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Chiamala, se vuoi, RAItudine

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Ebbene sì, mi tocca parlare ancora della RAI. Ma stavolta non è per scongiurare con una petizione la cancellazione dei video d’archivio da YouTube, o per parlare di OTT-TV, Social TV, modelli di business e altri temi poco estivi.

No, questo è proprio un post sentimentalista, di quelli che si scrivono sotto l’ombrellone ripescando nei propri ricordi e nei propri istinti primari.  Il motivo di questa struggenza agostana è che la RAI, per un verso e per un altro, negli ultimi tempi è tornata far parte della mia vita, dopo qualche doloroso anno di “ok, ma restiamo amici”. E questo tipo di ritorni di fiamma, per uno che si spaccia per un freddo studioso degli ecosistemi dei media, può avere effetti collaterali dirompenti da un punto di vista emotivo.

Ripensandoci, il punto è che l’aver studiato la RAI e le sue evoluzioni, prima per gioco e poi anche per lavoro, è stata solo l’ovvia conseguenza di un mio desiderio infantile, e cioè un mondo in cui le persone – alla radio e alla televisione – avrebbero visto e ascoltato le cose più belle (sì, ho scritto proprio “più belle”, non a caso ho usato l’aggettivo “infantile”), e non quelle decise da un responsabile marketing della Findus.

Il che sposta da sempre la mia attenzione molto più sull’evoluzione delle radio e delle televisioni pubbliche, nel mondo, rispetto alle varie aziende televisive private, per le quali la missione è ovviamente e legittimamente fare profitti, a prescindere dal valore del contenuto.

Come ben sappiamo la RAI, negli ultimi anni, complici una serie di vicende politico-economiche più o meno note a tutti, ha finito per costituire una versione “sfigata” della televisione privata sia nel modello di business sia, come conseguenza, nella tipologia dei contenuti, allontanandosi notevolmente da questo tipo di utopia alla quale – almeno idealmente – il contratto di servizio sembra tutt’ora ispirarsi.

Lo scopo di chi ha indirizzato questa ormai trentennale deriva era precisamente e consapevolmente quello di far vincere il privato. E’ il privato, infatti, ad aver potuto in Italia operare in una sostanziale condizione di monopolio, e tutta l’operazione è stata resa ancora più facile dal sostanziale e tutt’ora perdurante dominio di un solo soggetto su tutta la raccolta pubblicitaria televisiva. Un dominio che permette a costui di stabilire non solo quali prodotti esistono, ma anche quali politici sono ancora in vita, quali fatti avvengono, quali problemi affligono il paese e quali sono le soluzioni a tali problemi. Se non abiliti quel modello, se non rispetti quel vincolo non vai in TV, quindi per gli italiani semplicemente non esisti.

Ora, io sono ben consapevole dell’argomento che qualcuno potrà opporre rispetto a questa premessa. Prima ancora di stabilire quale sia la missione di un servizio pubblico, e se davvero di un servizio pubblico radiotelevisivo vi sia bisogno, chi può salire su un piedistallo e stabilire cosa è un contenuto di valore e cosa non lo è? Non è forse questo intervento pretenzioso ad opera di una presunta élite intellettuale nel libero mercato dei contenuti a costituire in linea di principio l’infrazione di una libertà fondamentale dell’individuo, quella di nutrirsi dei contenuti (e dei valori) che vogliamo, proprio come ognuno ha il diritto di saccheggiare gli scaffali di junk food nei bar e nei supermercati?

Ecco, c’è un problemino. Questi ultimi trent’anni hanno dimostrato che questo  argomento è tutt’altro che ineccepibile, e ce lo dicono in primis i desolanti dati sull’analfabetismo di ritorno. Semmai tale tesi ha costituito l’alibi perfetto che ha permesso alla televisione pubblica di svuotarsi di tutto quel racconto dell’Italia e del mondo che grandissimi professionisti, almeno fino a tutti gli anni ’80, hanno provato a riversare nelle case degli italiani. Creando un linguaggio e persino una lingua comune, per cominciare, ma anche tanti motivi per stare insieme, per non guardarsi sempre e comunque in cagnesco sul pianerottolo, come pare oggi, nei tempi della crisi di sistema e dell’inevitabile, quotidiana “guerra dei poveri”.

E l’essere stati capaci, per tanti anni, di far scoprire agli italiani la cultura, il teatro, il cinema e persino di dare una rappresentazione alta della politica, al fianco di un intrattenimento leggero ma sempre “degno”, nel senso del rispetto dell’intelligenza del telespettatore, non fu – almeno a mio parere – solo merito di competenze e professionalità, ma anche di una pratica consolidata negli anni, quella che ho sempre chiamato “RAItudine“. Che poi è rimasto l’unico vero tratto distintivo del nostro servizio pubblico anche rispetto a quelli degli altri Paesi, animati in larga misura da propositi e missioni simili.

E che cos’è questa RAItudine di cui sto vaneggiando? Beh, in estrema sintesi potrei chiamarla quella capacità di rendere leggera e parte del nostro quotidiano quella stessa pesantissima missione e quegli stessi impegnativi propositi: educare il Paese, far scoprire la bellezza delle nostre diversità ai nostri stessi connazionali, consolidare la coesione sociale e il rispetto dei valori comuni attraverso la diffusione di uno stile e di un linguaggio comune.

Tutte cose che – si badi bene – nell’immediato dopoguerra non c’erano, e che quindi andavano inventate ex novo. Una operazione che richiedeva un fortissimo senso di responsabilità,  quella responsabilità che chi ha svuotato di senso il servizio pubblico sa bene di aver dovuto mettere da parte, magari con l’ipocrisia ormai ventennale dei bollini verdi e rossi che tutto e il contrario di tutto hanno fatto penetrare dal video direttamente nelle teste delle ultime generazioni.

Certo, i Bernabei che si inalberavano per le calze color carne delle gemelle Kessler erano davvero degli inguaribili e dannosissimi bacchettoni. Eppure dietro l’ingenuo scrupolo si celava proprio quella magica parola, “responsabilità”, che oggi, in virtù dell’inattaccabile alibi liberista, vorremmo rimuovere del tutto dalla tag cloud dei nuovi costruttori di immaginari, dei nuovi piani della rapprentazione di un Paese che forse ha paura del proprio essere “Paese Reale” (e infatti ne racconta un altro, che non è mai esistito).

La cosa affascinante che ho scoperto negli ultimi tempi, e che mi fa ancora sperare in un ritorno se non a quella RAI, che ha fatto ampiamente il suo tempo, a quel senso di responsabilità, è che i residui fossili della RAItudine hanno ben resistito a trent’anni di Pensiero Unico Berlusconiano e all’arrivo in massa delle sue truppe cammellate in tutti i luoghi di potere, RAI compresa.

Ricordate quando Sandra e Raimondo furono letteralmente comprati da quella che allora si chiamava “Fininvest”? Ce li ritrovammo eternamente vestiti lui in un clamoroso smoking, lei in un tripudio di paillettes obbligatorie, un po’ imbarazzati al centro di un lustratissimo studio milanese, quasi a voler essi stessi costituire l’unico motivo per farci cambiare canale. E infatti, privi di autori all’altezza e costretti a improvvisare (eh sì, il “Sandra e Raimondo Show” impallidiva di fronte al leggendario “Tante Scuse”), ci facevano cambiare due volte: la prima per andare su Canale 5, la seconda per tornare a guardare Benigni e Troisi sulle reti di stato.

Eppure proprio quella spregiudicatezza che i cugini d’oltralpe rispedirono al mittente (con tutto il cucuzzaro di “La Cinq”, che brividi) da noi trovò terreno estremamente fertile. Non ne potevamo più di Fanfani che ritardava l’arrivo della TV a colori (“gli italiani non possono permettersela in piena crisi petrolifera”), degli anatemi di Pasolini contro il consumismo che distruggeva la nostra innocenza. Perché noi quell’innocenza volevamo prenderla a martellate. Volevamo un mondo scintillante di soubrettes finalmente scollate proprio perché eravamo sessualmente repressi, perdendo così anche il treno di una vera liberazione sessuale di stampo mitteleuropeo, che invece quasi riuscì persino alla Spagna di Felipe Gonzales, ansiosa di liberarsi in fretta dalle pastoie di decenni di catto-franchismo.

Probabilmente si trattò di un passaggio obbligato. Il problema è che ne affidammo le redini a chi, come oggi sappiamo, pensava a tutt’altro. Mentre, per dire, nel 1969, quando fu allestita in RAI la diretta fiume per la conquista della luna, qualcuno che pensasse a noi, a noi telespettatori (e non al responsabile marketing della Findus, in prima battuta) c’era davvero.

E quindi, invece di copiare le musiche roboanti che contrassegnavano l’analoga moon coverage sulle privatissime CBS, ABC e NBC, c’era qualche assennato Capo Struttura che decise di attenuare l’enfasi, rilassarci con una sorta di musica d’ascensore mentre Andrea Barbato e Tito Stagno annunciavano i collegamenti con Cape Canaveral e le altre sedi collegate. Ecco, per farvi capire bene cosa intendo con RAItudine, vi invito a sbirciare le immagini di quella serata televisivamente perfetta, che – con tutti i vincoli tecnici dell’epoca – più di ogni altra cosa fa capire cosa e come dovrebbe essere un servizio pubblico quando racconta un evento di quella portata a una intera nazione. E in che modo la televisione fosse ancora in grado di incarnare il concetto di “responsabilità”.

Ebbene, la cosa che sto scoprendo in questi giorni è che l’eredità, o forse solo i residui fossili di quel tipo di indispensabili scrupoli nella televisione pubblica ci sono ancora oggi. Per esempio quando “sente” di dover adottare HTML5 nei formati dei video sul web. Oppure quando avverte l’obbligo di sperimentare l’interazione con altri schermi, quelli che la televisione privata guarda ancora con terrore. O quando ti inonda il salotto delle austere e mai interrotte note del quinto canale della filodiffusione, che oggi viene correttamente definito un canale di pubblica utilità.

Ma anche quando mette a disposizione in podcasting quasi tutte le più importanti rubriche radiofoniche, e non ha paura di usare questa parola nei richiami delle sigle finali  (“tutte le puntate sono disponibili in podcast”). Qualcosa resterà, pensa la testa del broadcaster, e magari qualche nipote potrà spiegare alla nonna come non perdere più una puntata di Fahrenheit.

E infine quella RAItudine ancora salta meravigliosamente fuori quando un pioniere del Web 2.0 come Antonio Sofi chiama a raccolta, fin dentro i teatri di posa di Via Teulada, un manipolo di twittaroli (il neologismo è della formidabile Celestina Pistillo), con l’intento di  movimentare i talk show della prima serata. Forse l’unico modo, far entrare la Rete fin dalla concezione del format, per aprire un programma come Millennium alle suggestioni e alle provocazioni di Twitter, non più e non solo un rutilante esercito di aforisti da strapazzo, ma anche una arena di vox populi in tempo reale.

Ecco, io vorrei tanto che dalla tenacia dei consapevoli e inconsapevoli, vecchi e nuovi vessilliferi della RAItudine, dell’amore per il Pubblico, del primato dello scrupolo sul modello di business imparassimo anche noi, anche noi blogger o quello-che-siamo-diventati che, lasciatemelo dire, secondo me continuiamo a scrivere e a pubblicare le cose migliori proprio quando nessuno ci paga, o meglio quando ci appaga il senso di libertà e il voler bene a chi ha la bontà di seguirci.

Perché è del tutto legittimo scrivere, parlare in pubblico, salire su un palco per essere notati e alla fine anche meritatamente ingaggiati da una radio, da una televisione o da una casa editrice. Ma quando vi leggo, che poi è un po’ come guardarvi negli occhi, le cose più belle mi arrivano quando le pensate, o le “sentite”, libere – e quindi gratis.  Per me che vi leggo e – ahimé – anche per voi che le scrivete.

E non, per intenderci, quando qualcuno vi mostra i lontani bagliori delle paillettes di una imbarazzatissima Mondaini, ma solo dopo aver stilato l’inesorabile e antichissimo elenco delle regole per farvi “funzionare”.

 

Android Tv è un passo indietro. Nella migliore delle ipotesi.

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Sono ormai alcuni mesi che gioco con la Chromecast, l’accrocchetto iper-cheap che trasforma qualsiasi flatscreen in una Connected TV, e mi stavo pure divertendo. Anche perché, per la prima volta, non è un sistema che dipende da accordi con le major, i broadcaster e i costruttori di televisori, ma un vero “disintermediatore” che sposta ogni interazione sugli schermi che Google già domina (smartphone e tablet) riducendo lo schermo del salotto al semplice ruolo di “visualizzatore finale”.

Adesso però, come un fulmine a ciel sereno Google cambia di nuovo le carte in tavola e lancia una “roba” che si chiama Android TV. Ora, io capisco che nel mondo OTT quasi tutto è software, tutto si può lanciare e buttare in un secchio poco dopo (ricordate Google TV?) però in questo caso la prima impressione è che anche dall’alto di Mountain View l’orizzonte di cosa fare, con questa benedetta Connected Television, sia avvolto nella nebbia più fitta.

Che cosa cavolo è Android TV? Non è, provano a ripetercelo in ogni modo, “una piattaforma”. A risentire l’annuncio della I/O Conference, parrebbe un semplice aggregatore cross-screen, che riorganizza tutti i tuoi contenuti, giochi compresi, a patto che

1) tali contenuti siano gestiti nella nuvola di Google, quindi YouTube, Google Play, Google Music, ecc. e….

2) il grande schermo finale sia di un costruttore con cui Google ha stretto un accordo (per ora Sony, Sharp, e pochi altri).

La cosa affascinante è che – sempre ad ascoltare l’annuncio di Google – Android TV comprenderebbe tutte le funzionalità della Chromecast. Ma questo è ovviamente vero solo se tali funzionalità sono integrate nei televisori costruiti da chi si accorda con Google, quando invece la chiavetta Chromecast standalone attraverso la porta HDMI non guarda in faccia nessuno: come si diceva prima, “è un disintermediatore”.

Insomma, a una prima occhiata (ma magari occorrerebbe prima vederla in azione) verrebbe da definire Android TV una pallida imitazione di Apple TV senza il fastidio del set top box, e comunque con qualche anno di ritardo. Verrebbe a questo punto da chiedersi: perché Google continua a comportarsi come il granchio che fa un passo avanti e due indietro, quasi intimorita dal più grande degli schermi, l’ultimo che gli rimarrebbe da conquistare?

E’ come si ci fossero due anime. Una, poco creativa, che cerca di copiare il modello iTunes, quello di presentarsi dalle major, dai broadcasters e dai costruttori per dire “sono l’unico che può salvare le vostre industrie”. E questa si chiama Android TV.

L’altra anima è quella che potremmo chiamare “la rotta di collisione”, su cui la Chromecast iniziava a muovere i primi timidi passi: è quella per cui anzitutto le “cose” (le interazioni, le condivisioni, gli scambi di dati, la social tv…) succedono sugli schermi dominati da Android, abilitando i modelli tipici che foraggiano Google. Solo in un secondo momento, sperando che un numero crescente di applicazioni Android  supportino Chromecast, il contenuto – non necessariamente video –  atterra sullo schermo grande, rubando la scena (e il pubblico) al canale televisivo tradizionale, con conseguente stracciamento di vesti di quest’ultimo, delle major, insomma di tutto il vecchio mondo.

Ma siamo sicuri che sia solo schizofrenia, questa di Google? E se il secondo scenario non fosse solo un secondo tavolo per far capire agli altri cosa potrebbe succedere loro se non venissero accolte le condizioni di Google sul tavolo principale (Android TV, appunto)?

Non sarebbe nemmeno l’unico caso in cui Google crea una situazione di fatto solo per utilizzarla come leva negoziale. Sappiamo, per esempio, che Google ha minacciato le etichette musicali indipendenti di togliere i loro video da YouTube se non aderiranno al servizio di video a pagamento di cui si parla da qualche tempo.

Se così fosse, direi che è facile dire “Don’t be evil”, con la bontà degli altri. Ma magari sono solo mie congetture. Staremo a vedere.

Perché non esiste una libreria così?

L’altro giorno, a Marina di Pietrasanta, sono entrato nella storica libreria del corso principale. Anche se ormai questo vecchio negozio sembra la metafora dell’editoria in crisi, con tanti libri accatastati e mai comprati da chissà quando, è un luogo a cui sono affezionato, e dove mi rifugio quando sono assediato dalla tipica pressione sociale che subiamo nei giorni di festa, in cui dovremmo avere sempre un sorriso per tutti tranne che per noi stessi.

Scappo lì dentro perchè una libreria, ogni libreria, compie sempre e comunque un miracolo: quello di moltiplicare le possibilità di incontrare persone curiose, che “vogliono arrivare in fondo alle storie” e quindi anche solo per questo motivo ci somigliano.

Ero lì con mia figlia, che come al solito ha usato Fidel – il cane bassotto di casa – come chiavistello relazionale, facendo subito amicizia con una bella bambina che stazionava nell’angusta area destinata ai libri per ragazzi. Mi volto, un paio di sorrisi familiari e capisco subito che si trattava della nipotina di carissimi amici, anche loro appassionati di “storie”.

E così la stringente sequenza degli impegni pasquali ha lasciato un breve spiraglio al senso, alla curiosità, alle persone con cui abbiamo qualcosa a che fare, che puntualmente incontriamo dove ci sono le storie: vere, inventate, semiromanzate, rilette o riraccontate in mille modi diversi, fatte di testo, di fumetti, di immagini fisse o in movimento. Comunque: storie.

Penso per un attimo alle grandi librerie o meglio, ai grandi Mediastore che popolano le grandi città. Spazi da sempre all’inseguimento dell’avventore casuale, fungibile, al quale vendere il libro piazzato nella piramide dopo l’ingresso, quello che è su tutti i manifesti, che si trova in cima a tutte le classifiche. Come se fossimo tutti uguali, come se avessimo non tanto voglia di leggere una storia per noi, ma qualcosa che ci faccia alzare la manina e dire “l’ho letto anch’io” quando siamo in mezzo a un crocchio di persone che “normalmente non hanno tempo di leggere, e quindi”.

Che clamorosa occasione perduta, penso. Perché in realtà una libreria dovrebbe offrire dei percorsi. E un “percorso” naturalmente può essere qualcosa di perfettamente intimo e definito in piena libertà da un lettore con idee più o meno, volontariamente o involontariamente, chiare. Ma può anche un percorso guidato da chi le storie le conosce, come dovrebbero essere i commessi delle librerie. E persino un percorso pubblico, una pubblica strada tra le storie.

Io i commessi delle librerie, quelli col broncio perenne che vanno subito a testa bassa a spulciare nell’intoccabile “terminale”, per vedere se tale libro c’è o non c’è oppure “possiamo ordinarlo”  – e allora tanti saluti, per tutto il resto c’è Amazon – li manderei a un corso di “storie”. Per fare in modo che siano in grado di capire, in poche domande, o da poche domande, di cosa ha bisogno (o cosa vuole, che è un po’ diverso) chi entra in libreria.

Bisogno di farsi una passeggiata al coperto, ma in mezzo a delle suggestioni mentre fuori piove, di sfogliare un Taschen illustrato, di rimorchiare attraverso uno scaffale, magari guardando cosa sta sfogliando quella tipa lentigginosa che gli ricorda la maestra delle medie, di comprare ma anche di regalare a qualcuno al quale siamo legati da “dati” (fatti, luoghi, emozioni, aspettative) che nessun, nessun database di Amazon potrà mai conoscere. Almeno per ora, finché c’è tempo.

E allora mi chiedo: perché non esiste una libreria dove entro e ok, se voglio non succede nulla, mi faccio il solito giro, ho le mie idee, vedremo cosa deciderò. Ma anche: entro, seguo il tappetino rosso, mi siedo in una sala dove un tizio con la maglietta Mondadori, Feltrinelli, quello che è parla dietro un tavolo con accanto uno scrittore. E no, non è la solita presentazione dei libri, è proprio un happening continuo, dove a un certo punto il tizio con la maglietta dice “e veniamo ad Anselmo, che dalla sua app ci ha detto che vorrebbe un romanzo storico, ma ne sa poco e ci ha solo detto che non dovrebbe essere ambientato prima del 1789, ché non si ricorda le vicende precedenti”. E vai con le risate di gioioso imbarazzo del pubblico, che in parte si è seduto lì solo perché è una specie di Apostrophes in diretta, che dura tutto il giorno, e molti saranno venuti solo per sentire, altroché.

con Bernard Pivot (TDF)

“Apostrophes”, di Bernard Pivot (1981)

Inizia un breve dialogo tra “maglietta rossa” con accanto Gianluca Morozzi – ce lo vedo, Morozzi a fare l’happening – e il cliente che per un quarto d’ora diventa “la star” del pomeriggio. E alla fine dico, alla fine di questo momento che già ti ha riempito la giornata, insieme ai quarti d’ora di tutti gli altri, un libro, due libri, non li vorrai comprare?

E non vorrai fare amicizia con le altre persone sedute lì con te, ad aspettare il loro turno? Non vorrai proseguire la conversazione dopo, davanti a un tè, invece di continuare a lanciare occhiate alla tipa lentigginosa oltre lo scaffale, senza alcuna concreta speranza di sentire se parla calabrese o friulano o una lingua sconosciuta?

Editori: svegliatevi. Le vostre librerie, quelle che state chiudendo con un tratto di penna su una stampata di Excel, sono forse il vostro ultimo asset non duplicabile. Sono gli ultimi luoghi in cui “possono succedere delle cose” tra quel pubblico che ancora vi si fila: i curiosi. E allora costruite qualcosa intorno a loro. Altrimenti hai voglia a comprarne, di Anobii. Hai voglia a presentazioni con gli influencer. Tempo dieci anni e avrete fatto la fine della Fnac di Roma: sostituiti da uno store di abbigliamento low cost.

Pensateci, vi prego. Ci mancherete.

[EDIT del 23.4] – Grazie all’incommensurabile Mafe scopro che la libreria in questione esiste, eccome. E’ a Milano e si chiama Open. Non vedo l’ora di visitarla. Ovviamente, la speranza è che cose del genere inizino a succedere anche nel resto d’Italia, e magari anche negli stores che raggiungono il grosso del pubblico. Cose del tipo apro il Vivimilano e trovo “come ogni pomeriggio, alla libreria X è tempo di Happening, stasera con [nome di scrittore a caso] e i consigli di [nome di heavy reader a caso]”. Chissà, magari, un giorno 🙂

Il Web e i sonni tormentati di Michele Serra

amaca2Nella sua “Amaca” di oggi, che mi permetto di pubblicare qui sopra nonostante la minacciosa dicitura “Riproduzione Riservata” (appellandomi l’art. 10 della Convenzione di Berna per i fini di discussione), Michele Serra sostiene che l’aumento degli spettatori al cinema (+6% nel 2013) sarebbe un dato sufficiente per smentire non solo la crisi del cinema in sala, ma anche dei giornali, dei libri, della televisione a vantaggio del presunto “web social-cannibalizzante” che come sappiamo tormenta da qualche tempo i sonni dell’autore.

Ora, premesso che di crisi del consumo di cinema nelle sale non mi pare se ne parli più, o meglio se ne parla – a sproposito – dagli anni ’80 (quando il Web era un giochino per militari e accademici nerd) ci sono alcune sconnessioni logiche nel ragionamento di Serra che mi rendono un po’ perplesso.

Secondo la sua tesi la crescita del pubblico dei film in sala dimostra che evidentemente il web, che impone un consumo “monocratico” e “autistico” (queste le sue eleganti parole) davanti a uno schermo personale, non permetterebbe alla gente di uscire di casa, frustrando la naturale “voglia di condividere lo spettacolo con altre persone” di ognuno di noi. Di qui “l’effetto rinculo” che riporterebbe la gente in massa nelle sale cinematografiche.

Il problema è che Serra estende la portata delle sue conclusioni per dimostrare che l'”intero vecchio mondo mediatico” sarebbe dunque al riparo delle “previsioni funeste” dei “nuovisti”. Ne dedurremmo che, secondo lui, presto la gente leggerebbe sempre fuori di casa, in compagnia, il giornale o un libro di carta, ascolterebbe sempre fuori di casa, ancora in compagnia, la radio a transistor e infine guarderebbe sempre fuori di casa, sempre in compagnia, la televisione catodica e con la valvola termoionica. Nel 2014 quindi funzionerebbe come nel 1961, quando i miei genitori, grazie alla TV catodica che trasmetteva “Lascia o raddoppia?” in un bar di Montecatini, si conobbero “nel mondo reale” permettendo così la mia nascita qualche anno dopo.

Al di là di questo evidente salto logico, che sembra voler ignorare la sacrosanta peculiarità dell’esperienza “in sala” (su cui mi sono già ampiamente speso, come racconta Maria in questo post), colpisce la spregiudicatezza con cui Serra sia del tutto indifferente al fenomeno per cui le persone, proprio grazie al Web e agli schermi portatili:

1) fruiscono contenuti lontano da casa, nei tempi morti, liberando del tempo per la propria vita sociale “fisica” (per esempio guardano un film o leggono un e-book sui mezzi pubblici mentre vanno al lavoro o a trovare gli amici)

2) usano i social network come Facebook, e sempre più le piattaforme di instant messaging non tanto per “surrogare” una qualche vita sociale su uno schermo personale, ma per permetterla lontano dallo schermo: si organizzano, creano eventi, si danno appuntamento nel mondo reale, lontano dalle case in cui erano confinati quando era proprio la televisione a fungere consapevolmente da “surrogato” (con i reality, per fare l’esempio più lampante).

Da un giornalista del calibro di Serra, che si richiama da sempre a un inderogabile illuminismo cartesiano, non mi aspettavo un ragionamento così sgangherato. E non so se augurarmi se si tratti di una piccola perdita di lucidità, o solo dell’ennesimo, maldestro tentativo di tirare l’acqua al mulino del “vecchio medium” di turno.

Un’isola virtuale per il mondo reale

montaggio di salvatore mulliri

Conobbi Salvatore Mulliri, con il nick “Isola Virtuale” circa quattro anni fa, grazie alle sue vignette su Tumblr e Friendfeed. Lo so, parlare di “vignette”, nel suo caso, è limitativo, come del resto lo sarebbe parlare di “montaggi”. Ma non è facile attrezzarsi con le definizioni in un mondo in continua evoluzione come quello della comunicazione digitale.

Salvatore è un “anticipatore” della rivoluzione dei contenuti in rete. Un creativo in grado di cogliere i trend sociali nella loro fase acerba. E’ uno dei primi ad aver capito il valore della conversazione che può essere innescato da uno spunto creativo, fino a farsi MEME, tormentone. Quando pubblica una vignetta  – ok, chiamiamole così per ora –  inizia subito a dialogare in tempo reale con chi la commenta, estendendo a dismisura il potenziale del messaggio e di tutti i meta messaggi associati. Proviamo a immaginarci il Forattini nella sua fase di declino che si azzarda in un esperimento del genere, con la gente che gli chiede “ma che significato hanno quei gabbiani?” e lui che non può esimersi dal rispondere “non so più cosa disegnare”. Immaginiamoci un Bucchi, un Giannelli, che ingaggiano sotto le loro vignette una conversazione su un fatto di attualità, fino a doversi esporre, argomentare, o continuare sul filo dell’ironia.

Ecco, questa è la prima cosa che fa Salvatore. Lui “conversa”, come i pionieri del Cluetrain Manifesto hanno stabilito che si debba fare in rete proprio perché grazie al Web sono tutti sullo stesso piano: artisti e “loggionisti”, creativi e distruttivi, geni e detrattori di geni. Con la certezza che ogni opinione ha un mercato, e quindi c’è gloria per tutti.

Il fatto che tutto questo si svolga principalmente in un social network per “addetti ai livori” (come lo definì sagacemente un blogger del calibro di Enrico Sola, al momento di abbandonarlo) rende il tutto ancora più interessante. FriendFeed è a ragione stato definito “il socialino dell’odio”, proprio per il fatto di essere il dominio quasi incontrastato dei cattivi, dei cinici, dei distruttori. Perché si sa, se per caso hai la sfortuna di nascere senza alcun reale talento creativo, puoi sempre distinguerti parlando male degli altri. In fondo è infinitamente meno faticoso e quasi più redditizio.

Dal mio personalissimo punto di vista di osservatore delle dinamiche andreottiddel Web, lo spettacolo dell’originalità creativa di Salvatore che sovrasta “le guerre dei poveri di talento” con le sue vignette è forse uno degli ultimi motivi che fa sperare in una rete capace di superare le logiche della comunicazione mainstream. Di sconfiggere, in definitiva, una omologazione culturale per anni imposta non solo dai vincoli delle piattaforme tradizionali, ma anche per la sempiterna disponibilità del pubblico passivo a cercare aggregazione nella riconoscimento di schemi e figure, senza correre il rischio di esplorare la diversità di nuovi linguaggi e nuove culture che non fossero quelli introdotti dall’alto.

Se c’è una cosa che internet sta regalando alle nuove generazioni, e lo dico a dispetto dei tanti neoluddisti che vivono oggi la loro effimera età d’oro, è un ecosistema mediatico finalmente aperto a questi nuovi linguaggi e a queste nuove culture. Culture che solo per comodità definiamo “digitali”, ma potremmo semplicemente definire, finalmente, libere dai vincoli funzionali delle catene produttive verticalmente integrate.  Prima ancora di non essere preventivamente censurabile da qualche “padrone in redazione”, Salvatore, anche in un ipotetico mondo di stampa libera e “guardiano della democrazia” avrebbe dovuto comunque concordare tempi di uscita e di stampa. E il suo lavoro sarebbe stato vagliato, se non direttamente dall’editore, dal gradimento degli inserzionisti. E nessun vignettista sano di mente vorrebbe vedere il suo lavoro giudicato dal responsabile marketing della Findus o della S. Pellegrino.

Ma nel comporre e pubblicare i suoi montaggi digitali, Salvatore è libero da un altro mantra che si presumeva eterno: l’individualità dell’atto creativo. Quando lo invitai a parlare alla BlogFest 2012, dal palco di Riva del Garda Salvatore pronunciò parole che lasciarono molti di stucco, e forse fecero anche storcere il naso a qualcuno. “Sono orgoglioso di essere influenzato, nelle mie vignette, dalla folla degli utenti di Internet, e di ispirarla a mia volta per nuovi spunti creativi. La creazione per me non può essere un atto solitario”. Nè, mi verrebbe da aggiungere, può essere la proprietà di un solo autore.

Quando Lawrence Lessig, profeta dei Creative Commons, proclamò  alla Camera dei Deputati nel 2009 che il mondo era entrato  “nell’era della cultura condivisa”, a qualcuno sembrò una di quelle frasi altisonanti buone per ingraziarsi una platea accomodante. Di fatto, nei trend d’uso e di fruizione dei contenuti digitali che mi trovo a studiare per  lavoro, poche profezie hanno avuto un maggior riscontro di quelle parole.

I report degli infoprovider dell’industria dei media concordano su un punto: la principale leva di interazione con un contenuto si sta spostando rapidamente dalla fruizione alla condivisione. Il ruolo principale di un contenuto non è più – dunque – solo quello di informare, intrattenere, acculturare, ma anche di ispirare altre persone a modificarlo, remixarlo o crearne uno integralmente nuovo.

Le vignette di Salvatore-IsolaVirtuale sono spesso dei remix, che a loro volta vengono modificate in MEMI e tormentoni prima dagli utenti più smaliziati, poi via via anche da tutti gli altri. A dare nuovo senso a una vignetta, del resto, può contribuire anche un solo commento, e Internet non pone filtri o setacci. Se in giro c’è un commento geniale, sarà pubblicato, e ne ispirerà altri istantaneamente.

Ma il tema della open culture non riguarda solo la co-creazione delle idee, e si estende agli strumenti che decidiamo di mettere nella “cassetta degli attrezzi”. Nell’elaborazione grafica, per esempio, Salvatore si serve esclusivamente di software Open Source, vale a dire applicativi che migliorano grazie al costante contributo di una comunità di sviluppatori. La sua storia ci insegna che tutto sta cambiando, non solo nell’industria dei media, ma anche nel modo in cui ci rapportiamo a una idea, a un contenuto, a un racconto. Le chiavi di questo passaggio cruciale sono la partecipazione, l’apertura, la condivisione da opporre all’autorialità proprietaria e che si apre al mondo esterno solo attraverso una catena di vendita, protetta da silos impenetrabili.

Non c’è miglior modo per cogliere l’essenza di questa transizione se non attraverso l’opera e le pratiche di chi ha scelto di attraversare un terreno così vergine col suo genio, ma anche con la sua coerenza ed onestà.

Il Web, gli altri e la libertà di costruirsi una prigione dorata

Internet-dissent-ccL’altro giorno, dopo parecchio tempo, ho ripreso a guidare l’automobile. Molte cose mi sono venute automatiche, altre no. E me ne sono accorto quando una signora, dietro di me, ha suonato nervosamente il clacson. Non capivo perché, ma credetti che intendesse avvertirmi di qualcosa, magari un pericolo immediato, come prescrive il codice stradale.

E invece no, non intendeva avvertirmi di nulla. Voleva solo esprimermi il suo fastidio perché mi stavo spostando sulla corsia di destra, con regolare freccia accesa da alcuni secondi, mentre lei voleva sorpassarmi proprio a destra. A confermarlo, la pronta occhiata di riprovazione, mista a un velato disprezzo, che mi ha raggiunto attraverso il retrovisore.

Ora, come ben sappiamo la riprovazione riguarda l’atto, mentre il disprezzo riguarda la persona. Ma il codice di comportamento tra sconosciuti in automobile permette di esprimere bene entrambe le sfumature. Sia su binari paralleli, sia, (se necessario, quando non vogliamo andare troppo per il sottile), anche in un unico minestrone di brutti sentimenti pronti per l’uso.

Fondamentalmente, un comportamento che non condividiamo ci offre l’opportunità non solo di sentirci migliori di qualcun altro, ma persino di cercare conforto, magari con uno sguardo complice o incredulo, in qualche altro automobilista o pedone nei paraggi.

Nel traffico, infatti, non vale lo stesso codice di condotta che normalmente osserviamo verso gli sconosciuti. Dove magari è ammesso un qualche scarno dialogo strettamente legato alla condizione in cui palesemente ci troviamo: le informazioni sui mezzi passati alla fermata del bus, sull’ordine di chiamata nella sala d’attesa del dentista, e così via.

No. in auto la barriera del veicolo – che ci protegge, ma è anche un arma d’offesa – garantisce è una sorta di semi-anonimato dove ogni atto può – anzi, deve – essere debitamente teatralizzato. Uno sguardo, un epiteto, un labiale, un gestaccio attraverso il finestrino assumono spesso una rilevanza semi-pubblica. Compresa l’occhiata con cui squadriamo il volto di chi ha compiuto una manovra particolarmente odiosa, forse per trovare nei suoi lineamenti la conferma lombrosiana del nostro pregiudizio di partenza. Che poi è sempre lo stesso assunto, che suona più o meno così: “il mondo va a rotoli perché noi facciamo parte di una sparuta minoranza di persone civili, che sanno guidare e hanno  rispetto per gli altri; questi parassiti invece, quando tornano a casa, forse picchiano le loro mogli e lasciano i loro cani sul terrazzo tutta l’estate”. Confortati da questa certezza, come premio, quantomeno vorremo guardarli in faccia, per vedere il volto del male, della stupidità, dell’arroganza.

Semi-anonimato, dicevamo. E rilevanza semi-pubblica, abbiamo aggiunto. Ecco, io credo che questi termini – qui sul Web – dovrebbero farci scattare un rumoroso campanello d’allarme. Perché si tratta delle stesse condizioni in cui ci troviamo quando decidiamo di interloquire con uno sconosciuto su Facebook, in un post leggibile da altre persone. Dove puntualmente, anche qui, scatta in noi qualcosa di lombrosiano quando ci imbattiamo “negli altri”, nella “massa informe”. Cioè in tutti quelli che fondamentalmente, riteniamo meno informati, meno consapevoli, meno attrezzati di noi: dal grillino complottista, alla bimbominkia sgrammaticata, al pasionario irragionevole di questa o quella parte politica, allo spammatore di foto di cani scuoiati, all’irriducibile ricondivisore della bufala più evidente, e così via.

Tutta gente che – mannaggia! – può anche lei scrivere ed essere condivisa con successo su facebook, creare pagine con diecimila like per una petizione contro un inesistente sperpero di danaro pubblico, trasformare una battuta volgare e sessista in un tormentone, perché per cento persone mosse dal demone di pubblicare qualcosa di becero ce ne saranno sempre migliaia pronte ad amplificare il messaggio, e tutto per colpa di quel maledetto bottone “share”.

Ora, a ben vedere, il risultato è che con gli sconosciuti, nelle discussioni pubbliche (proprio come accade in auto) siamo motivati a dialogare quasi sempre in un solo caso: quando appunto non siamo d’accordo con loro. Specie quando abbiamo l’opportunità unica di far passare l’eterno messaggio identitario, lo stesso che regna da sempre in mezzo al traffico e cioè quello per cui “io sono migliore di te”.

E a prescindere dal merito e della gratuità di una affermazione del genere, siamo davvero di nuovo di fronte a una grave sconfitta. A sentire Lawrence Lessig il web (a differenza del traffico cittadino) ci permetterebbe di trovare il bello proprio nello sconosciuto e nell’inaspettato, la famosa “serendipity” di cui si favoleggiava nei primi barcamp. Ai tempi, iniziavamo a guardare molti illustri sconosciuti negli occhi, e quegli sconosciuti ci piacevano. Ma proprio ora che siamo riusciti ad aggregare le nostre conoscenze per interessi e passioni comuni, partendo dalla rete ma portando spesso queste affinità nel mondo degli atomi, ecco che ci siamo di nuovo chiusi a riccio e ci apprestiamo a salire sull’Arca, mentre fuori vediamo solo un diluvio universale di ignoranza e stupidità.

Siamo diventati, in sintesi, ciechi – ma per scelta. Appagati dalle continue, pulviscolari gratificazioni della nostra cerchia abbiamo stabilito di non voler guardare oltre ciò che è distante da noi. Con buona pace della social diversity e della shared culture propugnata da Lessig e da altri visionari.

La cosa più triste è che questa cecità sociale diventa ancora più grave di fronte a quello che accade, lontano dalla rete. Come accennai di recente all’Internet Festival di Pisa (e ringrazio Maria per averlo ricordato), se siamo disposti a pagare perché qualcuno ci imprigioni in una sala buia per assistere a qualcosa che potremmo serenamente vedere anche nel salotto di casa (di solito un film, ma più di recente anche eventi live e persino versioni “da big screen” di mostre d’arte), questo indica un mutamento radicale della nostra prospettiva sociale.

Il punto è che con “gli altri” non vogliamo più parlare, al di fuori delle nostre passioni, dei nostri interessi verticali, perché sui problemi reali, sui temi di attualità i media analogici ormai da vent’anni ci hanno insegnato a metterci uno contro l’altro, e i flame su facebook sono solo un ovvio riflesso di questo consolidatissimo andazzo. Guardiamo il vicino di casa o il parente al cenone di Natale non come una persona che ha i nostri stessi problemi, ma come l’idiota che pensa di risolverli votando per uno che dice “vaffanculo” nelle piazze. E dal tizio che stringe “Libero” sotto il braccio  ci aspettiamo uno squallido tentativo di passarci avanti nella fila della posta.

Pretendiamo di avere un raffinatissimo e lombrosianissimo sguardo socio antropologico su tutto e su tutti. E francamente mi chiedo, a volte mi chiedo, che razza di cambiamento potrà mai innescare un Paese prigioniero di una prospettiva del genere.

Google Maps Maker: quando il crowdsourcing è un alibi

Circa un anno fa, prima di abbandonare FriendFeed, segnalai uno strano errore su Google Maps. Una ferrovia fantasma, che secondo le mappe avrebbe dovuto collegare la stazione di Piazza Euclide con la stazione Valle Aurelia.

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Per evidenziarla, accanto al tratto grigio che Google Maps utilizza per le ferrovie, tratteggiai una linea rossa. Con una linea verde, evidenziai il tracciato reale della prosecuzione dei binari verso Piazzale Flaminio, che la mappa aveva invece dimenticato.

Su FriendFeed partì il classico thread in cui tutti avanzarono le varie ipotesi sul perché di un errore così marchiano. Alla fine convenimmo che si trattò non di una svista, ma di una evidente negligenza di chi aveva preparato il file originale con il CAD a due dimensioni. Qualcuno che forse si era trovato in difficoltà nell’elaborare le mappe originali a disposizione, non avendo capito che dopo Piazza Euclide quella linea prosegue in sotterranea fino al Capolinea, e cioè Piazzale Flaminio.

Non solo per scrivere una mappa, ma anche per leggerla correttamente, sono infatti necessarie minime nozioni di cartografia. E non si può certo pretendere che un servizio gratuito come quello offerto da Google lo affidi sempre a persone esperte delle reti di trasporto di ogni città del mondo, o addirittura a una persona del luogo. Si chiama “best effort”, e in molti casi “best effort is good enough”. Magari, però, si può pretendere che queste persone non si inventino, col solo scopo di collegare due linee su una mappa, una ferrovia inesistente dall’oggi al domani, come accadde in quel caso.

A Mountain View si devono essere resi conto che questi errori non sono casi isolati. Infatti, da qualche tempo è disponibile un tool, chiamato “Google Maps Maker” che permette di segnalare tutte le inesattezze, interagendo coi gestori di Google Maps, per ottenere rapidamente delle correzioni. Ciò che mi affrettai a fare, ottenendo una sequenza di correzioni persino più fantasiose dell’errore originario. Guardate, per esempio, questo utilissimo “doppio traforo” della collina di Monte Mario, che naturalmente parte sempre dalla minuscola stazione di Piazza Euclide a cui evidentemente gli incolpevoli ragazzi di Google Maps sono per qualche motivo molto affezionati.

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Oppure, questo fondamentale raccordo di penetrazione ferroviaria attraverso le mura vaticane (ce n’è già uno poco più a sud, in realtà, e mi pare già più che sufficiente).

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La sensazione è che a Google Maps abbiano una qualche idiosincrasia per le stazioni di testa. Eppure, a volte, le ferrovie finiscono, non devono per forza essere collegate con AutoCad. Non ci sarebbe nemmeno troppo da incavolarsi, se certe segnalazioni provenienti da chi – come dire – in quelle città ci abita non venissero respinte con messaggi del genere.

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Ora, il fatto che Google affidi al suo Reviewer “Karuna” una tale autorità sulle ferrovie del quadrante nord ovest di Roma credo la dica lunga sull’equivoco che ancora circonda termini come “crowdsourcing” e “best effort”.

Il fatto di affidare all’intelligenza collettiva l’autocorrezione di un servizio non può essere l’alibi per nascondere altre lacune del servizio, che col crowdsourcing non hanno nulla a che vedere.  Esistono servizi, come Wikipedia, che si fondano sul crowdsourcing e ammettono di non poter andare oltre un “best effort” (per le ovvie differenze rispetto alle enciclopedie professionali), ma offrono un servizio che è ritenuto ragionevolmente sufficiente per milioni di persone. Tra l’altro, su una enciclopedia tradizionale non troverai mai una voce così completa e aggiornata su personaggi che appartengono alla cultura popolare, ma che la Treccani giustamente ignora.

Per la cronaca, alla fine – e dopo immani fatiche di gente che quei treni li prende per davvero – siamo riusciti a convincere Big G a togliere le varie mostruosità che si erano sovrapposte nei mesi ed avere una mappa ragionevolmente esatta. Meno male.

La tecnologia è sopravvalutata

danielProvate ad aprire il menu “impostazioni” di Facebook. Non passa settimana che non venga introdotta una nuova funzionalità per dare all’utente il massimo controllo possibile – da un punto di vista tecnologico – del proprio account. A partire dalle liste, che permettono di scegliere chi può vedere i nostri post, per proseguire con la privacy (chi mi può contattare, chi mi può taggare, chi può vedere quello che gli altri postano nella propria timeline, ecc. ecc.) per finire con le opzioni “block” e “report”, in caso di decisioni più drastiche.

Se proviamo ad approfondire, scopriamo che è un trend generalizzato. I cosiddetti “Over The Top” players (e quindi anche Google, Amazon, EBay, ecc.) pensano così di rispondere alle crescenti – e ingiustificate – accuse di prestarsi agli abusi, quando non al compimento di veri e propri reati.

Si tratta, per carità, di funzionalità utilissime, ma che prestano il fianco a un equivoco: quello che il problema dell’uso dei social media (e quindi anche la soluzione degli abusi) sia un problema tecnologico. Cedere, come fanno gli OTT, a questo equivoco significa legittimare le posizioni di chi – spesso per difendere le proprie piattaforme di comunicazione “a una via” – accusa i social media in quanto tali, cioè “a due vie”. In quanto, per l’appunto, “social”.

In un social media, per quanto ricco di nuove funzionalità e di opzioni di personalizzazione, gli “effetti emotivi” di una azione compiuta nei nostri riguardi ha in realtà a che fare in primissima battuta coi codici (e quindi coi significati) che individualmente attribuiamo a tali azioni.

L’esempio più banale è il famigerato “Poke” di facebook. A seconda del contesto, del vissuto delle due persone che se lo scambiano, del significato individuale che gli attribuiamo se arriva da uno sconosciuto o comune se fa parte di una “storia” o di un linguaggio tra persone in confidenza, potrà voler dire molte cose diverse e determinare effetti emotivi molto diversi. Non a caso, quando fu introdotto,  non avendo alcun codice comune di interpretazione, generò parecchi equivoci.

Ma i problemi principali nascono dalla confusione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Infatti, quando scriviamo qualcosa in pubblico, spesso mandiamo un messaggio speciale a qualcuno in particolare, pensando che lo possa leggere in un certo modo,  presumendo di avere un codice comune di intepretazione di quel messaggio. O magari ci rivolgiamo alla nicchia che condivide il nostro linguaggio pensando che ciò sia sufficiente perchè possa essere decodificato nel modo che desideriamo.

A volte, inconsciamente o meno, gestiamo i nostri messaggi pubblici con le logiche della comunicazione di massa. Se siamo molto noti in un ambito ristretto (se ci leggono spesso – diciamo – un migliaio di persone) ci comportiamo da “microcelebrità” e pensiamo di rivolgerci indistintamente alla nostra “micromassa”, adottando un nostro stile che riteniamo sia “micro-universalmente riconosciuto”. E tutti questi ossimori (microcelebrità, micromassa, microuniversale ecc.) dovrebbero rivelarci quanto mal riposta sia la nostra speranza di aver scritto un codice forte come quelli consolidati in anni da chi (giornali, radio, televisioni) poteva nutrire questa ambizione per il fatto di gestire canali esclusivi e monodirezionali.

Sovente ci comportiamo come quegli adolescenti che avendo una propria grezza idea di come debba svolgersi una relazione sociale rimaniamo delusi (e scornati) quando vediamo che l’interlocutore, banalmente, la vede diversamente.

Pensiamo alla famigerata funzione “visualizzato alle” di Whatsapp. il “Gruppo A”  dà per scontato che l’instant messaging richieda sempre una risposta immediata. Altri, il “Gruppo B”, lo considerano un mezzo del tutto asincrono, proprio come la posta elettronica.  Ebbene, i primi si sentiranno in obbligo di rispondere sempre e subito, magari anche frettolosamente. E per non avvertire la pressione di tale obbligo, troveranno utile disabilitare la funzione “visualizzato alle”. Il Gruppo B, inversamente, ignorerà serenamente quella funzione, mentre magari risulterà infastidito dalla brevità di una risposta, per quanto immediata. Ovviamente nessuno ha scritto una regola valida per tutti, e la possibilità introdotta dalla piattaforma di “non rendere pubblico il momento in cui abbiamo visualizzato un messaggio” non risolve minimamente gli equivoci che ne possono nascere.

Per dissipare, negli anni, questi equivoci, occorrerà capire col tempo a quali esigenze strettamente “sociali” degli utenti vengono incontro queste tecnologie. Dobbiamo imparare la lezione degli anni ’90, quando sviluppavamo una tecnologia pensando di indurre un bisogno (c’è un’intera scuola di marketing che poggia su questo assunto) mentre di fatto stava per accadere l’esatto contrario. E’ in quegli anni che furono fatti ingenti investimenti per permettere la fantascientifica “videotelefonata”, salvo poi scoprire che a nessuno interessava essere disturbati nella propria intimità, e dover gestire l’enorme carico sociale della propria immagine, in un momento deciso non da noi, ma da chi faceva squillare il nostro telefono. Ed è sempre in quegli anni che – senza fare grossi investimenti – fu deciso di sfruttare una caratteristica dello standard GSM per permettere agli utenti di inviare brevi messaggi di testo, gli SMS. Scoprendo così che la vera esigenza a cui non era stata data risposta era appunto quella di una comunicazione asincrona e a basso impatto emotivo. Una lezione che ancora in molti sembrano non aver imparato a sufficienza.

I nuovi narcisi e i danni della broadcastiquette

L’esistenza di un luogo dove tutti possono pubblicare tutto ha tante conseguenze. Uno degli effetti più controversi riguarda il rapporto con la nostra immagine e più in generale la pubblicità della nostra vita personale. La prima domanda che mi viene in mente è: quando pubblichiamo le cose più banali della nostra vita quotidiana, dobbiamo davvero preoccuparci se interessino o meno a qualcuno?

Ci pensavo l’altro giorno guardando questo video, invero molto divertente, che prende in giro il tipico “Instagram Heavy Sharer”: compulsivo fino al narcisismo e forse prigioniero di un proprio showbiz del tutto illusorio, alimentato dalle code di “like” del proprio target di riferimento.  Se il video è così divertente è perché nella sua ratio c’è un fondo di verità: su instagram, come su facebook o su twitter, esiste una quota fisiologica di nascisismo con cui noi per primi, ma anche chi ci segue, deve fare i conti.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Di chi è il vero problema? Nostro, perché siamo narcisi e dovremmo invece rientrare nei ranghi in base a qualche superiore principio di decenza collettiva o di chi non sa selezionare i contenuti di proprio interesse sulla rete, e continua quindi ad imbattersi nella nostra faccia? La domanda è legittima, specie se consideriamo che spesso chi si lamenta degli odiatissimi “autoscatti dei piedi” in realtà va in rete proprio perché troverà “autoscatti dei piedi” di cui poter lamentarsi. Il sospetto è quindi che anche le lamentele di chi fa un autoscatto siano sovente, a loro volta, una specie di autoscatto, che serve appunto a proiettare un altro tipo di “io, io, io”, quello che ripete implicitamente – ma altrettanto ossessivamente – la frase “io sono migliore di voi”.

Del resto, come per molte questioni che riguardano la Rete (gli insulti in Rete, le bufale in Rete, il porno in Rete e si potrebbe andare avanti a lungo), non esiste in realtà nessuna specifica versione “online” del narcisismo, anche se c’è una gran voglia di strumenti specifici per combatterlo. Esiste, come è sempre esistito, il narcisismo tout court, quello per intenderci dello struscio del sabato pomeriggio, così come sono sempre esistite le comari puntualmente alla finestra sullo stesso struscio dello stesso sabato pomeriggio.  Semplicemente, così come nei secoli abbiamo accettato l’idea di destinare una quota della nostra espressività alla comunicazione di noi stessi, oggi questo accade con strumenti più puntuali, che ci permettono di farlo compulsivamente, nei confronti dell’universo-mondo (e così ricorriamo al più molesto degli ego-casting, che infatti si rifà alle sempiterne regole del broadcasting), oppure in modo più mirato e consapevole. Per esempio, con l’idea di trasmettere senso – e quindi una precisa emozione – a degli interlocutori che conosciamo e che ci conoscono per come siamo, senza giudicarci. E fregandocene dolcemente di tutti gli altri – quelli che chi giudicheranno – perché sarà un problema loro, non nostro.

La questione è appena più complessa del pur condivisibile principio del “vivi e lascia vivere”. Intanto perché molto spesso, nel retrocranio di chi flagella la pubblicazione della “banalità del quotidiano”, compresa la banalità della nostra immagine, risiedono gli effetti di 50 anni di società dei media esercitata a titolo esclusivo da pochi per il consumo di tutti gli altri, per di più col vincolo di doverne fare un business.  Ma c’è un altro aspetto da non trascurare: se questi fustigatori avessero ragione, vorrebbe forse significare che dovremmo abbandonare del tutto la pubblicazione di contenuti personali, compresa la nostra immagine?  Magari per non urtare la suscettibilità dei depositari di una nuova “netiquette” che – come appena accennato – altro non è che il riflesso di una antichissima – e di dubbia efficacia sulla moralità pubblica – “broadcastiquette”? E infine: deve davvero passare il principio che pubblicare “cose nostre” abbia come unico scopo quello di attirare attenzione, essere immediatamente gratificati da un like, da una stellina, da un complimento? O qualcuno, magari una crescente minoranza, intende semplicemente esercitare una cosa troppo spesso dimenticata che si chiama “libertà d’espressione”, un diritto che forse riteniamo “tecnologicamente ormai acquisito” grazie al Web, quando in realtà basta una reazione neo-luddista, un riflesso condizionato dal passato, a rimetterlo in discussione?

HTML5 e DRM, tra ideologia e realpolitik

Seguo da qualche giorno, non senza un certa perplessità, i termini della polemica sul “possibile dialogo” tra HTML5 e moduli DRM.  La faccio breve, i tecnici mi scuseranno: si tratta di un progetto del W3C, l’organismo preposto a determinare l’evoluzione dei Web Standards, per permettere ad HTML5 di dialogare con componenti esterne per la gestione dei diritti digitali, in modo da consentire la visualizzazione nel browser di contenuti protetti.

Dato il brodo culturale in cui è nato il progetto HTML5, in opposizione a piattaforme proprietarie come Flash e Silverlight, non era difficile prevedere la levata di scudi di tutto il movimento Open nei confronti del W3C. Esso infatti si oppone per principio  all’idea stessa di condizionare l’accesso a un “subset” dei contenuti disponibili sul web, e quindi – per usare un eufemismo – non vede di buon occhio le tecnologie che rendono possibile questa pratica.

Ancor più prevedibile è che alla testa di questa reazione che – senza alcuna connotazione dispregiativa – potremmo definire “ideologica”, si ritrovi Richard Stallman, a cui l’intero movimento deve molto per la forza della sua voce su fondamentali questioni di principio in momenti ben più critici di questo.

All’attuale grado di evoluzione del dibattito mi sembra però di poter dire che questi timori siano più che altro legati all’idea che si verifichi una certa previsione “balistica”, quella secondo cui questa scelta costituirebbe solo il primo passo verso l’integrazione forzata del DRM all’interno dei sistemi operativi. Un vero e proprio “turning point” dunque, che facendo breccia nella “città proibita” della Open Internet (il browser, e non le applicazioni per intenderci) finirebbe per inquinare l’intero ecosistema Open.

La mia impressione è diversa. Intanto, mi pare un po’ strano che un movimento che si professa “Open” fondi una sua presunta strategia difensiva sulla necessità di non dialogare con dei “pezzi di codice”, anche se questi servono a una certa industria per rendere economicamente sostenibile la distribuzione di alcuni contenuti.

E poi, mi verrebbe da pensare, quale sarebbe l’alternativa? Secondo Peter Bright se le major e i broadcasters fossero tenuti fuori da uno standard codificato ne creerebbero uno “de facto”, come sempre accaduto in passato. E il browser perderebbe proprio quel crescente ruolo di protagonismo agnostico e trasparente su tutti i  “connected screens” che rende straordinariamente potente l’intero progetto HTML5. Chrome e Firefox, per fare un esempio, perderebbero la capacità di fare concorrenza su tutti i connected devices agli App Stores, cioè quegli ambienti protetti dove gli utenti hanno già dimostrato una notevolissima disponibilità a pagare contenuti, non percependo il valore di una alternativa a quel tipo di ecosistema.

In definitiva, decidere di non dialogare con chi, nel proprio (morente) modello di business, vede il DRM come l’unica soluzione, al di là della rivendicazione identitaria e della scelta ideologica, non porterebbe alcun vantaggio, ma solo l’enorme svantaggio di rendere ancora più complessa la già non semplice operazione di “popolarizzare” il movimento Open. Che non riguarda solo il codice, ma anche i dati, i contenuti, la shared culture e tante altre cose interessanti di cui parleremo il 5 giugno all’Open Camp a un pubblico il meno autoreferenziale possibile.

Tra l’altro, per chiudere il cerchio, anche il questo caso i grandi brand che sponsorizzano il progetto del W3C, e in particolare Google, Netflix e Microsoft, stanno palesemente usando ancora una volta la bandiera del DRM per tranquillizzare le major, proprio come fece a suo tempo Apple con iTunes. Ma non possono essere così sprovveduti da non sapere (come ben racconta ManuSporny – e grazie ad Alessio Biancalana per la segnalazione) che per chi vorrà pervicacemente craccare questi moduli l’operazione non porrà particolari difficoltà tecniche. Sulla scorta della mia memoria storica, potrei aggiungere che ancora una volta il DRM viene ipocritamente utilizzato come foglia di fico per vendere internamente alla vecchia industria l’evoluzione verso una nuova forma di distribuzione dei loro contenuti, e con essa una minima prospettiva di sostenibilità economica.

Ma il terreno dello scontro tra nuovo e vecchio ecosistema non potrà certo essere quello dell’incomunicabilità forzata dei protocolli e dei linguaggi. Piuttosto, occorrerà far fare al tempo il suo mestiere di galantuomo. Grazie al browser (ma anche grazie alle Desktop Apps in HTML5) e più in generale grazie alle piattaforme di distribuzione aperte, le nuove generazioni avranno comunque un crescente accesso a un ecosistema di contenuti indipendenti. Questi ultimi, come ebbi modo di dire nel corso di un panel sui trend emergenti in occasione dell’ultima Social Media Week, potranno quindi trovare autonomamente i loro modelli di sostenibilità liberandosi di tutti gli elementi che trattengono il valore, remunerando sempre più la creatività (del contenuto ma anche del modello) e sempre meno chi si mette in mezzo a far pagare qualche inutile pedaggio.

Questa, secondo me, è la strada. Il resto sono solo battaglie identitarie che anche troppi danni hanno già arrecato in passato.