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Un’isola virtuale per il mondo reale

montaggio di salvatore mulliri

Conobbi Salvatore Mulliri, con il nick “Isola Virtuale” circa quattro anni fa, grazie alle sue vignette su Tumblr e Friendfeed. Lo so, parlare di “vignette”, nel suo caso, è limitativo, come del resto lo sarebbe parlare di “montaggi”. Ma non è facile attrezzarsi con le definizioni in un mondo in continua evoluzione come quello della comunicazione digitale.

Salvatore è un “anticipatore” della rivoluzione dei contenuti in rete. Un creativo in grado di cogliere i trend sociali nella loro fase acerba. E’ uno dei primi ad aver capito il valore della conversazione che può essere innescato da uno spunto creativo, fino a farsi MEME, tormentone. Quando pubblica una vignetta  – ok, chiamiamole così per ora –  inizia subito a dialogare in tempo reale con chi la commenta, estendendo a dismisura il potenziale del messaggio e di tutti i meta messaggi associati. Proviamo a immaginarci il Forattini nella sua fase di declino che si azzarda in un esperimento del genere, con la gente che gli chiede “ma che significato hanno quei gabbiani?” e lui che non può esimersi dal rispondere “non so più cosa disegnare”. Immaginiamoci un Bucchi, un Giannelli, che ingaggiano sotto le loro vignette una conversazione su un fatto di attualità, fino a doversi esporre, argomentare, o continuare sul filo dell’ironia.

Ecco, questa è la prima cosa che fa Salvatore. Lui “conversa”, come i pionieri del Cluetrain Manifesto hanno stabilito che si debba fare in rete proprio perché grazie al Web sono tutti sullo stesso piano: artisti e “loggionisti”, creativi e distruttivi, geni e detrattori di geni. Con la certezza che ogni opinione ha un mercato, e quindi c’è gloria per tutti.

Il fatto che tutto questo si svolga principalmente in un social network per “addetti ai livori” (come lo definì sagacemente un blogger del calibro di Enrico Sola, al momento di abbandonarlo) rende il tutto ancora più interessante. FriendFeed è a ragione stato definito “il socialino dell’odio”, proprio per il fatto di essere il dominio quasi incontrastato dei cattivi, dei cinici, dei distruttori. Perché si sa, se per caso hai la sfortuna di nascere senza alcun reale talento creativo, puoi sempre distinguerti parlando male degli altri. In fondo è infinitamente meno faticoso e quasi più redditizio.

Dal mio personalissimo punto di vista di osservatore delle dinamiche andreottiddel Web, lo spettacolo dell’originalità creativa di Salvatore che sovrasta “le guerre dei poveri di talento” con le sue vignette è forse uno degli ultimi motivi che fa sperare in una rete capace di superare le logiche della comunicazione mainstream. Di sconfiggere, in definitiva, una omologazione culturale per anni imposta non solo dai vincoli delle piattaforme tradizionali, ma anche per la sempiterna disponibilità del pubblico passivo a cercare aggregazione nella riconoscimento di schemi e figure, senza correre il rischio di esplorare la diversità di nuovi linguaggi e nuove culture che non fossero quelli introdotti dall’alto.

Se c’è una cosa che internet sta regalando alle nuove generazioni, e lo dico a dispetto dei tanti neoluddisti che vivono oggi la loro effimera età d’oro, è un ecosistema mediatico finalmente aperto a questi nuovi linguaggi e a queste nuove culture. Culture che solo per comodità definiamo “digitali”, ma potremmo semplicemente definire, finalmente, libere dai vincoli funzionali delle catene produttive verticalmente integrate.  Prima ancora di non essere preventivamente censurabile da qualche “padrone in redazione”, Salvatore, anche in un ipotetico mondo di stampa libera e “guardiano della democrazia” avrebbe dovuto comunque concordare tempi di uscita e di stampa. E il suo lavoro sarebbe stato vagliato, se non direttamente dall’editore, dal gradimento degli inserzionisti. E nessun vignettista sano di mente vorrebbe vedere il suo lavoro giudicato dal responsabile marketing della Findus o della S. Pellegrino.

Ma nel comporre e pubblicare i suoi montaggi digitali, Salvatore è libero da un altro mantra che si presumeva eterno: l’individualità dell’atto creativo. Quando lo invitai a parlare alla BlogFest 2012, dal palco di Riva del Garda Salvatore pronunciò parole che lasciarono molti di stucco, e forse fecero anche storcere il naso a qualcuno. “Sono orgoglioso di essere influenzato, nelle mie vignette, dalla folla degli utenti di Internet, e di ispirarla a mia volta per nuovi spunti creativi. La creazione per me non può essere un atto solitario”. Nè, mi verrebbe da aggiungere, può essere la proprietà di un solo autore.

Quando Lawrence Lessig, profeta dei Creative Commons, proclamò  alla Camera dei Deputati nel 2009 che il mondo era entrato  “nell’era della cultura condivisa”, a qualcuno sembrò una di quelle frasi altisonanti buone per ingraziarsi una platea accomodante. Di fatto, nei trend d’uso e di fruizione dei contenuti digitali che mi trovo a studiare per  lavoro, poche profezie hanno avuto un maggior riscontro di quelle parole.

I report degli infoprovider dell’industria dei media concordano su un punto: la principale leva di interazione con un contenuto si sta spostando rapidamente dalla fruizione alla condivisione. Il ruolo principale di un contenuto non è più – dunque – solo quello di informare, intrattenere, acculturare, ma anche di ispirare altre persone a modificarlo, remixarlo o crearne uno integralmente nuovo.

Le vignette di Salvatore-IsolaVirtuale sono spesso dei remix, che a loro volta vengono modificate in MEMI e tormentoni prima dagli utenti più smaliziati, poi via via anche da tutti gli altri. A dare nuovo senso a una vignetta, del resto, può contribuire anche un solo commento, e Internet non pone filtri o setacci. Se in giro c’è un commento geniale, sarà pubblicato, e ne ispirerà altri istantaneamente.

Ma il tema della open culture non riguarda solo la co-creazione delle idee, e si estende agli strumenti che decidiamo di mettere nella “cassetta degli attrezzi”. Nell’elaborazione grafica, per esempio, Salvatore si serve esclusivamente di software Open Source, vale a dire applicativi che migliorano grazie al costante contributo di una comunità di sviluppatori. La sua storia ci insegna che tutto sta cambiando, non solo nell’industria dei media, ma anche nel modo in cui ci rapportiamo a una idea, a un contenuto, a un racconto. Le chiavi di questo passaggio cruciale sono la partecipazione, l’apertura, la condivisione da opporre all’autorialità proprietaria e che si apre al mondo esterno solo attraverso una catena di vendita, protetta da silos impenetrabili.

Non c’è miglior modo per cogliere l’essenza di questa transizione se non attraverso l’opera e le pratiche di chi ha scelto di attraversare un terreno così vergine col suo genio, ma anche con la sua coerenza ed onestà.

Rimini, la transizione al rallenty

Questa è la volta che capirò se scrivere un post sul divano a piedi scalzi, con un bassotto che te li lecca tutto il tempo, può essere fonte d’ispirazione.

Vorrei scrivere il classico sbrodolone a consuntivo della Blogfest, nessuno mi ha obbligato, ma il punto è che i molti confronti “live” con le persone incontrate sul posto mi hanno schiarito le idee su alcune cose che ho sempre pensato e che finora avevo elaborato solo in parte.

Gianluca sa cosa penso della sua creatura, dai tempi delle prime edizioni. Ne abbiamo parlato più volte francamente, senza ipocrisie. Per me è troppo allineata agli stili della comunicazione televisiva per poter essere una vera festa della Rete. Lui ribatte che in Italia c’è ancora troppo strada da fare per gettare il cuore oltre l’ostacolo e rinnegare i linguaggi, i tormentoni, i riflessi condizionati della TV. Alla fine ciascuno rimane della sua opinione, ma siccome siamo nella stessa barca  (nei rispettivi ruoli) alla fine bisogna stare tutti e due a testa bassa, e pedalare. OK, facciamo che la barca è un pedalò – ma ci siamo capiti.

Certo, dispiace confrontare la realtà italiana con gli USA, dove il festival SXSW (nato come un raduno di sviluppatori) è diventato negli anni una straordinaria kermesse di tutta la cultura indipendente, dal cinema alla musica, alla letteratura, al giornalismo, ecc. Mentre laggiù internet è considerato un volano di tutti questi movimenti, che entrano progressivamente in concorrenza coi fenomeni di massa costruiti da major e broadcaster, qui da noi è l’esatto contrario: l’evento più “vissuto” dalla socialsfera ha senso nella misura in cui “risuona” negli strapuntini concessi ai protagonisti su giornali, radio e TG (la famigerata “rassegna stampa”).

Questo – si badi bene – è un mio punto di vista personale, ma non riesco a passarci sopra. In fondo a me non interessa troppo “la purezza di “Internet”, “la net neutrality contro i walled garden” o “HTML5 contro gli App Store”. A me interessa tutto ciò che può far crescere musica, cinema, spettacolo, cultura, informazione indipendente. Se poi volete chiamarla “cultura digitale”, fate pure: io me la cavavo benissimo anche captando le community radio in onde medie o facendomi spedire i vinili dall’estero.

Ora, semplicemente, sarebbe più facile. Peccato che i tesori della cultura digitale, ovviamente, sono tutti molto lontani da casa. Si scovano nei podcast di oscure radio universitarie canadesi, nei canali youtube dei “nuovi miagolatori” di BaebleMusic, nella splendida serie House of Cards (un prodotto televisivo del tutto ortodosso, ma prodotto autonomamente da Netflix, senza interferenze), nel formidabile video magazine di Gestalten.tv, solo per citare qualche caso particolarmente eclatante.

Il punto è che non è facile convincere gli sponsor di un evento come la Blogfest senza usare i loro parametri, le loro misurazioni. Nel mio piccolo, insieme ad altri colleghi molto motivati sto provando a far passare in azienda altri elementi di valutazione che non siano sempre e solo quelli della pubblicità tabellare, ma non è facile. E allora, come ben sanno gli amici di Macchianera, occorre arrivarci per gradi, correggere il tiro, battere altre strade.

La cosa migliore dell’edizione di quest’anno è stata, guarda caso, il respiro più ampio. Il WriteCamp (a mio avviso la sezione più pregiata del pur ricchissimo programma) ha avuto uno spazio adeguato, con la domenica non più relegata a “giornata povera” della manifestazione. Ci sono stati dibattiti di alto livello (formidabile quello con Calabresi e Gramellini, due modi molto diversi di strappare applausi – direi), c’è stato l’enorme filone del food, c’è stata soprattutto una gigantesca carrambata collettiva. Eh sì, perché se Riva del Garda è sempre stato un “ri-trovo” dei blogger della prima ora, Rimini è stata la fiera del “trovo e finalmente ti conosco”. Si è registrata una netta maggioranza, per capirsi, di “quelli che io alla Blogfest non c’ero mai venuto e mi sembra stupenda”, quasi stupiti dell’eco di tutte le polemiche e i veleni pregressi maturati in troppi anni di autoreferenzialità e di chiusure a riccio. Da solo, questo risvolto giustifica il trasferimento nella più raggiungibile ed accogliente riviera romagnola.

Poi vabbè, il rischio del millesimo panel schiacciato tra neo-luddisti e tecnofatalisti è sempre dietro l’angolo. Però la sensazione è sempre quella: mondi, ambiti, contesti (sto provando a non scrivere “caste”) che sentono la loro professionalità minacciata dai nuovi modi di fare le cose con la rete. Gente che piuttosto di ammettere di doversi spostare di un millimetro (dalla propria Olivetti Lettera 22, dal borderò, dal centro media, dal comunicato stampa, dall’inviato barricato nella suite dell’Hilton di Nairobi col giubbotto Wrangler comprato a Piazza Vescovio) preferisce stare a guardare il meteorite dello Yucatan che diventa sempre più grande sulla propria testa.

Proprio ieri leggevo un libro sulla storia dei trasporti pubblici a Roma. Pare che quando furono introdotti i tram elettrici (mentre i primi tram erano trainati sulle rotaie da cavalli) i conducenti delle vecchie vetture, pur essendo i naturali candidati a guidare quelle nuove, si rifiutavano di sottoporsi a quel minimo di riconversione professionale necessaria per affrontare la transizione. Secondo loro, gli utenti del servizio avrebbero dovuto continuare ad apprezzare la loro competenza nella gestione delle stalle e dei depositi per le vettovaglie degli animali da traino. Gli utenti avevano in realtà solo bisogno di un trasporto pubblico più efficiente, di vetture più veloci, di strade più pulite. Così le compagnie di tram non ci misero più di tanto ad assumere conducenti nuovi.

Ecco, a me i vari Gramellini e Merlo, quando si scagliano contro twitter, fanno lo stesso effetto dei conducenti-stallieri. Sono degli straordinari, impareggiabili conducenti, ma si rifiutano di abbandonare i cavalli e la biada.

Chissà per quanto, alla blogfest o eventi simili, continueremo ad assistere a discussioni su transizioni che non vanno più nemmeno raccontate, perché sono sotto gli occhi di tutti. A meno che non ci si esalti nell’osservare un declino ripreso in super-slow motion. Dove la scena al rallentatore, col meteorite che si avvicina e alla fine si schianta al suolo, avviando un inverno lungo mille anni, la manda in onda la sapiente regia del festival. Proprio perché il pubblico – in fondo – non aspetta altro.

A’ la Blogfest comme à la Blogfest

BlogFest2013miniForse sarà una nuova Blogfest, e non lo dico solo per il fatto che si svolga a Rimini, per quanto ciò possa facilitare la logistica ed ampliare notevolmente la platea.

Il punto è che quest’anno la kermesse organizzata da Macchianera offre un programma molto più ricco. Oltre al consueto e irrinunciabile contesto ludico notturno (le feste, i DJ Set, la premiazione degli Awards), durante il giorno sono infatti in programma decine e decine di dibattiti, organizzati in 5 filoni contemporanei: economy, community, food, education e media.

Non è più, insomma, un “raduno di blogger”, ma qualcosa di più simile ai molti festival che affollano sempre più il calendario nazionale, sintomo di una crescente voglia di esperti e non esperti di confrontarsi nel mondo reale sui temi che escono dai giornali (La Repubblica delle Idee) dai libri (I festival della Letteratura, della Mente, della Filosofia), e dalla Rete (Internet Festival, le Social Media Week come quella di Milano e appunto – adesso – anche la Blogfest in questa versione arricchita e corretta).

Ascolteremo le voci di personaggi vecchi e nuovi, di tecnottimisti e di neo-luddisti, di startupper e artigiani del cibo, insomma ce ne sarà per tutti i gusti. E ci sarà anche  “il Capo del Capo del mio Capo“, intervistato da Daria Bignardi su tutto ciò che può essere rappresentato in uni e zeri, e non solo le tlc.

Per quanto mi riguarda, sarò coinvolto in due panel: il primo (sabato 21 alle 10) – al quale parteciperò a titolo personale, come co-autore di questo libro – sul futuro della “connected television”, in compagnia di pionieri della net-tv come Tommaso Tessarolo, venerati broadcast-bloggers come Matteo Bordone e con l’inafferrabile Filippo Pretolani nel ruolo di moderatore-guastatore d’altissimo lignaggio.

Il secondo – domenica 22 alle 12, stavolta col badge rosso in tasca e magari con una cravatta decente intorno al collo – nel quale Marco Massarotto presenterà un adorabile e misteriosissimo accrocco fotografico, che propone di raccontare la vita di una persona nel modo più autentico, cioè bypassando il “filtro autoriale” di chi lo indossa. Il digitale che prova a risorpassare la Lomo, insomma:  ne parleremo con virtuosi dell’analisi tecnoantropologica del calibro di Paolo Mulè, Luca Alagna, Davide Bennato.

Per il resto, se il lavoro me lo consentirà, sarà l’occasione di incontrare tante belissime persone che proprio grazie alla Rete sono diventate amicizie in carne ed ossa. E magari ascoltare insieme il crescente e sempre più popolare lamento di chi la Rete sa solo attaccarla.

Lo faremo con vigile rispetto per ogni opinione, ma con l’avvertenza che non accetteremo critiche:

  • per la spazzatura che si trova su You Tube da chi ha inondato la TV di spazzatura, senza offrire per decenni alcuna alternativa
  •  alla qualità della scrittura sui blog da chi ha prosperato per anni vendendo i libri di Rosa Giannetta Alberoni  (per fare solo un esempio)
  • per le bufale dell’informazione in Rete da chi titolò a nove colonne che i Raeliani avevano clonato l’uomo, dopo una regolare ed analogicissima conferenza stampa (e anche questo è solo un esempio)
  • al linguaggio di Facebook “che istiga alla violenza” da chi ha mandato in onda Borghezio con la maglietta anti-Maometto (altro esempio tutt’altro che isolato)
  • alla superficiale brevità di Twitter da chi ha ridotto la politica ad una lista di slogan precotti, da distribuire in speciali “kit per il candidato”
  • (aggiungere altri allegri riflessi condizionati a piacere)

Insomma, ci sarà da divertirsi, credo.