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Tra Roma, Berlino e Viterbo alla ricerca di un respiro più lungo

berlin

Sono stati giorni un po’ convulsi, quelli delle ultime tre-quattro settimane. Come spesso accade in questo periodo dell’anno, con alle spalle un inverno segnato da una fitta sequenza di “cose da fare”, a volte senza troppo costrutto, ho sentito il bisogno di fermarmi a scambiare idee con quelle poche persone con cui ti capisci al volo per staccare un po’, soprattutto di testa.

Mi sono corse in aiuto le persone, ma anche i luoghi. Complice l’invito al Media Web Symposium di Berlino, ho raccontato agli amici del Fraunhofer le mie riflessioni su Tumblr, l’unica cosa di lungo respiro a cui ho potuto lavorare negli ultimi tempi, mettendo insieme nuovi dati e alcuni studi comportamentali sui trend d’uso dei social media.

L’ultima frase delle mie slide, peraltro, non ha alcuna base scientifica: sono io che spero di vedere nell’apparentemente inspiegabile sopravvivenza di Tumblr il possibile segnale di un riflusso. Credo che alcuni di noi inizino a cercare un buen retiro segnato da un più basso investimento cognitivo e un minor controllo sociale, con meno ostacoli alla libertà d’espressione e alla condivisione di emozioni nella loro forma più immediata. Senza, per intenderci, che le molte persone con cui abbiamo a che fare quotidianamente, online e offline, ne debbano trarre “significati” o peggio “conseguenze” secondo codici che peraltro sarebbero ancora tutti da scrivere, visto che quelli preesistenti non valgono più.

Il disagio verso i luoghi socialmente pesanti, dove ogni tuo comportamento viene letto, interpretato e giudicato da chi conosce non solo la tua identità, ma anche la tua storia vale anche, manco a dirlo, nel mondo reale. Per rimanere nella metafora di questi giorni, Roma è per me pesantissima, così come Berlino è straordinariamente leggera. Mi piacerebbe poter dire che ciò dipende da una condizione soggettiva (magari chi vive a Berlino da trent’anni potrebbe fare il ragionamento inverso), ma alcune cose mi dicono che c’è anche un problema di “predisposizione alla pesantezza”. Eternità, per intenderci, significa anche immobilità, e l’immobilità è il brodo ideale per il controllo sociale e la pretesa di una chiave di lettura universale dei comportamenti.

Forse l’unica cosa di cui non solo chi sfoglia foto su Tumblr, ma anche chi cammina per le nostre strade inizia a sentire il bisogno è liberarsi dal vincolo di necessarietà tipico di molti nostri paesaggi urbani. Ogni cosa che vediamo o sentiamo risponde a una necessità: l’insegna, il cartellone pubblicitario, il rumore del traffico, la musica nei negozi, la gran parte degli odori e dei profumi. Questi elementi non sono da respingere in quanto tali, anzi spesso è esattamente ciò che cerchiamo in una città. Ma quando sono loro a cercare pezzi della nostra vita, spesso per sfilarceli via, con la tendenza ad occupare tutto lo spazio disponibile dentro di noi, ecco che la città diventa insostenibile, ed è esattamente questo che Roma in questo frangente storico sta diventando: una somma di vincoli di necessarietà.

Se ho bisogno di un respiro più lungo, ho bisogno di spazio per farlo. E Berlino – coi suoi spazi ancora in cerca di una nuova identità, residui delle fratture del passato – mi corre in soccorso, come a volte provo a raccontare anche per immagini. Non so se Roma sia la mia Facebook, e Berlino la mia Tumblr, ma tutto sommato non importa, le metafore le lasciamo ai quotidiani manovali del significante. Ma con buona pace di Jep Gambardella, che mette tutto su un piano orizzontale (“le cose che voglio fare e le cose che non voglio fare”), l’esigenza di una prospettiva più ampia è la scoperta più importante dei miei ultimi scampoli di esistenza, da reinvestire in quelli venturi.

Prima di Berlino peraltro, grazie agli organizzatori di Medioera, delle lessons learned from Tumblr ho potuto parlare a Viterbo con persone ben più autorevoli e mentalmente libere di me come Mafe e Gallizio. Viterbo è forse l’unica provincia del Lazio che sta provando a legare il suo territorio a una “scatola delle idee”, che per ora prende la forma di un festival di cultura digitale ma che probabilmente potrebbe connotare molti altri momenti pubblici nel corso dell’anno. Ne varrebbe la pena anche anche se lo scopo fosse solo quello di far entrare nei grandi circuiti le tante cose belle e buone prodotte da questa terra, per non parlare della bellezza e dell’autenticità delle persone. Ne è venuta fuori una discussione a cavallo tra il freddo lavoro dell’analista e l’intimo rapporto che ognuno di noi ha col Web e le cose che ci stanno dentro. Sono sicuro che il nascente libro di Mafe sulla natura rivelatrice del reale di Internet aggiungerà molta carne al fuoco, su questo e su altri temi adiacenti.

So solo che da questo mese di parole, suoni e colori, come forse si sarà capito, mi rimarrà parecchio. Quindi sento di dover esprimere la mia riconoscenza a chi le ha dette, a chi li ha suonati, a chi li ha dipinti. Sperando di tornare presto sui luoghi del delitto.

Perché non esiste una libreria così?

L’altro giorno, a Marina di Pietrasanta, sono entrato nella storica libreria del corso principale. Anche se ormai questo vecchio negozio sembra la metafora dell’editoria in crisi, con tanti libri accatastati e mai comprati da chissà quando, è un luogo a cui sono affezionato, e dove mi rifugio quando sono assediato dalla tipica pressione sociale che subiamo nei giorni di festa, in cui dovremmo avere sempre un sorriso per tutti tranne che per noi stessi.

Scappo lì dentro perchè una libreria, ogni libreria, compie sempre e comunque un miracolo: quello di moltiplicare le possibilità di incontrare persone curiose, che “vogliono arrivare in fondo alle storie” e quindi anche solo per questo motivo ci somigliano.

Ero lì con mia figlia, che come al solito ha usato Fidel – il cane bassotto di casa – come chiavistello relazionale, facendo subito amicizia con una bella bambina che stazionava nell’angusta area destinata ai libri per ragazzi. Mi volto, un paio di sorrisi familiari e capisco subito che si trattava della nipotina di carissimi amici, anche loro appassionati di “storie”.

E così la stringente sequenza degli impegni pasquali ha lasciato un breve spiraglio al senso, alla curiosità, alle persone con cui abbiamo qualcosa a che fare, che puntualmente incontriamo dove ci sono le storie: vere, inventate, semiromanzate, rilette o riraccontate in mille modi diversi, fatte di testo, di fumetti, di immagini fisse o in movimento. Comunque: storie.

Penso per un attimo alle grandi librerie o meglio, ai grandi Mediastore che popolano le grandi città. Spazi da sempre all’inseguimento dell’avventore casuale, fungibile, al quale vendere il libro piazzato nella piramide dopo l’ingresso, quello che è su tutti i manifesti, che si trova in cima a tutte le classifiche. Come se fossimo tutti uguali, come se avessimo non tanto voglia di leggere una storia per noi, ma qualcosa che ci faccia alzare la manina e dire “l’ho letto anch’io” quando siamo in mezzo a un crocchio di persone che “normalmente non hanno tempo di leggere, e quindi”.

Che clamorosa occasione perduta, penso. Perché in realtà una libreria dovrebbe offrire dei percorsi. E un “percorso” naturalmente può essere qualcosa di perfettamente intimo e definito in piena libertà da un lettore con idee più o meno, volontariamente o involontariamente, chiare. Ma può anche un percorso guidato da chi le storie le conosce, come dovrebbero essere i commessi delle librerie. E persino un percorso pubblico, una pubblica strada tra le storie.

Io i commessi delle librerie, quelli col broncio perenne che vanno subito a testa bassa a spulciare nell’intoccabile “terminale”, per vedere se tale libro c’è o non c’è oppure “possiamo ordinarlo”  – e allora tanti saluti, per tutto il resto c’è Amazon – li manderei a un corso di “storie”. Per fare in modo che siano in grado di capire, in poche domande, o da poche domande, di cosa ha bisogno (o cosa vuole, che è un po’ diverso) chi entra in libreria.

Bisogno di farsi una passeggiata al coperto, ma in mezzo a delle suggestioni mentre fuori piove, di sfogliare un Taschen illustrato, di rimorchiare attraverso uno scaffale, magari guardando cosa sta sfogliando quella tipa lentigginosa che gli ricorda la maestra delle medie, di comprare ma anche di regalare a qualcuno al quale siamo legati da “dati” (fatti, luoghi, emozioni, aspettative) che nessun, nessun database di Amazon potrà mai conoscere. Almeno per ora, finché c’è tempo.

E allora mi chiedo: perché non esiste una libreria dove entro e ok, se voglio non succede nulla, mi faccio il solito giro, ho le mie idee, vedremo cosa deciderò. Ma anche: entro, seguo il tappetino rosso, mi siedo in una sala dove un tizio con la maglietta Mondadori, Feltrinelli, quello che è parla dietro un tavolo con accanto uno scrittore. E no, non è la solita presentazione dei libri, è proprio un happening continuo, dove a un certo punto il tizio con la maglietta dice “e veniamo ad Anselmo, che dalla sua app ci ha detto che vorrebbe un romanzo storico, ma ne sa poco e ci ha solo detto che non dovrebbe essere ambientato prima del 1789, ché non si ricorda le vicende precedenti”. E vai con le risate di gioioso imbarazzo del pubblico, che in parte si è seduto lì solo perché è una specie di Apostrophes in diretta, che dura tutto il giorno, e molti saranno venuti solo per sentire, altroché.

con Bernard Pivot (TDF)

“Apostrophes”, di Bernard Pivot (1981)

Inizia un breve dialogo tra “maglietta rossa” con accanto Gianluca Morozzi – ce lo vedo, Morozzi a fare l’happening – e il cliente che per un quarto d’ora diventa “la star” del pomeriggio. E alla fine dico, alla fine di questo momento che già ti ha riempito la giornata, insieme ai quarti d’ora di tutti gli altri, un libro, due libri, non li vorrai comprare?

E non vorrai fare amicizia con le altre persone sedute lì con te, ad aspettare il loro turno? Non vorrai proseguire la conversazione dopo, davanti a un tè, invece di continuare a lanciare occhiate alla tipa lentigginosa oltre lo scaffale, senza alcuna concreta speranza di sentire se parla calabrese o friulano o una lingua sconosciuta?

Editori: svegliatevi. Le vostre librerie, quelle che state chiudendo con un tratto di penna su una stampata di Excel, sono forse il vostro ultimo asset non duplicabile. Sono gli ultimi luoghi in cui “possono succedere delle cose” tra quel pubblico che ancora vi si fila: i curiosi. E allora costruite qualcosa intorno a loro. Altrimenti hai voglia a comprarne, di Anobii. Hai voglia a presentazioni con gli influencer. Tempo dieci anni e avrete fatto la fine della Fnac di Roma: sostituiti da uno store di abbigliamento low cost.

Pensateci, vi prego. Ci mancherete.

[EDIT del 23.4] – Grazie all’incommensurabile Mafe scopro che la libreria in questione esiste, eccome. E’ a Milano e si chiama Open. Non vedo l’ora di visitarla. Ovviamente, la speranza è che cose del genere inizino a succedere anche nel resto d’Italia, e magari anche negli stores che raggiungono il grosso del pubblico. Cose del tipo apro il Vivimilano e trovo “come ogni pomeriggio, alla libreria X è tempo di Happening, stasera con [nome di scrittore a caso] e i consigli di [nome di heavy reader a caso]”. Chissà, magari, un giorno 🙂

Roma, il buio oltre la metro

metroroma2013Questo weekend sono venuti a trovarci a Roma degli amici fiorentini. Colti da un diluvio in centro, abbiamo deciso di percorrere un tratto di questo gioioso sabato capitolino in metropolitana. Era la scelta più intelligente, sia per non bagnarsi, sia per evitare di rimanere imbottigliati. Al momento dei saluti, uno di loro mi ha colpito per due giudizi drammaticamente veri sulla nostra città. Da un lato le consuete lodi sperticate per le bellezze artistiche: in questo caso l’aspetto drammatico è che ormai, invece di inorgoglirci, allarghiamo le braccia come a scusarci del fatto che siano così scarsamente curate, fruibili o anche solo raggiungibili.  Dall’altro lato, un giudizio sulla metropolitana: non “scadente”, “malfunzionante” o “degradata”. Ma “buia”. Sì, proprio “buia” rispetto alle analoghe infrastrutture di Londra, Parigi, Berlino, Madrid, che possono contare su una rete infinitamente più ampia e capillare. Forse noi che ci abitiamo, che la usiamo tutti i giorni, questa oscurità finiamo per darla per scontata, come se la metro fosse qualcosa da nascondere, una sorta di “male necessario”, quasi una catacomba moderna. O forse c’è qualcosa di più?

Lo sappiamo bene: il servizio di trasporto pubblico a Roma non è solo insufficiente, ma è persino indegno di una grande capitale: In particolare, di una metropoli che gioca sulla fruibilità del suo patrimonio culturale la sua unica possibilità di trovare una proposizione di valore durevole e sostenibile, dopo aver perso la scommessa industriale prima e dei servizi poi. Ma attenzione all’equivoco in agguato: questo non significa che il servizio in sé  sia inutile. In molti casi, in base agli orari e alle zone di partenza e di arrivo, persino la sgangheratissima rete Metrebus può risultare competitiva col mezzo privato, specialmente quando le zone in questione sono collegate da una o più linee su ferro.

Prendiamo la tratta Balduina-Trastevere: in quasi tutti gli orari (con l’eccezione delle sere dei giorni feriali) per arrivare in tempi certi a destinazione conviene prendere il treno metropolitano della FR3 (da Balduina a Trastevere), con frequenze di 12 minuti, e poi il Tram 8. Eppure vediamo pochissime persone salire a bordo dei treni FR, che continuano ad essere frequentati soprattutto da pendolari. E lo stesso può dirsi, anche se in misura minore, per la buia metropolitana e i tram, che rimangono il regno di turisti, extracomunitari e studenti squattrinati. In sintesi: il mezzo pubblico si prende perché non si ha la macchina. E anche lo scooter – coi suoi vantaggi e svantaggi – è largamente preferito, specie lontano dai mesi invernali.
Dopo molti anni in cui risiedo a Roma, sono giunto alla conclusione che una buona parte dei “mancati passeggeri” non ha molto a che vedere con la scarsa qualità del servizio, ma vada imputata piuttosto alla sua comune percezione come “luogo buio”, e quindi – sostanzialmente – una cosa da sfigati.  Il ciclo è semplice: il servizio è pessimo (per quanto a volte concorrenziale), le vetture e le stazioni indecorose, la gente pensa che è una cosa da sfigati, l’ATAC e Trenitalia hanno un infallibile alibi per farlo funzionare sempre peggio, quando non per trasformarlo in un by-product (per le ferrovie, tutte prese ad investire nelle “Frecce” a lunga percorrenza) o un addirittura un side-business (per l’ATAC, e qui ci viene in soccorso la cronaca giudiziaria degli ultimi mesi).

Nel frattempo, nessuna campagna di comunicazione istituzionale ha mai nemmeno provato a colmare il gap tra percezione comune e percezione desiderata. Si tratterebbe di illuminare (fisicamente, ma anche metaforicamente) la parte competitiva della rete di trasporto pubblico, e cioè la rete su ferro. Malfunzionante, insufficiente quanto vogliamo, ma – come mostra la mappa qui sopra – tutt’altro che irrilevante, coprendo quasi tutte le aree strategiche della città con mezzi che viaggiano su sede propria, quindi indipendenti dal traffico delle auto. Essa comprende:

  • le due linee della metropolitana A e B, che collegano quattro periferie popolose (Il Tiburtino, Montesacro, il Tuscolano e Primavalle) col centro rinascimentale, il centro archeologico e l’EUR – cioè il principale polo direzionale.
  • le tre ferrovie concesse, che collegano le principali stazioni a tre borgate popolosissime (Ostia, Giardinetti e Prima Porta)
  •  le otto linee FR, di cui almeno due (la FR1 Fiumicino-Fara Sabina e la FR3 Cesano-Ostiense) con frequenze da servizio urbano, cioè di 12-15 minuti
  • la rete tranviaria, che ha ripreso faticosamente a crescere negli ultimi 20 anni dopo un lungo letargo, tornando a 6 linee per una estensione totale di 42 chilometri, quasi tutti su sede propria.

Si tratta di ciò che rimane, al netto dei troppi ridimensionamenti in corso d’opera, della famosa “cura del ferro” introdotta da Walter Tocci negli anni della Giunta Rutelli. Una iniziativa che mirò a sfruttare al massimo i binari esistenti attraverso l’integrazione dei servizi, che divennero fruibili con un solo biglietto urbano nel territorio del comune, cambiando le abitudini di centinaia di migliaia di cittadini.

Oggi come allora, si tratta anzitutto di indurre un nuovo “cambiamento di abitudini”.  Roma è una città dove i comportamenti collettivi sono spesso legati a una sorta di “sentire comune”, e basta davvero poco per invertire la tendenza. Senza scomodare i cicli di pubblico allo Stadio (metà classifica = stadio vuoto, alta classifica = immediato pienone anche quando si affronta una provinciale), vengono in mente fenomeni di più ampio respiro.

Nel bel mezzo dei molto bui anni di piombo, fu sufficiente animare le piazze con attività di cultura e intrattenimento per sconfiggere la paura della notte, come accadde con l’Estate Romana inventata da Renato Nicolini.  Più di recente, bastò costruire una singola pista di pattinaggio su ghiaccio (a Mentana!) per vedere l’intera città letteralmente costellata, nel giro di pochi anni, da decine di piste coperte e scoperte, per il sollazzo di grandi e piccoli. Infine, ci volle l’inaugurazione dell “Case” (una decina di immobili sottoutilizzati e ridestinati dal Comune ad attività culturali negli ultimi anni), per riempire nuovamente il calendario di numerosi piccoli e grandi eventi dedicati al cinema, alla musica, al teatro, ai libri. Spesso con meriti persino maggiori rispetto ai grandi luoghi deputati alla  produzione e all’aggregazione della cultura, come  il MAXXI, il Macro e l’Auditorium.

Non si vede perché alla regola del “punto critico”, per dirla alla Malcolm Gladwell, debba fare eccezione l’abitudine al trasporto pubblico. puntocriticoSono convinto che anche prima del pur necessario salto di qualità dell’offerta, sarebbe sufficiente una maggiore attenzione al funzionamento e al decoro dell’esistente per aumentare i “passeggeri paganti”  (perché c’è anche un notevole problema di evasione da risolvere). Si creerebbero forse così le condizioni – in un secondo momento – per una crescita strutturale dell’offerta complessiva, che per quanto mi riguarda potrebbe tranquillamente ricalcare il Piano Sciarra di recente pubblicazione: Linea C, chiusura dell’anello ferroviario, aumento delle frequenze su tutte le linee FR, nuove linee tranviarie su alcune tratte chiave.

Non ho la pretesa che i responsabili della comunicazione delle nostre aziende municipalizzate, sicuramente distratte da ben più gravi avvenimenti, mi stiano leggendo. Ma credo che sottolineare la competitività del trasporto pubblico su alcune direttrici essenziali e rendere più attraente quello che c’è, piuttosto che fantasticare di Metro D, E ed F, sia davvero, in questo momento, la tessera chiave del puzzle. Il resto, ovviamente, richiede investimenti e volontà politica, ma rinunciare all'”investimento emotivo” nel cambiamento da parte dei cittadini sarebbe a mio parere un errore imperdonabile. Per provare ad avere nei romani, per una volta, degli alleati, e non un popolo di eterni disillusi, al ritornello di “tanto non potrà cambiare mai niente”.

Il Web, gli altri e la libertà di costruirsi una prigione dorata

Internet-dissent-ccL’altro giorno, dopo parecchio tempo, ho ripreso a guidare l’automobile. Molte cose mi sono venute automatiche, altre no. E me ne sono accorto quando una signora, dietro di me, ha suonato nervosamente il clacson. Non capivo perché, ma credetti che intendesse avvertirmi di qualcosa, magari un pericolo immediato, come prescrive il codice stradale.

E invece no, non intendeva avvertirmi di nulla. Voleva solo esprimermi il suo fastidio perché mi stavo spostando sulla corsia di destra, con regolare freccia accesa da alcuni secondi, mentre lei voleva sorpassarmi proprio a destra. A confermarlo, la pronta occhiata di riprovazione, mista a un velato disprezzo, che mi ha raggiunto attraverso il retrovisore.

Ora, come ben sappiamo la riprovazione riguarda l’atto, mentre il disprezzo riguarda la persona. Ma il codice di comportamento tra sconosciuti in automobile permette di esprimere bene entrambe le sfumature. Sia su binari paralleli, sia, (se necessario, quando non vogliamo andare troppo per il sottile), anche in un unico minestrone di brutti sentimenti pronti per l’uso.

Fondamentalmente, un comportamento che non condividiamo ci offre l’opportunità non solo di sentirci migliori di qualcun altro, ma persino di cercare conforto, magari con uno sguardo complice o incredulo, in qualche altro automobilista o pedone nei paraggi.

Nel traffico, infatti, non vale lo stesso codice di condotta che normalmente osserviamo verso gli sconosciuti. Dove magari è ammesso un qualche scarno dialogo strettamente legato alla condizione in cui palesemente ci troviamo: le informazioni sui mezzi passati alla fermata del bus, sull’ordine di chiamata nella sala d’attesa del dentista, e così via.

No. in auto la barriera del veicolo – che ci protegge, ma è anche un arma d’offesa – garantisce è una sorta di semi-anonimato dove ogni atto può – anzi, deve – essere debitamente teatralizzato. Uno sguardo, un epiteto, un labiale, un gestaccio attraverso il finestrino assumono spesso una rilevanza semi-pubblica. Compresa l’occhiata con cui squadriamo il volto di chi ha compiuto una manovra particolarmente odiosa, forse per trovare nei suoi lineamenti la conferma lombrosiana del nostro pregiudizio di partenza. Che poi è sempre lo stesso assunto, che suona più o meno così: “il mondo va a rotoli perché noi facciamo parte di una sparuta minoranza di persone civili, che sanno guidare e hanno  rispetto per gli altri; questi parassiti invece, quando tornano a casa, forse picchiano le loro mogli e lasciano i loro cani sul terrazzo tutta l’estate”. Confortati da questa certezza, come premio, quantomeno vorremo guardarli in faccia, per vedere il volto del male, della stupidità, dell’arroganza.

Semi-anonimato, dicevamo. E rilevanza semi-pubblica, abbiamo aggiunto. Ecco, io credo che questi termini – qui sul Web – dovrebbero farci scattare un rumoroso campanello d’allarme. Perché si tratta delle stesse condizioni in cui ci troviamo quando decidiamo di interloquire con uno sconosciuto su Facebook, in un post leggibile da altre persone. Dove puntualmente, anche qui, scatta in noi qualcosa di lombrosiano quando ci imbattiamo “negli altri”, nella “massa informe”. Cioè in tutti quelli che fondamentalmente, riteniamo meno informati, meno consapevoli, meno attrezzati di noi: dal grillino complottista, alla bimbominkia sgrammaticata, al pasionario irragionevole di questa o quella parte politica, allo spammatore di foto di cani scuoiati, all’irriducibile ricondivisore della bufala più evidente, e così via.

Tutta gente che – mannaggia! – può anche lei scrivere ed essere condivisa con successo su facebook, creare pagine con diecimila like per una petizione contro un inesistente sperpero di danaro pubblico, trasformare una battuta volgare e sessista in un tormentone, perché per cento persone mosse dal demone di pubblicare qualcosa di becero ce ne saranno sempre migliaia pronte ad amplificare il messaggio, e tutto per colpa di quel maledetto bottone “share”.

Ora, a ben vedere, il risultato è che con gli sconosciuti, nelle discussioni pubbliche (proprio come accade in auto) siamo motivati a dialogare quasi sempre in un solo caso: quando appunto non siamo d’accordo con loro. Specie quando abbiamo l’opportunità unica di far passare l’eterno messaggio identitario, lo stesso che regna da sempre in mezzo al traffico e cioè quello per cui “io sono migliore di te”.

E a prescindere dal merito e della gratuità di una affermazione del genere, siamo davvero di nuovo di fronte a una grave sconfitta. A sentire Lawrence Lessig il web (a differenza del traffico cittadino) ci permetterebbe di trovare il bello proprio nello sconosciuto e nell’inaspettato, la famosa “serendipity” di cui si favoleggiava nei primi barcamp. Ai tempi, iniziavamo a guardare molti illustri sconosciuti negli occhi, e quegli sconosciuti ci piacevano. Ma proprio ora che siamo riusciti ad aggregare le nostre conoscenze per interessi e passioni comuni, partendo dalla rete ma portando spesso queste affinità nel mondo degli atomi, ecco che ci siamo di nuovo chiusi a riccio e ci apprestiamo a salire sull’Arca, mentre fuori vediamo solo un diluvio universale di ignoranza e stupidità.

Siamo diventati, in sintesi, ciechi – ma per scelta. Appagati dalle continue, pulviscolari gratificazioni della nostra cerchia abbiamo stabilito di non voler guardare oltre ciò che è distante da noi. Con buona pace della social diversity e della shared culture propugnata da Lessig e da altri visionari.

La cosa più triste è che questa cecità sociale diventa ancora più grave di fronte a quello che accade, lontano dalla rete. Come accennai di recente all’Internet Festival di Pisa (e ringrazio Maria per averlo ricordato), se siamo disposti a pagare perché qualcuno ci imprigioni in una sala buia per assistere a qualcosa che potremmo serenamente vedere anche nel salotto di casa (di solito un film, ma più di recente anche eventi live e persino versioni “da big screen” di mostre d’arte), questo indica un mutamento radicale della nostra prospettiva sociale.

Il punto è che con “gli altri” non vogliamo più parlare, al di fuori delle nostre passioni, dei nostri interessi verticali, perché sui problemi reali, sui temi di attualità i media analogici ormai da vent’anni ci hanno insegnato a metterci uno contro l’altro, e i flame su facebook sono solo un ovvio riflesso di questo consolidatissimo andazzo. Guardiamo il vicino di casa o il parente al cenone di Natale non come una persona che ha i nostri stessi problemi, ma come l’idiota che pensa di risolverli votando per uno che dice “vaffanculo” nelle piazze. E dal tizio che stringe “Libero” sotto il braccio  ci aspettiamo uno squallido tentativo di passarci avanti nella fila della posta.

Pretendiamo di avere un raffinatissimo e lombrosianissimo sguardo socio antropologico su tutto e su tutti. E francamente mi chiedo, a volte mi chiedo, che razza di cambiamento potrà mai innescare un Paese prigioniero di una prospettiva del genere.

Perché non avremo mai la S-Bahn

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Noi non avremo mai un treno urbano come la S-Bahn di Berlino. Noi avremo sempre la nostra tronfia, pesante e ridicolmente insufficiente metropolitana.

Quella metropolitana che i berlinesi ovviamente hanno, e che chiamano U-Bahn, ma che non è precisamente il loro orgoglio. Perché ce l’hanno tutte le capitali civili, una vera metropolitana sotterranea, con decine di linee intrecciate ed interconnesse agli altri servizi di trasporto.

Mentre loro hanno questa cosa, la S-Bahn, che solo i berlinesi possono compiutamente avere. Più elegante della RER di Parigi, più capillare dell’Overground Londinese, la “S” è un servizio di treni urbani che corrono in sopraelevata, ma discretamente, attraversando una città con cui vivono in simbiosi. Senza ferirla, senza stuprarla, come puntualmente accade coi nostri nostri inquietanti nodi ferroviari, concepiti come barriere, anzi fratture del tessuto metropolitano.

Sotto le arcate della S-Bahn, i berlinesi hanno costruito senso. Sul serio: hanno utilizzato i viadotti per realizzare negozi, librerie, bistrot, tutti collegati da percorsi pedonali dove il treno non spaventa, anzi rassicura con la sua costante presenza.

E’ una ferrovia che le persone non usano solo per spostarsi. Letteralmente, la vivono. A Berlino, infatti, la ferrovia non è un non-luogo: è un pezzo di città, che serve a rimescolare le persone, a farle incontrare anche casualmente, a evitare di vedere, sui propri percorsi quotidiani, sempre le stesse livide facce.

Da noi, a Roma, la metropolitana racconta solo il suo essere obbligo, vincolo, ripetizione. Quando sfiora i quartieri borghesi, è il treno che prendono i turisti o gli studenti, o – semplicemente – gli sfigati che non possiedono l’auto. Nella migliore delle ipotesi, racconta se stessa: i colori dei treni, lo “stile” autoreferenziale delle stazioni, coi loro rari e comunque squallidi negozi, che le persone scansano frettolosamente a piedi lanciando qualche sguardo di disprezzo sia ai gestori che ai derelitti avventori. A Roma il treno è la negazione della socialità. Fosse per chi ha concepito la nostra metro, le nostre ferrovie metropolitane, potremmo anche tenere gli occhi chiusi per tutto il viaggio. Persino linee urbane nuove, come la FR1 e la FR3, che hanno collegato per la prima volta quelli che erano veri e propri compartimenti stagni mai entrati in contatto fra loro, come Trastevere con la Balduina, o come il Salario con la Magliana, si sono rivelate un’occasione persa. Anche perché lo Stato, tagliando costantemente i fondi per farle funzionare sul serio,  sembra quasi voler porre rimedio all’eresia, nel timore di creare un pericoloso precedente.

In alcune nostre città, come Milano, la metropolitana serve soprattutto a raccontare agli altri che sei a Milano: la città con la più grande metropolitana, che serve appunto ai milanesi a far funzionare la locomotiva d’Italia, la capitale morale, la città da bere e tutte le altre menate che ci hanno raccontato prima di scoprire il Trota e i suoi rimborsi per la palestra.

In altre, come Torino, la metropolitana serve a ricordare che sì, anche noi “anche noi” piemontesi ce l’abbiamo, ed è pure robottizzata. E hai voglia a spiegargli che da quelle parti tutto funzionerebbe egregiamente potenziando i tram e qualsiasi mezzo in grado di viaggiare su sede propria. Ma non sia mai, siamo a Torino, mica a S. Francisco.

In fondo, a noialtri italiani, alla fine interessa solo sgommare via dal parcheggio in doppia fila, possibilmente nel modo più visibile e rumoroso. Perché non siamo mai stati socialmente adulti, quindi dobbiamo anzitutto ancora dimostrare che possiamo staccarci dagli altri, spostandoci autonomamente, quando vogliamo noi.

E quindi, in definitiva no, non ci interessa guardare il mondo dal finestrino di un treno, come si può fare dalla S-Bahn. Non vogliamo e quindi non avremo mai un mezzo di trasporto che entra davvero nelle nostre giornate in punta di piedi, senza sostituirsi al paesaggio, senza interferire con la città, senza sottrarre nulla alle nostre vite proprio perché fa parte della nostra vita.

Ecco, forse è questa la principale differenza. La nostra metropolitana racconta se stessa. La S-Bahn racconta la città e la vita di chi ci abita. Alternando i colori tenui dell’inverno a quelli necessariamente sgargianti delle insegne, coi contorni distorti dalle gocce di pioggia e i suoni dei passi che si mescolano alla litania dell’altoparlante. Quell’immancabile “Ausstieg, Links”, che precede l’annuncio della prossima fermata.

E’ una questione antropologica. Proprio come noi, i nostri treni corrono rumorosamente sul piano della propria rappresentazione. Proprio come i berlinesi, la S-Bahn viaggia silenziosamente sul piano della realtà.