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Il Web e i sonni tormentati di Michele Serra

amaca2Nella sua “Amaca” di oggi, che mi permetto di pubblicare qui sopra nonostante la minacciosa dicitura “Riproduzione Riservata” (appellandomi l’art. 10 della Convenzione di Berna per i fini di discussione), Michele Serra sostiene che l’aumento degli spettatori al cinema (+6% nel 2013) sarebbe un dato sufficiente per smentire non solo la crisi del cinema in sala, ma anche dei giornali, dei libri, della televisione a vantaggio del presunto “web social-cannibalizzante” che come sappiamo tormenta da qualche tempo i sonni dell’autore.

Ora, premesso che di crisi del consumo di cinema nelle sale non mi pare se ne parli più, o meglio se ne parla – a sproposito – dagli anni ’80 (quando il Web era un giochino per militari e accademici nerd) ci sono alcune sconnessioni logiche nel ragionamento di Serra che mi rendono un po’ perplesso.

Secondo la sua tesi la crescita del pubblico dei film in sala dimostra che evidentemente il web, che impone un consumo “monocratico” e “autistico” (queste le sue eleganti parole) davanti a uno schermo personale, non permetterebbe alla gente di uscire di casa, frustrando la naturale “voglia di condividere lo spettacolo con altre persone” di ognuno di noi. Di qui “l’effetto rinculo” che riporterebbe la gente in massa nelle sale cinematografiche.

Il problema è che Serra estende la portata delle sue conclusioni per dimostrare che l'”intero vecchio mondo mediatico” sarebbe dunque al riparo delle “previsioni funeste” dei “nuovisti”. Ne dedurremmo che, secondo lui, presto la gente leggerebbe sempre fuori di casa, in compagnia, il giornale o un libro di carta, ascolterebbe sempre fuori di casa, ancora in compagnia, la radio a transistor e infine guarderebbe sempre fuori di casa, sempre in compagnia, la televisione catodica e con la valvola termoionica. Nel 2014 quindi funzionerebbe come nel 1961, quando i miei genitori, grazie alla TV catodica che trasmetteva “Lascia o raddoppia?” in un bar di Montecatini, si conobbero “nel mondo reale” permettendo così la mia nascita qualche anno dopo.

Al di là di questo evidente salto logico, che sembra voler ignorare la sacrosanta peculiarità dell’esperienza “in sala” (su cui mi sono già ampiamente speso, come racconta Maria in questo post), colpisce la spregiudicatezza con cui Serra sia del tutto indifferente al fenomeno per cui le persone, proprio grazie al Web e agli schermi portatili:

1) fruiscono contenuti lontano da casa, nei tempi morti, liberando del tempo per la propria vita sociale “fisica” (per esempio guardano un film o leggono un e-book sui mezzi pubblici mentre vanno al lavoro o a trovare gli amici)

2) usano i social network come Facebook, e sempre più le piattaforme di instant messaging non tanto per “surrogare” una qualche vita sociale su uno schermo personale, ma per permetterla lontano dallo schermo: si organizzano, creano eventi, si danno appuntamento nel mondo reale, lontano dalle case in cui erano confinati quando era proprio la televisione a fungere consapevolmente da “surrogato” (con i reality, per fare l’esempio più lampante).

Da un giornalista del calibro di Serra, che si richiama da sempre a un inderogabile illuminismo cartesiano, non mi aspettavo un ragionamento così sgangherato. E non so se augurarmi se si tratti di una piccola perdita di lucidità, o solo dell’ennesimo, maldestro tentativo di tirare l’acqua al mulino del “vecchio medium” di turno.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.