene, i primi si sentiranno in obbligo di rispondere sempre e subito, magari anche frettolosamente. E per non avvertire la pressione di tale obbligo, troveranno utile disabilitare la funzione “visualizzato alle”. Il Gruppo B, inversamente, ignorerà serenamente quella funzione, mentre magari risulterà infastidito dalla brevità di una risposta, per quanto immediata. Ovviamente nessuno ha scritto una regola valida per tutti, e la possibilità introdotta dalla piattaforma di “non rendere pubblico il momento in cui abbiamo visualizzato un messaggio” non risolve minimamente gli equivoci che ne possono nascere.

Per dissipare, negli anni, questi equivoci, occorrerà capire col tempo a quali esigenze strettamente “sociali” degli utenti vengono incontro queste tecnologie. Dobbiamo imparare la lezione degli anni ’90, quando sviluppavamo una tecnologia pensando di indurre un bisogno (c’è un’intera scuola di marketing che poggia su questo assunto) mentre di fatto stava per accadere l’esatto contrario. E’ in quegli anni che furono fatti ingenti investimenti per permettere la fantascientifica “videotelefonata”, salvo poi scoprire che a nessuno interessava essere disturbati nella propria intimità, e dover gestire l’enorme carico sociale della propria immagine, in un momento deciso non da noi, ma da chi faceva squillare il nostro telefono. Ed è sempre in quegli anni che – senza fare grossi investimenti – fu deciso di sfruttare una caratteristica dello standard GSM per permettere agli utenti di inviare brevi messaggi di testo, gli SMS. Scoprendo così che la vera esigenza a cui non era stata data risposta era appunto quella di una comunicazione asincrona e a basso impatto emotivo. Una lezione che ancora in molti sembrano non aver imparato a sufficienza.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.

I nuovi narcisi e i danni della broadcastiquette

L’esistenza di un luogo dove tutti possono pubblicare tutto ha tante conseguenze. Uno degli effetti più controversi riguarda il rapporto con la nostra immagine e più in generale la pubblicità della nostra vita personale. La prima domanda che mi viene in mente è: quando pubblichiamo le cose più banali della nostra vita quotidiana, dobbiamo davvero preoccuparci se interessino o meno a qualcuno?

Ci pensavo l’altro giorno guardando questo video, invero molto divertente, che prende in giro il tipico “Instagram Heavy Sharer”: compulsivo fino al narcisismo e forse prigioniero di un proprio showbiz del tutto illusorio, alimentato dalle code di “like” del proprio target di riferimento.  Se il video è così divertente è perché nella sua ratio c’è un fondo di verità: su instagram, come su facebook o su twitter, esiste una quota fisiologica di nascisismo con cui noi per primi, ma anche chi ci segue, deve fare i conti.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Di chi è il vero problema? Nostro, perché siamo narcisi e dovremmo invece rientrare nei ranghi in base a qualche superiore principio di decenza collettiva o di chi non sa selezionare i contenuti di proprio interesse sulla rete, e continua quindi ad imbattersi nella nostra faccia? La domanda è legittima, specie se consideriamo che spesso chi si lamenta degli odiatissimi “autoscatti dei piedi” in realtà va in rete proprio perché troverà “autoscatti dei piedi” di cui poter lamentarsi. Il sospetto è quindi che anche le lamentele di chi fa un autoscatto siano sovente, a loro volta, una specie di autoscatto, che serve appunto a proiettare un altro tipo di “io, io, io”, quello che ripete implicitamente – ma altrettanto ossessivamente – la frase “io sono migliore di voi”.

Del resto, come per molte questioni che riguardano la Rete (gli insulti in Rete, le bufale in Rete, il porno in Rete e si potrebbe andare avanti a lungo), non esiste in realtà nessuna specifica versione “online” del narcisismo, anche se c’è una gran voglia di strumenti specifici per combatterlo. Esiste, come è sempre esistito, il narcisismo tout court, quello per intenderci dello struscio del sabato pomeriggio, così come sono sempre esistite le comari puntualmente alla finestra sullo stesso struscio dello stesso sabato pomeriggio.  Semplicemente, così come nei secoli abbiamo accettato l’idea di destinare una quota della nostra espressività alla comunicazione di noi stessi, oggi questo accade con strumenti più puntuali, che ci permettono di farlo compulsivamente, nei confronti dell’universo-mondo (e così ricorriamo al più molesto degli ego-casting, che infatti si rifà alle sempiterne regole del broadcasting), oppure in modo più mirato e consapevole. Per esempio, con l’idea di trasmettere senso – e quindi una precisa emozione – a degli interlocutori che conosciamo e che ci conoscono per come siamo, senza giudicarci. E fregandocene dolcemente di tutti gli altri – quelli che chi giudicheranno – perché sarà un problema loro, non nostro.

La questione è appena più complessa del pur condivisibile principio del “vivi e lascia vivere”. Intanto perché molto spesso, nel retrocranio di chi flagella la pubblicazione della “banalità del quotidiano”, compresa la banalità della nostra immagine, risiedono gli effetti di 50 anni di società dei media esercitata a titolo esclusivo da pochi per il consumo di tutti gli altri, per di più col vincolo di doverne fare un business.  Ma c’è un altro aspetto da non trascurare: se questi fustigatori avessero ragione, vorrebbe forse significare che dovremmo abbandonare del tutto la pubblicazione di contenuti personali, compresa la nostra immagine?  Magari per non urtare la suscettibilità dei depositari di una nuova “netiquette” che – come appena accennato – altro non è che il riflesso di una antichissima – e di dubbia efficacia sulla moralità pubblica – “broadcastiquette”? E infine: deve davvero passare il principio che pubblicare “cose nostre” abbia come unico scopo quello di attirare attenzione, essere immediatamente gratificati da un like, da una stellina, da un complimento? O qualcuno, magari una crescente minoranza, intende semplicemente esercitare una cosa troppo spesso dimenticata che si chiama “libertà d’espressione”, un diritto che forse riteniamo “tecnologicamente ormai acquisito” grazie al Web, quando in realtà basta una reazione neo-luddista, un riflesso condizionato dal passato, a rimetterlo in discussione?