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Tra Roma, Berlino e Viterbo alla ricerca di un respiro più lungo

berlin

Sono stati giorni un po’ convulsi, quelli delle ultime tre-quattro settimane. Come spesso accade in questo periodo dell’anno, con alle spalle un inverno segnato da una fitta sequenza di “cose da fare”, a volte senza troppo costrutto, ho sentito il bisogno di fermarmi a scambiare idee con quelle poche persone con cui ti capisci al volo per staccare un po’, soprattutto di testa.

Mi sono corse in aiuto le persone, ma anche i luoghi. Complice l’invito al Media Web Symposium di Berlino, ho raccontato agli amici del Fraunhofer le mie riflessioni su Tumblr, l’unica cosa di lungo respiro a cui ho potuto lavorare negli ultimi tempi, mettendo insieme nuovi dati e alcuni studi comportamentali sui trend d’uso dei social media.

L’ultima frase delle mie slide, peraltro, non ha alcuna base scientifica: sono io che spero di vedere nell’apparentemente inspiegabile sopravvivenza di Tumblr il possibile segnale di un riflusso. Credo che alcuni di noi inizino a cercare un buen retiro segnato da un più basso investimento cognitivo e un minor controllo sociale, con meno ostacoli alla libertà d’espressione e alla condivisione di emozioni nella loro forma più immediata. Senza, per intenderci, che le molte persone con cui abbiamo a che fare quotidianamente, online e offline, ne debbano trarre “significati” o peggio “conseguenze” secondo codici che peraltro sarebbero ancora tutti da scrivere, visto che quelli preesistenti non valgono più.

Il disagio verso i luoghi socialmente pesanti, dove ogni tuo comportamento viene letto, interpretato e giudicato da chi conosce non solo la tua identità, ma anche la tua storia vale anche, manco a dirlo, nel mondo reale. Per rimanere nella metafora di questi giorni, Roma è per me pesantissima, così come Berlino è straordinariamente leggera. Mi piacerebbe poter dire che ciò dipende da una condizione soggettiva (magari chi vive a Berlino da trent’anni potrebbe fare il ragionamento inverso), ma alcune cose mi dicono che c’è anche un problema di “predisposizione alla pesantezza”. Eternità, per intenderci, significa anche immobilità, e l’immobilità è il brodo ideale per il controllo sociale e la pretesa di una chiave di lettura universale dei comportamenti.

Forse l’unica cosa di cui non solo chi sfoglia foto su Tumblr, ma anche chi cammina per le nostre strade inizia a sentire il bisogno è liberarsi dal vincolo di necessarietà tipico di molti nostri paesaggi urbani. Ogni cosa che vediamo o sentiamo risponde a una necessità: l’insegna, il cartellone pubblicitario, il rumore del traffico, la musica nei negozi, la gran parte degli odori e dei profumi. Questi elementi non sono da respingere in quanto tali, anzi spesso è esattamente ciò che cerchiamo in una città. Ma quando sono loro a cercare pezzi della nostra vita, spesso per sfilarceli via, con la tendenza ad occupare tutto lo spazio disponibile dentro di noi, ecco che la città diventa insostenibile, ed è esattamente questo che Roma in questo frangente storico sta diventando: una somma di vincoli di necessarietà.

Se ho bisogno di un respiro più lungo, ho bisogno di spazio per farlo. E Berlino – coi suoi spazi ancora in cerca di una nuova identità, residui delle fratture del passato – mi corre in soccorso, come a volte provo a raccontare anche per immagini. Non so se Roma sia la mia Facebook, e Berlino la mia Tumblr, ma tutto sommato non importa, le metafore le lasciamo ai quotidiani manovali del significante. Ma con buona pace di Jep Gambardella, che mette tutto su un piano orizzontale (“le cose che voglio fare e le cose che non voglio fare”), l’esigenza di una prospettiva più ampia è la scoperta più importante dei miei ultimi scampoli di esistenza, da reinvestire in quelli venturi.

Prima di Berlino peraltro, grazie agli organizzatori di Medioera, delle lessons learned from Tumblr ho potuto parlare a Viterbo con persone ben più autorevoli e mentalmente libere di me come Mafe e Gallizio. Viterbo è forse l’unica provincia del Lazio che sta provando a legare il suo territorio a una “scatola delle idee”, che per ora prende la forma di un festival di cultura digitale ma che probabilmente potrebbe connotare molti altri momenti pubblici nel corso dell’anno. Ne varrebbe la pena anche anche se lo scopo fosse solo quello di far entrare nei grandi circuiti le tante cose belle e buone prodotte da questa terra, per non parlare della bellezza e dell’autenticità delle persone. Ne è venuta fuori una discussione a cavallo tra il freddo lavoro dell’analista e l’intimo rapporto che ognuno di noi ha col Web e le cose che ci stanno dentro. Sono sicuro che il nascente libro di Mafe sulla natura rivelatrice del reale di Internet aggiungerà molta carne al fuoco, su questo e su altri temi adiacenti.

So solo che da questo mese di parole, suoni e colori, come forse si sarà capito, mi rimarrà parecchio. Quindi sento di dover esprimere la mia riconoscenza a chi le ha dette, a chi li ha suonati, a chi li ha dipinti. Sperando di tornare presto sui luoghi del delitto.

La tecnologia è sopravvalutata

danielProvate ad aprire il menu “impostazioni” di Facebook. Non passa settimana che non venga introdotta una nuova funzionalità per dare all’utente il massimo controllo possibile – da un punto di vista tecnologico – del proprio account. A partire dalle liste, che permettono di scegliere chi può vedere i nostri post, per proseguire con la privacy (chi mi può contattare, chi mi può taggare, chi può vedere quello che gli altri postano nella propria timeline, ecc. ecc.) per finire con le opzioni “block” e “report”, in caso di decisioni più drastiche.

Se proviamo ad approfondire, scopriamo che è un trend generalizzato. I cosiddetti “Over The Top” players (e quindi anche Google, Amazon, EBay, ecc.) pensano così di rispondere alle crescenti – e ingiustificate – accuse di prestarsi agli abusi, quando non al compimento di veri e propri reati.

Si tratta, per carità, di funzionalità utilissime, ma che prestano il fianco a un equivoco: quello che il problema dell’uso dei social media (e quindi anche la soluzione degli abusi) sia un problema tecnologico. Cedere, come fanno gli OTT, a questo equivoco significa legittimare le posizioni di chi – spesso per difendere le proprie piattaforme di comunicazione “a una via” – accusa i social media in quanto tali, cioè “a due vie”. In quanto, per l’appunto, “social”.

In un social media, per quanto ricco di nuove funzionalità e di opzioni di personalizzazione, gli “effetti emotivi” di una azione compiuta nei nostri riguardi ha in realtà a che fare in primissima battuta coi codici (e quindi coi significati) che individualmente attribuiamo a tali azioni.

L’esempio più banale è il famigerato “Poke” di facebook. A seconda del contesto, del vissuto delle due persone che se lo scambiano, del significato individuale che gli attribuiamo se arriva da uno sconosciuto o comune se fa parte di una “storia” o di un linguaggio tra persone in confidenza, potrà voler dire molte cose diverse e determinare effetti emotivi molto diversi. Non a caso, quando fu introdotto,  non avendo alcun codice comune di interpretazione, generò parecchi equivoci.

Ma i problemi principali nascono dalla confusione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Infatti, quando scriviamo qualcosa in pubblico, spesso mandiamo un messaggio speciale a qualcuno in particolare, pensando che lo possa leggere in un certo modo,  presumendo di avere un codice comune di intepretazione di quel messaggio. O magari ci rivolgiamo alla nicchia che condivide il nostro linguaggio pensando che ciò sia sufficiente perchè possa essere decodificato nel modo che desideriamo.

A volte, inconsciamente o meno, gestiamo i nostri messaggi pubblici con le logiche della comunicazione di massa. Se siamo molto noti in un ambito ristretto (se ci leggono spesso – diciamo – un migliaio di persone) ci comportiamo da “microcelebrità” e pensiamo di rivolgerci indistintamente alla nostra “micromassa”, adottando un nostro stile che riteniamo sia “micro-universalmente riconosciuto”. E tutti questi ossimori (microcelebrità, micromassa, microuniversale ecc.) dovrebbero rivelarci quanto mal riposta sia la nostra speranza di aver scritto un codice forte come quelli consolidati in anni da chi (giornali, radio, televisioni) poteva nutrire questa ambizione per il fatto di gestire canali esclusivi e monodirezionali.

Sovente ci comportiamo come quegli adolescenti che avendo una propria grezza idea di come debba svolgersi una relazione sociale rimaniamo delusi (e scornati) quando vediamo che l’interlocutore, banalmente, la vede diversamente.

Pensiamo alla famigerata funzione “visualizzato alle” di Whatsapp. il “Gruppo A”  dà per scontato che l’instant messaging richieda sempre una risposta immediata. Altri, il “Gruppo B”, lo considerano un mezzo del tutto asincrono, proprio come la posta elettronica.  Ebbene, i primi si sentiranno in obbligo di rispondere sempre e subito, magari anche frettolosamente. E per non avvertire la pressione di tale obbligo, troveranno utile disabilitare la funzione “visualizzato alle”. Il Gruppo B, inversamente, ignorerà serenamente quella funzione, mentre magari risulterà infastidito dalla brevità di una risposta, per quanto immediata. Ovviamente nessuno ha scritto una regola valida per tutti, e la possibilità introdotta dalla piattaforma di “non rendere pubblico il momento in cui abbiamo visualizzato un messaggio” non risolve minimamente gli equivoci che ne possono nascere.

Per dissipare, negli anni, questi equivoci, occorrerà capire col tempo a quali esigenze strettamente “sociali” degli utenti vengono incontro queste tecnologie. Dobbiamo imparare la lezione degli anni ’90, quando sviluppavamo una tecnologia pensando di indurre un bisogno (c’è un’intera scuola di marketing che poggia su questo assunto) mentre di fatto stava per accadere l’esatto contrario. E’ in quegli anni che furono fatti ingenti investimenti per permettere la fantascientifica “videotelefonata”, salvo poi scoprire che a nessuno interessava essere disturbati nella propria intimità, e dover gestire l’enorme carico sociale della propria immagine, in un momento deciso non da noi, ma da chi faceva squillare il nostro telefono. Ed è sempre in quegli anni che – senza fare grossi investimenti – fu deciso di sfruttare una caratteristica dello standard GSM per permettere agli utenti di inviare brevi messaggi di testo, gli SMS. Scoprendo così che la vera esigenza a cui non era stata data risposta era appunto quella di una comunicazione asincrona e a basso impatto emotivo. Una lezione che ancora in molti sembrano non aver imparato a sufficienza.