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Chiamala, se vuoi, RAItudine

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Ebbene sì, mi tocca parlare ancora della RAI. Ma stavolta non è per scongiurare con una petizione la cancellazione dei video d’archivio da YouTube, o per parlare di OTT-TV, Social TV, modelli di business e altri temi poco estivi.

No, questo è proprio un post sentimentalista, di quelli che si scrivono sotto l’ombrellone ripescando nei propri ricordi e nei propri istinti primari.  Il motivo di questa struggenza agostana è che la RAI, per un verso e per un altro, negli ultimi tempi è tornata far parte della mia vita, dopo qualche doloroso anno di “ok, ma restiamo amici”. E questo tipo di ritorni di fiamma, per uno che si spaccia per un freddo studioso degli ecosistemi dei media, può avere effetti collaterali dirompenti da un punto di vista emotivo.

Ripensandoci, il punto è che l’aver studiato la RAI e le sue evoluzioni, prima per gioco e poi anche per lavoro, è stata solo l’ovvia conseguenza di un mio desiderio infantile, e cioè un mondo in cui le persone – alla radio e alla televisione – avrebbero visto e ascoltato le cose più belle (sì, ho scritto proprio “più belle”, non a caso ho usato l’aggettivo “infantile”), e non quelle decise da un responsabile marketing della Findus.

Il che sposta da sempre la mia attenzione molto più sull’evoluzione delle radio e delle televisioni pubbliche, nel mondo, rispetto alle varie aziende televisive private, per le quali la missione è ovviamente e legittimamente fare profitti, a prescindere dal valore del contenuto.

Come ben sappiamo la RAI, negli ultimi anni, complici una serie di vicende politico-economiche più o meno note a tutti, ha finito per costituire una versione “sfigata” della televisione privata sia nel modello di business sia, come conseguenza, nella tipologia dei contenuti, allontanandosi notevolmente da questo tipo di utopia alla quale – almeno idealmente – il contratto di servizio sembra tutt’ora ispirarsi.

Lo scopo di chi ha indirizzato questa ormai trentennale deriva era precisamente e consapevolmente quello di far vincere il privato. E’ il privato, infatti, ad aver potuto in Italia operare in una sostanziale condizione di monopolio, e tutta l’operazione è stata resa ancora più facile dal sostanziale e tutt’ora perdurante dominio di un solo soggetto su tutta la raccolta pubblicitaria televisiva. Un dominio che permette a costui di stabilire non solo quali prodotti esistono, ma anche quali politici sono ancora in vita, quali fatti avvengono, quali problemi affligono il paese e quali sono le soluzioni a tali problemi. Se non abiliti quel modello, se non rispetti quel vincolo non vai in TV, quindi per gli italiani semplicemente non esisti.

Ora, io sono ben consapevole dell’argomento che qualcuno potrà opporre rispetto a questa premessa. Prima ancora di stabilire quale sia la missione di un servizio pubblico, e se davvero di un servizio pubblico radiotelevisivo vi sia bisogno, chi può salire su un piedistallo e stabilire cosa è un contenuto di valore e cosa non lo è? Non è forse questo intervento pretenzioso ad opera di una presunta élite intellettuale nel libero mercato dei contenuti a costituire in linea di principio l’infrazione di una libertà fondamentale dell’individuo, quella di nutrirsi dei contenuti (e dei valori) che vogliamo, proprio come ognuno ha il diritto di saccheggiare gli scaffali di junk food nei bar e nei supermercati?

Ecco, c’è un problemino. Questi ultimi trent’anni hanno dimostrato che questo  argomento è tutt’altro che ineccepibile, e ce lo dicono in primis i desolanti dati sull’analfabetismo di ritorno. Semmai tale tesi ha costituito l’alibi perfetto che ha permesso alla televisione pubblica di svuotarsi di tutto quel racconto dell’Italia e del mondo che grandissimi professionisti, almeno fino a tutti gli anni ’80, hanno provato a riversare nelle case degli italiani. Creando un linguaggio e persino una lingua comune, per cominciare, ma anche tanti motivi per stare insieme, per non guardarsi sempre e comunque in cagnesco sul pianerottolo, come pare oggi, nei tempi della crisi di sistema e dell’inevitabile, quotidiana “guerra dei poveri”.

E l’essere stati capaci, per tanti anni, di far scoprire agli italiani la cultura, il teatro, il cinema e persino di dare una rappresentazione alta della politica, al fianco di un intrattenimento leggero ma sempre “degno”, nel senso del rispetto dell’intelligenza del telespettatore, non fu – almeno a mio parere – solo merito di competenze e professionalità, ma anche di una pratica consolidata negli anni, quella che ho sempre chiamato “RAItudine“. Che poi è rimasto l’unico vero tratto distintivo del nostro servizio pubblico anche rispetto a quelli degli altri Paesi, animati in larga misura da propositi e missioni simili.

E che cos’è questa RAItudine di cui sto vaneggiando? Beh, in estrema sintesi potrei chiamarla quella capacità di rendere leggera e parte del nostro quotidiano quella stessa pesantissima missione e quegli stessi impegnativi propositi: educare il Paese, far scoprire la bellezza delle nostre diversità ai nostri stessi connazionali, consolidare la coesione sociale e il rispetto dei valori comuni attraverso la diffusione di uno stile e di un linguaggio comune.

Tutte cose che – si badi bene – nell’immediato dopoguerra non c’erano, e che quindi andavano inventate ex novo. Una operazione che richiedeva un fortissimo senso di responsabilità,  quella responsabilità che chi ha svuotato di senso il servizio pubblico sa bene di aver dovuto mettere da parte, magari con l’ipocrisia ormai ventennale dei bollini verdi e rossi che tutto e il contrario di tutto hanno fatto penetrare dal video direttamente nelle teste delle ultime generazioni.

Certo, i Bernabei che si inalberavano per le calze color carne delle gemelle Kessler erano davvero degli inguaribili e dannosissimi bacchettoni. Eppure dietro l’ingenuo scrupolo si celava proprio quella magica parola, “responsabilità”, che oggi, in virtù dell’inattaccabile alibi liberista, vorremmo rimuovere del tutto dalla tag cloud dei nuovi costruttori di immaginari, dei nuovi piani della rapprentazione di un Paese che forse ha paura del proprio essere “Paese Reale” (e infatti ne racconta un altro, che non è mai esistito).

La cosa affascinante che ho scoperto negli ultimi tempi, e che mi fa ancora sperare in un ritorno se non a quella RAI, che ha fatto ampiamente il suo tempo, a quel senso di responsabilità, è che i residui fossili della RAItudine hanno ben resistito a trent’anni di Pensiero Unico Berlusconiano e all’arrivo in massa delle sue truppe cammellate in tutti i luoghi di potere, RAI compresa.

Ricordate quando Sandra e Raimondo furono letteralmente comprati da quella che allora si chiamava “Fininvest”? Ce li ritrovammo eternamente vestiti lui in un clamoroso smoking, lei in un tripudio di paillettes obbligatorie, un po’ imbarazzati al centro di un lustratissimo studio milanese, quasi a voler essi stessi costituire l’unico motivo per farci cambiare canale. E infatti, privi di autori all’altezza e costretti a improvvisare (eh sì, il “Sandra e Raimondo Show” impallidiva di fronte al leggendario “Tante Scuse”), ci facevano cambiare due volte: la prima per andare su Canale 5, la seconda per tornare a guardare Benigni e Troisi sulle reti di stato.

Eppure proprio quella spregiudicatezza che i cugini d’oltralpe rispedirono al mittente (con tutto il cucuzzaro di “La Cinq”, che brividi) da noi trovò terreno estremamente fertile. Non ne potevamo più di Fanfani che ritardava l’arrivo della TV a colori (“gli italiani non possono permettersela in piena crisi petrolifera”), degli anatemi di Pasolini contro il consumismo che distruggeva la nostra innocenza. Perché noi quell’innocenza volevamo prenderla a martellate. Volevamo un mondo scintillante di soubrettes finalmente scollate proprio perché eravamo sessualmente repressi, perdendo così anche il treno di una vera liberazione sessuale di stampo mitteleuropeo, che invece quasi riuscì persino alla Spagna di Felipe Gonzales, ansiosa di liberarsi in fretta dalle pastoie di decenni di catto-franchismo.

Probabilmente si trattò di un passaggio obbligato. Il problema è che ne affidammo le redini a chi, come oggi sappiamo, pensava a tutt’altro. Mentre, per dire, nel 1969, quando fu allestita in RAI la diretta fiume per la conquista della luna, qualcuno che pensasse a noi, a noi telespettatori (e non al responsabile marketing della Findus, in prima battuta) c’era davvero.

E quindi, invece di copiare le musiche roboanti che contrassegnavano l’analoga moon coverage sulle privatissime CBS, ABC e NBC, c’era qualche assennato Capo Struttura che decise di attenuare l’enfasi, rilassarci con una sorta di musica d’ascensore mentre Andrea Barbato e Tito Stagno annunciavano i collegamenti con Cape Canaveral e le altre sedi collegate. Ecco, per farvi capire bene cosa intendo con RAItudine, vi invito a sbirciare le immagini di quella serata televisivamente perfetta, che – con tutti i vincoli tecnici dell’epoca – più di ogni altra cosa fa capire cosa e come dovrebbe essere un servizio pubblico quando racconta un evento di quella portata a una intera nazione. E in che modo la televisione fosse ancora in grado di incarnare il concetto di “responsabilità”.

Ebbene, la cosa che sto scoprendo in questi giorni è che l’eredità, o forse solo i residui fossili di quel tipo di indispensabili scrupoli nella televisione pubblica ci sono ancora oggi. Per esempio quando “sente” di dover adottare HTML5 nei formati dei video sul web. Oppure quando avverte l’obbligo di sperimentare l’interazione con altri schermi, quelli che la televisione privata guarda ancora con terrore. O quando ti inonda il salotto delle austere e mai interrotte note del quinto canale della filodiffusione, che oggi viene correttamente definito un canale di pubblica utilità.

Ma anche quando mette a disposizione in podcasting quasi tutte le più importanti rubriche radiofoniche, e non ha paura di usare questa parola nei richiami delle sigle finali  (“tutte le puntate sono disponibili in podcast”). Qualcosa resterà, pensa la testa del broadcaster, e magari qualche nipote potrà spiegare alla nonna come non perdere più una puntata di Fahrenheit.

E infine quella RAItudine ancora salta meravigliosamente fuori quando un pioniere del Web 2.0 come Antonio Sofi chiama a raccolta, fin dentro i teatri di posa di Via Teulada, un manipolo di twittaroli (il neologismo è della formidabile Celestina Pistillo), con l’intento di  movimentare i talk show della prima serata. Forse l’unico modo, far entrare la Rete fin dalla concezione del format, per aprire un programma come Millennium alle suggestioni e alle provocazioni di Twitter, non più e non solo un rutilante esercito di aforisti da strapazzo, ma anche una arena di vox populi in tempo reale.

Ecco, io vorrei tanto che dalla tenacia dei consapevoli e inconsapevoli, vecchi e nuovi vessilliferi della RAItudine, dell’amore per il Pubblico, del primato dello scrupolo sul modello di business imparassimo anche noi, anche noi blogger o quello-che-siamo-diventati che, lasciatemelo dire, secondo me continuiamo a scrivere e a pubblicare le cose migliori proprio quando nessuno ci paga, o meglio quando ci appaga il senso di libertà e il voler bene a chi ha la bontà di seguirci.

Perché è del tutto legittimo scrivere, parlare in pubblico, salire su un palco per essere notati e alla fine anche meritatamente ingaggiati da una radio, da una televisione o da una casa editrice. Ma quando vi leggo, che poi è un po’ come guardarvi negli occhi, le cose più belle mi arrivano quando le pensate, o le “sentite”, libere – e quindi gratis.  Per me che vi leggo e – ahimé – anche per voi che le scrivete.

E non, per intenderci, quando qualcuno vi mostra i lontani bagliori delle paillettes di una imbarazzatissima Mondaini, ma solo dopo aver stilato l’inesorabile e antichissimo elenco delle regole per farvi “funzionare”.

 

Il Web e i sonni tormentati di Michele Serra

amaca2Nella sua “Amaca” di oggi, che mi permetto di pubblicare qui sopra nonostante la minacciosa dicitura “Riproduzione Riservata” (appellandomi l’art. 10 della Convenzione di Berna per i fini di discussione), Michele Serra sostiene che l’aumento degli spettatori al cinema (+6% nel 2013) sarebbe un dato sufficiente per smentire non solo la crisi del cinema in sala, ma anche dei giornali, dei libri, della televisione a vantaggio del presunto “web social-cannibalizzante” che come sappiamo tormenta da qualche tempo i sonni dell’autore.

Ora, premesso che di crisi del consumo di cinema nelle sale non mi pare se ne parli più, o meglio se ne parla – a sproposito – dagli anni ’80 (quando il Web era un giochino per militari e accademici nerd) ci sono alcune sconnessioni logiche nel ragionamento di Serra che mi rendono un po’ perplesso.

Secondo la sua tesi la crescita del pubblico dei film in sala dimostra che evidentemente il web, che impone un consumo “monocratico” e “autistico” (queste le sue eleganti parole) davanti a uno schermo personale, non permetterebbe alla gente di uscire di casa, frustrando la naturale “voglia di condividere lo spettacolo con altre persone” di ognuno di noi. Di qui “l’effetto rinculo” che riporterebbe la gente in massa nelle sale cinematografiche.

Il problema è che Serra estende la portata delle sue conclusioni per dimostrare che l'”intero vecchio mondo mediatico” sarebbe dunque al riparo delle “previsioni funeste” dei “nuovisti”. Ne dedurremmo che, secondo lui, presto la gente leggerebbe sempre fuori di casa, in compagnia, il giornale o un libro di carta, ascolterebbe sempre fuori di casa, ancora in compagnia, la radio a transistor e infine guarderebbe sempre fuori di casa, sempre in compagnia, la televisione catodica e con la valvola termoionica. Nel 2014 quindi funzionerebbe come nel 1961, quando i miei genitori, grazie alla TV catodica che trasmetteva “Lascia o raddoppia?” in un bar di Montecatini, si conobbero “nel mondo reale” permettendo così la mia nascita qualche anno dopo.

Al di là di questo evidente salto logico, che sembra voler ignorare la sacrosanta peculiarità dell’esperienza “in sala” (su cui mi sono già ampiamente speso, come racconta Maria in questo post), colpisce la spregiudicatezza con cui Serra sia del tutto indifferente al fenomeno per cui le persone, proprio grazie al Web e agli schermi portatili:

1) fruiscono contenuti lontano da casa, nei tempi morti, liberando del tempo per la propria vita sociale “fisica” (per esempio guardano un film o leggono un e-book sui mezzi pubblici mentre vanno al lavoro o a trovare gli amici)

2) usano i social network come Facebook, e sempre più le piattaforme di instant messaging non tanto per “surrogare” una qualche vita sociale su uno schermo personale, ma per permetterla lontano dallo schermo: si organizzano, creano eventi, si danno appuntamento nel mondo reale, lontano dalle case in cui erano confinati quando era proprio la televisione a fungere consapevolmente da “surrogato” (con i reality, per fare l’esempio più lampante).

Da un giornalista del calibro di Serra, che si richiama da sempre a un inderogabile illuminismo cartesiano, non mi aspettavo un ragionamento così sgangherato. E non so se augurarmi se si tratti di una piccola perdita di lucidità, o solo dell’ennesimo, maldestro tentativo di tirare l’acqua al mulino del “vecchio medium” di turno.

What’s Broadcast, and what’s not?

Sempre più spesso mi capita di leggere o ascoltare frasi come “Twitter non è conversazionale, è broadcast”. La mia sensazione è che al fianco del deprecabile fenomeno delle buzzwords che durano il tempo di far sembrare “nuovi” quelli che le usano per primi, stia prendendo corpo la tendenza di attribuire a parole antiche, come “broadcast”, significati fantasiosi.

Lungi da me fare il lexicon-nazi (per me i Beatles sono diventati grandi comunicatori quando hanno iniziato a strillare “she don’t care”, per dire). Il punto è che si comincia ad esagerare. Con questa parola, “broadcast” ormai si iniziano ad intendere significati che – ad essere clementi – potremmo definire tirati per i capelli. Twitter e Tumblr vengono definiti “broadcast” perchè non incoraggerebbero la risposta e il canale di ritorno, favorendo invece il meccanismo dell’amplificazione dell’audience attraverso il meccanismo del retweet o del reblog.

Niente di più falso. Sia Twitter che Tumblr poggiano su una infrastruttura a due vie. Se le  due piattaforme sembrano incoraggiare un uso “spannometrico” ciò non significa che gli utenti rinuncino ad utilizzare il canale di ritorno, e questo a prescindere da funzionalità come il “like” di Tumblr o il “reply” di Twitter. E’ proprio il feedback in tempo reale, in ogni caso, a rendere questi mezzi completamente diversi rispetto – per intenderci – alla radio o alla televisione. Essi permettono infatti – attraverso la curation – di costruire e ricondividere senso, cosa che nel broadcast non è possibile e – aggiungerei – nemmeno auspicabile.

Non è una questione di poco conto. Quando venne inventata la radio, non fu dato per niente per scontato se dovesse essere utilizzata la tecnologia broadcast (radioaudizioni circolari) o quella a due vie (radioaudizioni telefoniche). E quando fu scelta la prima, è stato comunque possibile per decenni ascoltare programmi anche attraverso il telefono. L’Araldo Telefonico è stato uno dei più popolari di questi, e ovviamente già allora era disponibile “on demand”.

La scelta del tutto ovvia di andare “on the air” per raggiungere a condizioni più economiche il maggior numero di fruitori, attraverso la modulazione di ampiezza, implicò non solo la mancanza fisica di un canale di ritorno nella catena distributiva, ma anche il principio della distribuzione lineare (e quindi del “palinsesto”), e infine  l’accettazione di un criterio di tipo “best effort” sia per la qualità della trasmissione sia per la misurazione dei risultati. L'”era del broadcast” di cui forse (e sottolineo forse) stiamo osservando le prime luci del crepuscolo determinò tutta una serie di vincoli: negli stili, nei linguaggi, nei modelli di business e nelle modalità d’uso.

Tutti vincoli che nè Tumblr, nè Twitter nè – per fare un esempio più sofisticato – oggetti come Pleens pongono all’utente e al gestore della piattaforma. Così, per fare chiarezza.

Stili

Al di là delle conseguenze più immediate del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti, negli ultimi giorni in parecchi si sono spesi per descrivere il cambiamento del modo di comunicare riscontrabile nel nuovo Governo. In particolare, sono stato colpito dall’analisi molto acuta di Giovanni Boccia Artieri, che nella sua rubrica per Apogeo (sul cui nomeavrei qualcosa da dire :)) sottolinea l’adozione di una “strategia del silenzio” e dell’antidivismo che permetterebbe al nuovo esecutivo di conservare un consenso diffuso nonostante le misure impopolari che il Paese dovrà affontare.

A questo proposito avrei un paio di considerazioni da fare. Sulla scelta del “silenzio”, distinguerei i mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, radio) dai mezzi di comunicazione istituzionale (le dirette dal parlamento, le conferenze stampa, le apparizioni in occasioni pubbliche). La mia sensazione è che l’apparente rinuncia al controllo delle “uscite” sui primi, che Berlusconi come sappiamo aveva gioco facile a presidiare, non sia altro che l’ovvio contraltare di un consapevole e assiduo uso dei secondi.

Il punto è che qualcuno sembra essersi finalmente accorto che da qualche tempo gli strumenti “non mediati”, una volta riservati agli addetti ai lavori (le sedute a della Camera, la conferenza stampa, i convegni e i seminari) sono finalmente – grazie al web, o banalmente, alla moltiplicazione dei canali digitali (si pensi al canale eventi di SkyTG24) – alla portata di un pubblico sempre più ampio. Un pubblico sempre meno di nicchia che, come Boccia Artieri ha sottolineato, commenta e ricondivide in tempo reale, ampliandone ulteriormente l’effetto prima che passi dal tritacarne dei “commentatori politici” che dovrebbero orientare opinioni e consenso.

In prima battuta, dunque, arrivano i canali istituzionali, diretti e immediati e ricondivisi dagli utenti, che li commentano in tempo reale, certificando un sentiment che non risente dell’onda lunga dei talk show serali o dei “pastoni” politici del giorno dopo. Questo i giornali sembrano non averlo ancora capito, tant’è che ormai perdono più tempo a farsi la rassegna stampa incrociata tra loro che a capire davvero cosa stia succedendo nell’opinione pubblica.

Poi c’è il tema dello stile e dell’antidivismo. Io credo che Berlusconi, a un livello superficiale – quello che ha sempre ispirato la gestione della sua immagine pubblica, nella convinzione che gli elettori ragionassero (sono parole sue) come un bambino di quattro anni – fosse effettivamente ossessionato dalla necessità di dominare la scena sempre e comunque, a qualsiasi costo, compreso il rischio di clamorose gaffes che peraltro spesso altro non erano che ballons d’essai per testare la reazione del pubblico e degli interlocutori politici. Tutto questo, con Monti, dovrebbe essere ormai alle nostre spalle, dato che il primissimo scrupolo del suo Governo dovrebbe essere quello di recuperare la credibilità internazionale verso il nostro Paese.

Ma non traiamone conclusioni affrettate. La politica ha sempre giocato, e sempre giocherà, anche su precise leve emotive. Per questo avrà sempre i suoi divi. Elsa Fornero, a prescindere dal grado di spontaneità della sua reazione, pare averlo capito benissimo, e oggi gioca con straordinaria maestria il ruolo di “persona consapevole dei problemi e delle responsabilità”, fino a scendere nel midollo delle nostre speranze e delle nostre paure. E ne è anche una rappresentazione plastica, con le sue rughe che sono al contempo simbolo ostentato di lavoro, esperienza e conoscenza delle spine della vita. Quelle che tutti noi, sembra quasi volerci implicitamente dire, dovremmo tirar fuori senza vergogna nel momento del bisogno, e cioè oggi, ai tempi del “blood, sweat and tears”. Si potrà discutere a lungo se poi a pagare saranno in equa misura “i soliti noti”, ma va detto che questo “standing” della signora Elsa pare essere infinitamente più potente sia dei grafici e delle tabelle di Giarda che delle ormai leggendarie lavagne a fogli mobili dove Berlusconi vergava i suoi immaginifici “contratti con gli italiani”.

E il messaggio è ancora più potente se pensiamo ai volti lisci e levigati di chi, ricoprendo le responsabilità”delle pari opportunità” o “dell’ambiente” sembravano occupare la scena pubblica col preciso scopo di rappresentare fisicamente la soluzione del problema, piuttosto che il processo necessario per affrontarne le difficoltà.

Per rimanere in tema di ministri donna, il contrasto è davvero stridente tra personaggi come Maria Stella Gelmini e Anna Maria Cancellieri. Quando vidi per la prima volta l’ex ministro dell’Istruzione pensai subito che qualcuno avesse deciso che gli italiani non abbiano la minima idea sul ruolo di un ministro. Pensai davvero, come ci suggerisce Caterina Guzzanti, che dovesse interpretare nel nostro immaginario una sorta di super maestrina ideale, dotata di una specie di buonsenso al quadrato che avrebbe permesso di farci digerire i tagli alla scuola. La Cancellieri, agli Interni, è l’esatto contrario: non solo un “tecnico” che da anni si scontra coi problemi della pubblica sicurezza, ma anche l’immagine plastica del caterpillar cui si ispirano molti dirigenti pubblici in carriera, nella (ahimè) giusta convinzione che prima della giustezza delle idee è il timore del brutto quarto d’ora che passerai se ti metti di traverso a farti avanzare sulla strada del vertici del potere. Per gli italiani, indubbiamente, una immagine rassicurante, ma non esattamente un concetto moderno di leadership pubblica.

Chiudo con una nota sui comportameni e sui linguaggi. E’ indubbio che dal punto di vista oratorio Monti non sia esattamente un trascinatore. Però in queste sue prime apparizioni da premier ha dato prova di un sapiente uso delle pause. Pause che non servono tanto a creare tensione (e in questo il maestro era Craxi) ma proprio per dare la sensazione di qualcuno che non recita un copione. Che – mi rendo conto dello shock – sembrebbe addirittura pensare prima di aprire bocca. E mostrare quindi un minimo di rispetto per l’interlocutore, nel senso di prendersi un attimo per trovare le parole giuste per lui, in una sorta di riedizione politica del “marketing to one”. Ma non solo: riguardatevi la sua reazione rispetto all’ennesima indegna gazzarra dei parlamentari leghisti. Quello del premier è uno sguardo incredulo, di chi sembra sceso da un altro pianeta. Di chi, soprattutto, non prova a gabellarti per “obbligo democratico” il fatto di rispondere a tono, scendendo così sullo stesso piano di chi utilizza quella tribuna per manifestare il massimo spregio verso le nostre istituzioni. E’ la Lega che – da questo confronto mediatico – esce miseramente smascherata e incastonata negli anni ‘90, quelli in cui ci si poteva permettere di inscenare teatrini perchè la conquista delle ribalte, il superamento di quella famosa linea rossa della visibilità era l’unico vero problema sentito dalla politica, visto che la crisi non la vedeva ancora nessuno.

Un segnale definitivo di cambiamento sarà quando i nostri leader non si sentiranno in diritto di chiamare l’ANSA per una dichiarazione di smentita, ciò che negli ultimi vent’anni ha significato per tutti, persino per la smaliziatissima stampa mainstream, che la verità era appunto ciò che si intendeva smentire. Ricordate? eravamo arrivati a un punto in cui se un esponente dle Governo dichiarava ufficialmente “Non esiste alcun rischio di [elemento negativo a piacere]” significava che era davvero arrivato il momento di preoccuparsi.

Non so cosa ci riserveranno i prossimi mesi, ma spero tanto che dietro a questo cambiamento di stile, molto più consapevole di quello che sembra,  vi sia anche la capacità – dopo aver ripristinato un corretto rapporto con la scena pubblica –  di tornare ad occuparsi della cosa pubblica.

Neutralità dei device: no, il dibattito no!

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Qualche tempo fa, dopo aver scritto quel lungo post sulla neutralità dei device rispetto ai contenuti, pensai che forse la cosa migliore sarebbe stata mettere la testa sotto la sabbia e aspettare che passasse la tempesta. E in effetti dopo la pubblicazione ho ricevuto qualche feedback interessante, in azienda e fuori, ma nulla da far pensare a qualche serio effetto collaterale.

Ma mi ero dimenticato di Luca Nicotra, che aveva fatto ricircolare il testo all’interno dell’associazione Agorà Digitale, il quale ci ha messo davvero poco a organizzare un dibattito ospitato da Radio Radicale, prendendo la mia provocazione come uno spunto per parlare di un tema che ha indubbiamente forti implicazioni politiche.

Così, giovedì scorso ho potuto confrontarmi sulla questione con personaggi del calibro di Stefano Epifani,Nicola MattinaDavide BennatoAlberto Marinelli e Andrea Portante d’Alessandro, che in Rai gioca da sempre il ruolo dell’innovatore a oltranza, e che certo non si fa spaventare da una tematica così “futurista”.

Ne è venuta fuori una discussione (spero) all’altezza della situazione, che vi invito ad ascoltare – magari scaricandola sul vostro iPod –  alla prima occasione utile. Per avere il vostro parere, naturalmente