Secondo un recente rapporto dell’Associazione IPTV, entro il 2014, in un modo o nell’altro, la maggioranza dei televisori presenti nelle case degli italiani sarà direttamente o indirettamente collegabile ad internet.
Ovviamente “collegabile” e non “collegata” è una prima distinzione chiave. Infatti, se consideriamo che solo poco più della metà delle case degli italiani ha una connessione a banda larga sufficiente per servizi video, ecco che nel 50% dei casi l’avere un televisore “collegabile” non significherà averlo “collegato”.
Ma anche se fossimo al 50% di questo 70-80% si tratterebbe comunque di una quota in grado di sconvolgere l’industria dei contenuti. Se tutti quelli che possono pubblicare video su internet potessero in questo modo sbarcare nel regno dell’intrattenimento domestico, scavalcando le catene di distribuzione tradizionali (storicamente intermediate dal broadcaster), si tratterebbe già di una rivoluzione degli ecosistemi mediatici, che potrebbe scuotere dalla base il principale nutrimento della nostra cultura popolare, nonchè – aspetto non secondario – l’agenda dell’informazione.
Ma siamo ancora costretti a usare il condizionale. In questa fase di transizione, in cui il pallino del “network enabling” dei televisori è ancora nelle mani degli stessi costruttori, le motivazioni di fondo nel rendere una TV “connected” o “non connected” non hanno natura strategica. Ciò che spinge, ad esempio, i leader di mercato dell’hardware a dotare i propri flatscreen da salotto di una porta ethernet che permetta il collegamento a internet è una semplice leva commerciale. Una scelta tattica, mirante ad accorciare i cicli di sostituzione e aumentare le vendite. Non a caso, nella quasi totalità dei casi il collegamento wifi non è previsto: per ottenere questa comodità (e non essere costretti ad allungare il cavo ethernet fino alla TV) occorre comprare uno specifico accessorio, ovviamente prodotto dalla stessa casa che ha venduto il televisore.
Non c’è quindi nessuna fretta, per i vari produttori di smart TV, di portare questi contenuti in massa a casa dello spettatore, anzi. Più gli rendono la vita difficile (e infatti sono un cliente su 10 allunga quel cavo fino all’agognato schermo) e meglio è, anche perchè i costruttori sono tradizionalmente alleati dei broadcaster, in una catena che per decenni ha garantito guadagni sicuri per tutti.
Quindi siamo già al 10% del 50% del 70-80%. Insomma il 4 per cento delle persone, di fatto, accendendo col telecomando il proprio televisore, e smanettando un pò fino al menu “Internet TV” o “Contenuti Online” si trova di fronte a una scelta di contenuti alternativi a quelli che arrivano dal satellite o dal digitale terrestre. E’ vero che ad alcuni di questi contenuti si può arrivare anche attraverso vari set top box, lettori blu-ray, game consoles, e persino (anche se a malincuore, parrebbe) attraverso il decoder del digitale terrestre con bollino gold. Ma anche essendo generosi, diciamo che la quota dei telespettatori italiani consapevolmente “net-enabled”, stante l’attuale situazione, non supererebbe il 5% oggi e il 10% nel 2014. Nulla di che spaventare, nell’immediato, le catene del valore tradizionali (inserzionisti, aggregatori, operatori di Pay TV e gestori della capacità trasmissiva). I cui “padroni del vapore” potranno quindi ancora a lungo recitare il consueto “tout va bien, madame la marquise“.
Ma i blocchi di natura “non tecnologica” rispetto all’apertura verso una potenzialmente sterminata varietà di contenuti non finiscono qui. Anche una volta raggiunto, faticosamente e per pervicace volontà del’utente, l’agognato e seminascosto menu “contenuti online” lo spettatore non potrà certo navigare liberamente tra tutti i video disponibili su internet, ma tra una selezione di “widgets” (content-based applications, in questo caso) frutto di accordi tipicamente stretti tra il costruttore e un fornitore di contenuti mainstream, come Disney, CNN, De Agostini, ecc.
La parte più avanzata di questo menu sarebbe quella che ospita i widget che permettono di navigare sulle applicazioni di video sharing come YouTube, apparentemente una enorme quota di nuovi contenuti. In realtà si tratta solo di quelli presenti sulle API pubbliche di YouTube che – non a caso – tendono ad escludere i contenuti di maggior pregio, e cioè quelli con alle spalle un Featured Channel gestito da un broadcaster, da una major o da un gruppo di major aggregate (come l’ottimo Vevo per i video musicali).
Guarda caso, sono solo major e broadcaster ad avere alle spalle una Content Delivery Network decente, in grado di garantire una user experience accettabile, senza interruzioni, sullo schermo del salotto. E infatti c’è chi parla degli OTT (YouTube e Facebook in prima fila) come di “nuovi intermediari” del video e non come aggregatori realmente capaci di offrire valore agli utenti, in cambio di eyeballs pubblicitarie.
Non parliamo poi di quella che dovrebbe essere la punta più avanzata del digitale all’italiana: gli iperpubblicizzati decoder per il digitale terrestre con bollino gold, prodotti e distribuiti in regime di quasi-monopolio, pur avendo la porta ethernet permettono l’accesso solo a un microscopico subset di contenuti online rigidamente intermediati dai broadcaster (il cosiddetto “broadband addendum”). Più o meno la stessa cosa che accade, con le major, sui lettori Blu-Ray, che si collegano alla rete solo per scaricare alcuni contenuti speciali associati ai film acquistati, rigorosamente in videoteca.
Insomma, l’attuale ecosistema dei media sembra fare di tutto per inserire la Over the Top TV nelle proprie offerte come leva di marketing, ma quando ormai ti ha venduto il televisore cerca di scoraggiare in ogni modo l’accesso alla totalità dei contenuti accessibili online. Se inoltre, come ben spiega il rapporto già citato, ci addentriamo nella natura profonda dell’attuale assetto regolatorio che disciplina in Italia i diritti per la diffusione dei contenuti (e in particolare le finestre per la distribuzione dei film in VOD, che potrebbe rappresentare la prima killer application per la Over the Top TV) appare del tutto evidente il proposito di perpetuare il più a lungo possibile la conservazione delle catene di distribuzione tradizionali, cosa che peraltro difficilmente – in un paese come il nostro – potrebbe destare grande sorpresa.
Ancora molto lontana sembra dunque essere la prospettiva di una TV che senza alcun ostacolo permetta a chiunque (e non solo al geek pervicacemente motivato, che ha già le sue soluzioni) di mettere in concorrenza la straordinaria diversità e ricchezza di contenuti multimediali presenti su internet con i contenuti iperomologati che arrivano dalla tv tradizionale.
Quella di chi vuole intermediare, limitare e in alcuni casi persino censurare i contenuti che arrivano da internet può apparire una battaglia di retroguardia, in quanto si tratterebbe solo di una questione di tempo. L’affermazione di internet come piattaforma di distribuzione universale, come dimostra l’evoluzione di mercato nei paesi più avanzati sotto questo profilo (come la Corea del Sud) è solo una questione “balistica”: una volta lanciato il missile, prima o poi atterrerà, e non può essere fatto nulla per arrestarlo. Anche perchè, nel frattempo, sullo sfondo emerge in modo sempre più evidente il ruolo di alcuni utenti trendsetter, i quali – senza pubblicare alcunchè di originale, ma solo per le loro capacità di selezionare accuratamente i contenuti pubblici per i loro follower – diventano veri e propri maestri della content curation, contendendo la funzione editoriale a quelli che una volta chiamavamo “portali”. E pensando a ciò che sono diventati i DJ negli anni ottanta e novanta, non è difficile prevedere anche per costoro un ruolo di nuove star della rete. La “Open Internet TV” infatti non pregiudica il ruolo dell’editore, dell’aggregatore, di chi sa selezionare e intercettare in tempo reale le esigenze degli utenti con il contenuto giusto al momento giusto. Semplicemente, questa funzione editoriale risponde a regole radicalmente nuove e soprattutto può essere svolta da chiunque, proprio come accade con la pubblicazione dei contenuti.
Tutto questo promette purtroppo di rimanere a lungo fantascienza per il nostro paese. L’approccio “tutto italiano” adottato dall’industria dei contenuti rischia davvero di moltiplicare il già atavico ritardo digitale che l’Italia sconta rispetto agli altri paesi europei, e non solo sotto il profilo della limitazione della libertà di espressione, ma proprio dal punto di vista dell’opportunità economica. Se – come in molti cominciano a osservare -una delle leve principali dell’economia futura dell’Italia sarà proprio la capacità di produrre e distribuire liberamente la propria cultura (nel nostro caso un vero e proprio asset non-duplicabile) l’imposizione di blocchi e ostacoli di varia natura, normativa o strettamente commerciale che sia – è davvero una tara che non possiamo permetterci di sostenere a lungo.
Il problema, come abbiamo visto, non è di natura tecnologica. Il cuore della questione è la dimostrazione a tutti gli attori in campo (broadcaster, major, produttori di contenuti indipendenti, detentori di diritti “grezzi”, industria dell’elettronica di consumo, internet service provider, abilitatori tecnologici, “nuovi editori”, inserzionisti e fruitori finali) che un nuovo ecosistema più fluido e in grado di portare a valore l’intera offerta dei contenuti disponibili su internet può sposarsi felicemente (anche economicamente) col diritto degli utenti a un accesso neutrale e platform-neutral a tali contenuti.