Archivi del mese: novembre 2012

Connecting Television, making (stiff) money

Presentazione del libro Connecting TelevisionChe fare soldi facili sfruttando la convergenza tra internet e televisione fosse una chimera lo si era capito già da qualche anno. Al di là degli ostacoli “strutturali”, del resto, i nuovi modelli di business sono ancora molto immaturi. Non a caso i primi a cogliere qualche opportunità (banalmente per il fatto di avere qualche soldo da investire) sono soggetti provenienti dal “vecchio mondo”, come major e broadcasters. Chi magari avrebbe la giusta cultura e una sufficiente “verginità” per sperimentare qualcosa di davvero nuovo, come le molte startup che si stanno cimentando nell’impresa (un nome per tutti: Boxee), trova purtroppo notevoli  difficoltà a convincere gli investitori, o comunque è costretto a scendere a pesanti compromessi.

Un’occasione per approfondire il tema potrebbe essere la presentazione, domani pomeriggio, alle 17 in Via dei Volsci 112, del volume “Connecting Television, la televisione al tempo di Internet”, curato da Alberto Marinelli e Gianni Celata, e al quale ho contribuito con un capitolo – guarda caso – sui possibili nuovi modelli di business che si possono costruire attorno alla Web TV e alla OTT-TV.

Interverranno persone che hanno sicuramente qualcosa di interessante da dire sul tema, come Gina Nieri (Mediaset), Enrico Menduni (Uniroma3) e Oscar Cicchetti (Telecom Italia). Se quel pomeriggio non avete pilates, mi farebbe piacere discuterne insieme. A domani, allora.

[EDIT: è in linea la registrazione MP3 della presentazione. Si può scaricare qui]

What’s Broadcast, and what’s not?

Sempre più spesso mi capita di leggere o ascoltare frasi come “Twitter non è conversazionale, è broadcast”. La mia sensazione è che al fianco del deprecabile fenomeno delle buzzwords che durano il tempo di far sembrare “nuovi” quelli che le usano per primi, stia prendendo corpo la tendenza di attribuire a parole antiche, come “broadcast”, significati fantasiosi.

Lungi da me fare il lexicon-nazi (per me i Beatles sono diventati grandi comunicatori quando hanno iniziato a strillare “she don’t care”, per dire). Il punto è che si comincia ad esagerare. Con questa parola, “broadcast” ormai si iniziano ad intendere significati che – ad essere clementi – potremmo definire tirati per i capelli. Twitter e Tumblr vengono definiti “broadcast” perchè non incoraggerebbero la risposta e il canale di ritorno, favorendo invece il meccanismo dell’amplificazione dell’audience attraverso il meccanismo del retweet o del reblog.

Niente di più falso. Sia Twitter che Tumblr poggiano su una infrastruttura a due vie. Se le  due piattaforme sembrano incoraggiare un uso “spannometrico” ciò non significa che gli utenti rinuncino ad utilizzare il canale di ritorno, e questo a prescindere da funzionalità come il “like” di Tumblr o il “reply” di Twitter. E’ proprio il feedback in tempo reale, in ogni caso, a rendere questi mezzi completamente diversi rispetto – per intenderci – alla radio o alla televisione. Essi permettono infatti – attraverso la curation – di costruire e ricondividere senso, cosa che nel broadcast non è possibile e – aggiungerei – nemmeno auspicabile.

Non è una questione di poco conto. Quando venne inventata la radio, non fu dato per niente per scontato se dovesse essere utilizzata la tecnologia broadcast (radioaudizioni circolari) o quella a due vie (radioaudizioni telefoniche). E quando fu scelta la prima, è stato comunque possibile per decenni ascoltare programmi anche attraverso il telefono. L’Araldo Telefonico è stato uno dei più popolari di questi, e ovviamente già allora era disponibile “on demand”.

La scelta del tutto ovvia di andare “on the air” per raggiungere a condizioni più economiche il maggior numero di fruitori, attraverso la modulazione di ampiezza, implicò non solo la mancanza fisica di un canale di ritorno nella catena distributiva, ma anche il principio della distribuzione lineare (e quindi del “palinsesto”), e infine  l’accettazione di un criterio di tipo “best effort” sia per la qualità della trasmissione sia per la misurazione dei risultati. L'”era del broadcast” di cui forse (e sottolineo forse) stiamo osservando le prime luci del crepuscolo determinò tutta una serie di vincoli: negli stili, nei linguaggi, nei modelli di business e nelle modalità d’uso.

Tutti vincoli che nè Tumblr, nè Twitter nè – per fare un esempio più sofisticato – oggetti come Pleens pongono all’utente e al gestore della piattaforma. Così, per fare chiarezza.

Sky Arte, l’ambizioso matrimonio tra broadcast e cultura

Dato il panorama piuttosto desolante del broadcasting di casa nostra, c’è solo da rallegrarsi del fatto che da qualche giorno esista un canale televisivo  interamente consacrato all’arte e alla cultura, come Sky Arte HD.

In questi primi giorni di programmazione, devo ammettere che è stato consolante sapere che da qualche parte nell’ormai sterminata guida programmi di Sky avrei potuto trovare un proposta dichiaratamente “culturale”, pur con tutti i vincoli e i limiti della televisione lineare.

Nell’epoca di un Web dove puoi ormai trovare davvero tutto quello di cui hai bisogno per soddisfare la più sfrenata highbrowness, dalla più onesta alla più smaccatamente autoreferenziale, e per giunta sempre on demand, indovinare il modo di conciliare tempi, stili, linguaggi, linea editoriale e soprattutto un modello di business adeguato a un canale di televisione lineare di questo tipo rappresenta una vera e propria sfida che merita tutto il sostegno possibile.

Ma quante possibilità ci sono di vincere questa sfida?   E’ presto per dirlo. Di sicuro, da quel poco che si è potuto vedere finora, Sky Arte ci rivela il suo essere, soprattutto, un “contenitore di cose belle”, senza pretendere troppo di discuterle, o – atto estremo – di farne l’oggetto di un dibattito intellettuale. Il paragone immediato è con l’ormai trentennale esperienza di Arte-TV, la televisione pubblica franco-tedesca, che forse proprio per il fatto di non avere alle spalle un vero e proprio modello di business (la tengono in piedi gli oltre 150 milioni di abbonati alla televisione pubblica dei due Paesi), e anche per la circostanza di costituire l’unica vera e propria “Tele-Sogno” realizzata su larga scala, ha una libertà di linguaggio e di sguardo sulla realtà – il famoso régard decalé – che chiunque abbia come stella cometa il far quadrare i conti non potrà mai permettersi di indossare.

Ed è qui la principale differenza: Arte-Tv non è un contenitore estetico, ma un canale che nasce per far pensare attraverso un terreno comune: il dibattito culturale mitteleuropeo, che mette continuamente in discussione il punto di vista occidentale rispetto alle grandi “forze del mondo”. E con una dialettica legittima ed autorevole proprio perchè espressione di quella “eccezione culturale” giudicata necessaria rispetto ai modelli culturali di massa di matrice anglosassone.

Sky Arte sembra piuttosto guardare all’arte internazionale (prima che alla cultura) attraverso un filtro consolatorio, un setaccio di “recupero del bello in quanto tale”, che tradisce l’ovvio riflesso di proclamarsi anzitutto in opposizione alle brutture televisive espresse dalla TV italiana negli ultimi (almeno) trent’anni. E forse anche un modo efficace per rivendere il prodotto (e pare ci stiano riuscendo) nei pacchetti delle altre consociate Sky  in giro per il mondo,  anche loro alla prese col classico restyling autunnale.

E così, dopo la roboante inaugurazione, segnata da una suggestiva docu-fiction originale su Michelangelo – si parte sempre dai fondamentali –  e alcuni bellissimi acquisti da altre reti (mi pare si intenda saccheggiare soprattutto la PBS che Romney vorrebbe strozzare, ma anche e la stessa Arte-Tv, e spero proprio di non sbagliarmi) adesso possiamo rifarci gli occhi con lo schiaccianoci di Ciajkovskij o coi bellissimi documentari sui Doors, in attesa di cogliere i succosi frutti dell’accordo col Cinecittà-Luce, che già grandi soddisfazioni ci regalò su History Channel. Roba da leccarsi i baffi, insomma. Ma quanto durerà?

La domanda non è scontata, visto che non è la prima volta che si prova una operazione del genere nel nostro paese. Per dire, quando qualche testa calda della Rai pensò di inserire “RaiSat Art” nel pacchetto premium di RaiSat prodotto per una Pay-TV che allora si chiamava “Telepiù”, l’esperienza durò poco più di due anni, con tanti applausi e molti rimpianti per non aver saputo rinnovare l’accordo di distribuzione con Sky.

Il tema centrale è quindi ancora una volta quello del modello di business. Se – come pare – si stia cercando di battere il chiodo delle sponsorship “alle spalle” della produzione (è già molto chiara la presenza di Enel e Banca Intesa in questo senso) credo che si potrà costruire un discorso serio e di lungo periodo. Se invece si punterà su una operazione di semplice “rilucidatura” del marchio Sky  anche a costo di tenere il canale in perdita  – un po’ l’operazione che fu tentata con Current TV, poi chiusa – si disse – per un capriccio anti-Gore del Capoil discorso potrà durare il tempo di una lunga campagna pubblicitaria. Ma spero proprio non sia così.