Archivi del mese: agosto 2013

La tecnologia è sopravvalutata

danielProvate ad aprire il menu “impostazioni” di Facebook. Non passa settimana che non venga introdotta una nuova funzionalità per dare all’utente il massimo controllo possibile – da un punto di vista tecnologico – del proprio account. A partire dalle liste, che permettono di scegliere chi può vedere i nostri post, per proseguire con la privacy (chi mi può contattare, chi mi può taggare, chi può vedere quello che gli altri postano nella propria timeline, ecc. ecc.) per finire con le opzioni “block” e “report”, in caso di decisioni più drastiche.

Se proviamo ad approfondire, scopriamo che è un trend generalizzato. I cosiddetti “Over The Top” players (e quindi anche Google, Amazon, EBay, ecc.) pensano così di rispondere alle crescenti – e ingiustificate – accuse di prestarsi agli abusi, quando non al compimento di veri e propri reati.

Si tratta, per carità, di funzionalità utilissime, ma che prestano il fianco a un equivoco: quello che il problema dell’uso dei social media (e quindi anche la soluzione degli abusi) sia un problema tecnologico. Cedere, come fanno gli OTT, a questo equivoco significa legittimare le posizioni di chi – spesso per difendere le proprie piattaforme di comunicazione “a una via” – accusa i social media in quanto tali, cioè “a due vie”. In quanto, per l’appunto, “social”.

In un social media, per quanto ricco di nuove funzionalità e di opzioni di personalizzazione, gli “effetti emotivi” di una azione compiuta nei nostri riguardi ha in realtà a che fare in primissima battuta coi codici (e quindi coi significati) che individualmente attribuiamo a tali azioni.

L’esempio più banale è il famigerato “Poke” di facebook. A seconda del contesto, del vissuto delle due persone che se lo scambiano, del significato individuale che gli attribuiamo se arriva da uno sconosciuto o comune se fa parte di una “storia” o di un linguaggio tra persone in confidenza, potrà voler dire molte cose diverse e determinare effetti emotivi molto diversi. Non a caso, quando fu introdotto,  non avendo alcun codice comune di interpretazione, generò parecchi equivoci.

Ma i problemi principali nascono dalla confusione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Infatti, quando scriviamo qualcosa in pubblico, spesso mandiamo un messaggio speciale a qualcuno in particolare, pensando che lo possa leggere in un certo modo,  presumendo di avere un codice comune di intepretazione di quel messaggio. O magari ci rivolgiamo alla nicchia che condivide il nostro linguaggio pensando che ciò sia sufficiente perchè possa essere decodificato nel modo che desideriamo.

A volte, inconsciamente o meno, gestiamo i nostri messaggi pubblici con le logiche della comunicazione di massa. Se siamo molto noti in un ambito ristretto (se ci leggono spesso – diciamo – un migliaio di persone) ci comportiamo da “microcelebrità” e pensiamo di rivolgerci indistintamente alla nostra “micromassa”, adottando un nostro stile che riteniamo sia “micro-universalmente riconosciuto”. E tutti questi ossimori (microcelebrità, micromassa, microuniversale ecc.) dovrebbero rivelarci quanto mal riposta sia la nostra speranza di aver scritto un codice forte come quelli consolidati in anni da chi (giornali, radio, televisioni) poteva nutrire questa ambizione per il fatto di gestire canali esclusivi e monodirezionali.

Sovente ci comportiamo come quegli adolescenti che avendo una propria grezza idea di come debba svolgersi una relazione sociale rimaniamo delusi (e scornati) quando vediamo che l’interlocutore, banalmente, la vede diversamente.

Pensiamo alla famigerata funzione “visualizzato alle” di Whatsapp. il “Gruppo A”  dà per scontato che l’instant messaging richieda sempre una risposta immediata. Altri, il “Gruppo B”, lo considerano un mezzo del tutto asincrono, proprio come la posta elettronica.  Ebbene, i primi si sentiranno in obbligo di rispondere sempre e subito, magari anche frettolosamente. E per non avvertire la pressione di tale obbligo, troveranno utile disabilitare la funzione “visualizzato alle”. Il Gruppo B, inversamente, ignorerà serenamente quella funzione, mentre magari risulterà infastidito dalla brevità di una risposta, per quanto immediata. Ovviamente nessuno ha scritto una regola valida per tutti, e la possibilità introdotta dalla piattaforma di “non rendere pubblico il momento in cui abbiamo visualizzato un messaggio” non risolve minimamente gli equivoci che ne possono nascere.

Per dissipare, negli anni, questi equivoci, occorrerà capire col tempo a quali esigenze strettamente “sociali” degli utenti vengono incontro queste tecnologie. Dobbiamo imparare la lezione degli anni ’90, quando sviluppavamo una tecnologia pensando di indurre un bisogno (c’è un’intera scuola di marketing che poggia su questo assunto) mentre di fatto stava per accadere l’esatto contrario. E’ in quegli anni che furono fatti ingenti investimenti per permettere la fantascientifica “videotelefonata”, salvo poi scoprire che a nessuno interessava essere disturbati nella propria intimità, e dover gestire l’enorme carico sociale della propria immagine, in un momento deciso non da noi, ma da chi faceva squillare il nostro telefono. Ed è sempre in quegli anni che – senza fare grossi investimenti – fu deciso di sfruttare una caratteristica dello standard GSM per permettere agli utenti di inviare brevi messaggi di testo, gli SMS. Scoprendo così che la vera esigenza a cui non era stata data risposta era appunto quella di una comunicazione asincrona e a basso impatto emotivo. Una lezione che ancora in molti sembrano non aver imparato a sufficienza.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.

Ecco cosa vorrei che facessero i Google Glass

Si, lo so che molto presto arriveranno le applicazioni più svariate per i fantasmagorici occhialini di Mountain View. Ma per ora, a parte il “video in cui si vede che con i Google Glass si fanno i video” e qualche recensione ricolma di quell’entusiasmo d’ufficio tipico di chiunque riesca a mettere le mani sull’ultimo gadget sfornato in Silicon Valley, non mi pare che si sia visto granché, in termini di funzionalità rivoluzionarie.

E allora, visto che l’hardware lascia intatte potenzialità notevoli, e visto che devo difendere la mia avventata previsione secondo cui l’accrocco in questione sarebbe stato uno dei 5 trend del 2013, provo a scrivere qui quello che IO vorrei che si potesse fare coi Google Glass. Sviluppatori di tutto il mondo, prendete nota.

Mi piacerebbe se i Google Glass…

  1. Mi facessero vedere (ok, attivando un apposito layer, ma questo non lo diciamo più) tutti i percorsi enogastronomici dei dintorni a portata di colpo d’occhio. Per intenderci, se mi volto verso una collina, devo poter vedere “la riga arancione” della strada dei vini, dei salumi e dei formaggi del posto. Coi POI associati (la cantina, l’azienda agricola, ecc.). E la funzione “ci vado dopo” che mi manda un reminder tutte le volte che ripasso di lì, e magari ho più tempo da dedicare alla cosa –  che è un modo gentile per dire “meglio ‘mbriacarsi quando non c’è mio suocero”.
  2. Mi evidenziassero, a 360 gradi, tutti i rischi di allergie colorando opportunamente i campi e i terreni nei paraggi. Graminacee? Attento a quei platani, sono blu. Una roba del genere.
  3. (questa è facile) Vorrei che mi mostrassero tutte le piste ciclabili, le vie del trekking, le antiche vie con rilevanza archeologica (la francigena, per esempio), e tutti gli altri luoghi di tortura dove si danno appuntamento gli esseri che si sono evoluti oltre il stato larvale in cui mi trovo. Facendomi adeguatamente apprezzare la mia condizione di ozio perenne, sapendo che ci sono loro lì intorno a sudare come muli.
  4. Non sarebbe male un “layer” per gli incendi boschivi. Ora mi direte: gli incendi si vedono anche senza occhiali. OK, ma lo sviluppo di un incendio si può modellizzare calcolando una serie di dati attuali e previsti (la direzione del vento, l’umidità, la temperatura) che fanno diventare “rosse” anche le zone che per ora sono verdi. No?
  5. Va bene, Latitude è stato appena mandato in pensione, ma un bel giorno potrebbe affermarsi un sistema universale in cui tutti stabiliscono cosa della propria esistenza (a cominciare dalla posizione nello spazio) può essere nota, in un dato momento, in rete. Così, una volta arrivati in spiaggia, invece di esclamare “che carnaio, non troveremo mai Sara e Matteo”, metteremo gli occhialetti e diremo “Ecco Sara. Hey, ma quello non è Matteo!” (ecc. ecc.)
  6. Forse il più urgente. Un bell’accordo tra Google e le principali concessionarie di pubblicità outdoor, le tanto odiate “affissioni”, sulla base del principio: “se abbattete i vostri cartellacci sulle consolari di Roma, obblighiamo tutti gli acquirenti dei Glass a vedere i vostri enormi 3 x 2 virtuali, quando usano qualche applicazione di realtà aumentata nella zona di Roma. E se vogliono farli sparire, no problem: pagano l’app (normalmente gratuita) e danno una revenue share a Google, una allo sviluppatore e uno alla concessionaria.” Tutti felici e contenti, specie quelli che abitano sulle consolari. Fiquo.
  7. Allo specchio, vorrei provare un accessorio di Etsy. Ma non l’ho ancora comprato. Oppure “chissà quanto starebbe bene quella gonna provenzale che ho visto su Etsy l’altro giorno addosso alla mia amica che compie gli anni dopodomani.”. Inforchiamo gli occhiali e…vabbè, avete capito.
  8. Sono appena arrivato a Parigi, sono le nove e non ho ancora prenotato l’Hotel. E’ sabato e non mi va di parlare con dieci reception per sapere se c’è posto. Ma ho i Google Glass in tasca, quindi nessun problema. Ovviamente vale anche per i ristoranti a trastevere. Mentre mi avvicino a quello libero, mi leggo le recensioni di TripAdvisor, magari faccio dietrofront prima di entrare.
  9. Car sharing, Bike Sharing, Segway Sharing (pare che esista), insomma quelle cose lì. No, non avvicinarti a quella stazione di scambio, hanno già preso tutte le bici. Se segui la freccia rossa ti faccio vedere io dove ne è rimasta qualcuna. Visto? Ne è rimasta una. Oops, ora ho capito perché è rimasta solo quella.
  10. “Non è il caso che tu le proponga di andare a vedere Godzilla al cinema. E’ viola, non vedi? Ha il ciclo. Per stasera è sushi. Lo dice anche Glamoo con l’offerta in alto a destra”.
  11. Il tizio che stai incrociando è verde: ha visto su SkyGo la partita che stai registrando su MySky. Sì, vorrà dirti il risultato. Schivalo.
  12. Nel raggio di 300 metri ci sono 24 persone coi Glass. Magari a qualcuno va di ballare “Get Lucky”. Esclama “Dance GetLucky” e guarda in quanti raggiungono la pista virtuale e inforcano l’auricolare. Si, lo so, sono i più sfigati, ma negli anni ’90 lo dicevamo anche dei tipi alla Zuckerberg. Ci vuole pazienza.
  13. “Fabio, sono in campo da dieci minuti e non ti sei ancora presentato. Mi sto spazientendo”. “Ma non era ieri?” “Era oggi, cretino. Avevo pure comprato le palle nuove. Vabbè, metti gli occhiali, prendi la Google Racket e sgombra il salotto”.

Lo so, la Google Racket non esiste, ma mi sono fatto prendere la mano.