Archivi del mese: ottobre 2009

All’Internet Governance Forum va in onda l’agonia degli intermediari

Nell’immaginario collettivo degli anni ‘50, uno dei momenti di più tangibile sviluppo del Paese lo si viveva quando veniva data la notizia dell’”abbattimento dell’ultimo diaframma” tra le due gallerie di un qualche nuovo tunnel ferroviario o autostradale. L’opera non era ancora completata, ma i quell’istante catartico era possibile stringere la mano agli operai che si trovavano dall’altra parte. E in quell’istante l’Italia, questo Paese difficile da mettere in comunicazione per mille motivi (non solo orografici), poteva sentirsi un po’ più vicina.Oggi, su scala più grande, stiamo vivendo le stesse sensazioni su Internet, che proprio come il piccone degli operai svolge un ruolo fisiologico di grande disintermediatrice lungo molte filiere industriali.

Al di là dei servizi di comunicazione, dove l’impatto di Internet è immediatamente percepibile, ci sono parecchie altre “catene del valore”, come si chiamavano una volta, sulle quali molti soggetti sono stati “scoperti” per il ruolo che per anni hanno svolto: quello di sottrarre valore invece di produrne, perchè era più remunerativo essere gestori esclusivi di alcune leve essenziali, sostanzialmente “vendendone” l’inaccessibilità. Gli esempi sono facili: servizi come Amazon disintermediano la Grande Distribuzione Organizzata, Tripadvisor, Edreams, Venere e LonelyPlanet disintermediano le agenzie di viaggi, iTunes disintermedia la distribuzione di contenuti multimediali a pagamento, Twitter disintermedia le agenzie di stampa e si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Ma dato che il processo è ancora in divenire (perchè sussistono larghe fasce di popolazione che ancora non hanno accesso al Web, senza il quale nulla di tutto questo è possibile), in tutti i consessi in cui si affrontano questi temi sono ancora presenti, e giustamente rappresentati, i difensori degli interessi dei soggetti disintermediati. In qualche misura va in scena la loro lenta agonia, ma è comunque interessante studiarne le strategie e gli strumenti dialettici.

Prendiamo l’intervento di Davide Rossi di UniVideo (estensore reale del famoso ddl Carlucci) all’Internet Governance Forum in corso a Pisa, da dove sto tornando in treno mentre scrivo. L’argomento principale su cui poggia la sua difesa dell’industria multimediale tradizionalmente intesa è che Internet non sta rendendo migliore il mondo, anzi: sta distruggendo i meccanismi di remunerazione dei prodotti dell’ingegno e quindi, in definitiva, sta demolendo l’unica industria che permetteva di retribuire la creatività. Con il risultato – prosegue il suo ragionamento – che non essendo remunerata, la creatività è destinata a sparire, sepolta dalla montagna della spazzatura gratuita o pirata dei meandri di YouTube. Il tutto condito dalla consueta chiosa finale sui “migliaia di posti di lavoro persi” grazie alla facilità con cui i contenuti sono copiati su Internet in barba al diritto d’autore.

Come replicare, o meglio, da dove cominciare per replicare? Al di là della facile constatazione che l’offerta di creatività legale è esplosa grazie a Internet (e non era esattamente sovrabbondante ai tempi della Rai Bernabeiana e della Fonit Cetra, per non parlare della lobotomizzazione di massa dei mainstream media dei giorni nostri), vorrei concentrarmi proprio sul cuore di queste argomentazioni.

Il punto non è se ci si debba o meno disperare per la perdita di quei posti di lavoro: occorre semmai chiedersi se quei lavori aggiungevano valore lungo la filiera produttiva e distributiva. E non parlo solo degli intermediari (chi stampa i dischi, chi si occupa della promozione dei musicisti, chi scrive le recensioni solo se il disco è buono, un po’ alla Vincenzo Mollica…) No, sto parlando anche degli artisti, dove gli unici ad “avere successo” erano quelli che avevano abbastanza pelo sullo stomaco da accettare il diktat dei “padroni del vapore”, cioè le case discografiche, le quali – per sostenere il loro pesantissimo e iperintermediato modello distributivo – dovevano puntare su prodotti “dal sicuro valore commerciale”, cioè – come poi abbiamo ben visto – “dal sicuro valore scadente”.

In sostanza, nel vecchio modello, tutti gli attori invece che produrre creatività la stavano in realtà distruggendo. E dobbiamo davvero stracciarci le vesti se questi sono i posti di lavoro a rischio?

Non ci sarebbe invece da rallegrarsi per il fatto che grazie al Web si creano nuovi modelli e nuove professionalità per “mettere a valore” tutta la creatività, e non solo quella disposta a scendere a compromessi? Nuove professionalità in grado di studiare nuovi modelli di business non “lineari” (una catena dove tutti sottraggono valore fino al prodotto finale) ma “multilaterali” (cioè ecosistemi “governati” dal talento e dal merito, dove le relazioni tra i vari soggetti sono governate da scambi alla pari, altrimenti l’ecosistema stesso non regge)?.

Ci arriveremo, ma nel frattempo penso che ancora per un po’ dovremo assistere allo spettacolo, per certi versi affascinante, di personaggi dall’indubbia professionalità nel difendere questi interessi, e che mostrano anche un notevole coraggio, operando in contesti del tutto trasparenti che li espongono ad attacchi pesanti, oltre che più facilmente argomentabili. Molto più onorevole, da parte loro, rispetto a quanto abbiamo visto in passato con chi difendeva (non pubblicamente, ma dietro le quinte) l’interesse dei produttori di eternit, bromuro di metile, additivi alimentari, ecc…

Più difficile, tutto sommato, capire le posizioni di chi professa di perseguire la missione di “diffondere internet” ma poi finisce per equivocare il significato del termine “Governance”, traducendolo in una generica e pervasiva tendenza alla regolamentazione a tutto campo. E’ il caso di Enzo Fogliani di ISOC Italia che dal palco di Pisa si è lanciato in una filippica senza troppi distiguo contro i famigerati User Generated Content, con un virulento carotaggio sull’inaffidabilità dei Citizen Journalists che “non controllano le fonti, non verificano la notizia…” insomma la nenia che conosciamo molto bene.

Si tratta di argomenti che esercitano ancora un certo fascino in ambito accademico (non dimentichiamo che eravamo ospiti del CNR, che – tra le altre cose – ci ha trattato coi guanti bianchi), perchè in fondo agiscono sulle stesse corde delle accuse a Wikipedia che, in mancanza di un controllo certificato e centralizzato, sarebbe un luogo poco garantito rispetto alle incursioni di troll, incompetenti e flamers di ogni specie, finendo per rendere lo strumento altamente inaffidabile rispetto agli strumenti del sapere tradizionali.

Se Fogliani non avesse ritirato fuori l’aberrante idea del “bollino blu” per certificare la provenienza delle informazioni, che solo i giornalisti professionisti possono garantire dall’alto della loro superiore etica e professionalità, avrei potuto starmene tranquillo in platea a continuare a seguire con le orecchie i lavori, e contemporaneamente lavorare sull’ennesimo documento dell’ufficio. Ma il bollino blu evoca nella mia mente foschi ricordi, legati a un mio omonimo Ministro della Propaganda di epoca fascista, e da lì a prendere il microfono per rispondere, come vedete qui sopra, il passo è stato breve.

Per dire cose semplici: ma come fanno, questi “tutori dell’ordine dell’informazione” a stabilire chi è certificato e chi no dopo che dalle sue origini il giornalismo ufficiale di questo paese non ha fatto altro che disattendere, non per incompetenza o per scarsa professionalità, ma perchè era ciò che gli chiedevano gli editori impuri loro padroni, le stesse regole di etica, di verifica delle notizie, di controllo delle fonti che oggi si pretendono dai blogger e dagli altri protagonisti del giornalismo partecipativo? Non vi pare di intravedere una lieve scollatura nel vostro ragionamento?

Certo che c’è bisogno di regole etiche, di controlli, di verifiche puntuali. Ma dato che avete avuto un  centinaio d’anni per provare a mettere in piedi, con queste regole, una parvenza di informazione democratica, e palesemente non ci siete riusciti, direi che forse è giunto il momento di dare una chance a persone con un diverso talento e diverse professionalità. E se anche mi stessi sbagliando, mi conforta pensare che sia difficile far peggio, come hanno fatto molti giornali italiani, di mettere in prima pagina l’annuncio della clonazione umana dopo una semplice conferenza stampa dei Raeliani. Alla faccia delle verifiche.

Errata corrige del 31.10.2009:  come il dr. Fogliani ha precisato nel suo commento, non era provenuto da lui l’attacco all’affidabilità del citizen journalism, avendo semplicemente auspicato l’introduzione della prassi della citazione delle fonti da parte di chi pubblica informazioni online. Inoltre, il dr. Fogliani, come si può riscontrare nel video, non ha affatto promosso l’iniziativa del bollino blu – che nasce in realtà dall’ordine dei giornalisti. Mi scuso dell’errore con i lettori e con l’interessato. Ovviamente il mio intervento durante il convegno non era rivolto a lui, ma all’ordine dei giornalisti.

Il fascino segreto di Ubuntu

Sabato scorso sono stato al Linux Day. No, non sto per lanciarmi nel solito racconto supponente e caricaturale di chi ha già pronto in canna il paragone con il raduno degli harlisti. Perchè Linux e l’intera filosofia dell’Open Source sono una cosa molto seria, e lo sappiamo da anni. Per spiegare perchè basti ricordare una cosa: con una delle centinaia di distribuzioni Linux oggi metà dei computer che giacciono nelle discariche funzionerebbero egregiamente in una scuola del terzo mondo. Molto meno inquinamento, molta più istruzione.

Ma queste cose andrebbero spiegate a Brunetta e alla Gelmini, non ai lettori di questo blog che le sanno benissimo, e ai quali vorrei invece consigliare un semplice esercizio. Provate Ubuntu 9.04, almeno la versione live, quella che rimane sulla chiavetta e non cambia una virgola del vostro PC.

La cosa che mi affascina di Ubuntu è l’interfaccia, quasi un monumento alla “Good Enough Revolution” di cui ha parlato David Weinberger alle ultime Venice Sessions. Su Ubuntu non incontrerete mai personaggi molesti come “l’assistente di Office“, semplicemente perchè non ne avrete mai bisogno. Non vi chiederete mai dove sono le applicazioni e i documenti: le prime sono sempre a sinistra, i secondi sempre a destra. E quando vi stuferete, potrete cambiare tutto, ma di vostra iniziativa, non perchè “qualcuno” ve lo ha suggerito. E a proposito di applicazioni, queste non si trovano in uno “store” a pagamento, ma in un posto dove crescono e migliorano perchè c’è sempre qualcuno che “passa e semina”, così voi passerete e raccoglierete i frutti. In cambio, è richiesto (non obbligatorio, ma auspicato), un minimo di feedback sulla community, in cui dite cosa non va e cosa vorreste migliorare, e magari un po’ di evangelism, che è quello che sto facendo in questo momento.

Ovviamente non si tratta di un paradiso terrestre. Anche se negli anni sono stati superati i principali problemi di supporto ai driver per le periferiche, alcune cose ancora non vanno come potrebbero. Ma il più delle volte è colpa d’altri: Adobe, per dirne una, non ha ancora sviluppato una versione decente di Flash per Linux, che riesce a battere persino la sua lentezza su Windows, nonostante un kernel molto più efficiente.

Ma è una questione di feeling. Su Ubuntu non hai mai la sensazione di qualcosa che funziona perchè ti è stato venduto, funziona perchè deve funzionare e basta. Mai neanche l’ombra di un lock-in. Mai una funzionalità inutile. Mai una presa in giro della tua intelligenza. Mai un orpello di troppo. E se qualcosa non funziona non è mai per negligenza, o perchè quella funzionalità non ha un appeal commerciale: semplicemente, non è ancora passato “il seminatore”.

E soprattutto non c’è nulla di autoreferenziale, nulla di ostentato, con la nobile eccezione dell’omnipresente pinguino Tux protagonista di quasi tutti i giochi, di tutte le suite educative, e del pluripremiato programma di pittura che mia figlia 6enne ormai padroneggia con la sicurezza di Kandinski. Non c’è niente da dire: Ubuntu merita almeno il dual boot, e solo se (come nel mio caso) dovete convivere con applicativi aziendali e reti virtuali corporate, per le quali Windows diventa un male necessario.

Chiudo con un altro consiglio: se state per buttare un PC, ed è almeno un Pentium con una connessione LAN, non fatelo. Piuttosto, installateci una di queste vecchie distribuzioni di Linux, e donatelo alla vostra scuola. I ragazzi potranno navigarci più velocemente che con un XP con un anno di vita. Molto più utile che accompagnare una vecchietta ad attraversare la strada.