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Il Web e i sonni tormentati di Michele Serra

amaca2Nella sua “Amaca” di oggi, che mi permetto di pubblicare qui sopra nonostante la minacciosa dicitura “Riproduzione Riservata” (appellandomi l’art. 10 della Convenzione di Berna per i fini di discussione), Michele Serra sostiene che l’aumento degli spettatori al cinema (+6% nel 2013) sarebbe un dato sufficiente per smentire non solo la crisi del cinema in sala, ma anche dei giornali, dei libri, della televisione a vantaggio del presunto “web social-cannibalizzante” che come sappiamo tormenta da qualche tempo i sonni dell’autore.

Ora, premesso che di crisi del consumo di cinema nelle sale non mi pare se ne parli più, o meglio se ne parla – a sproposito – dagli anni ’80 (quando il Web era un giochino per militari e accademici nerd) ci sono alcune sconnessioni logiche nel ragionamento di Serra che mi rendono un po’ perplesso.

Secondo la sua tesi la crescita del pubblico dei film in sala dimostra che evidentemente il web, che impone un consumo “monocratico” e “autistico” (queste le sue eleganti parole) davanti a uno schermo personale, non permetterebbe alla gente di uscire di casa, frustrando la naturale “voglia di condividere lo spettacolo con altre persone” di ognuno di noi. Di qui “l’effetto rinculo” che riporterebbe la gente in massa nelle sale cinematografiche.

Il problema è che Serra estende la portata delle sue conclusioni per dimostrare che l'”intero vecchio mondo mediatico” sarebbe dunque al riparo delle “previsioni funeste” dei “nuovisti”. Ne dedurremmo che, secondo lui, presto la gente leggerebbe sempre fuori di casa, in compagnia, il giornale o un libro di carta, ascolterebbe sempre fuori di casa, ancora in compagnia, la radio a transistor e infine guarderebbe sempre fuori di casa, sempre in compagnia, la televisione catodica e con la valvola termoionica. Nel 2014 quindi funzionerebbe come nel 1961, quando i miei genitori, grazie alla TV catodica che trasmetteva “Lascia o raddoppia?” in un bar di Montecatini, si conobbero “nel mondo reale” permettendo così la mia nascita qualche anno dopo.

Al di là di questo evidente salto logico, che sembra voler ignorare la sacrosanta peculiarità dell’esperienza “in sala” (su cui mi sono già ampiamente speso, come racconta Maria in questo post), colpisce la spregiudicatezza con cui Serra sia del tutto indifferente al fenomeno per cui le persone, proprio grazie al Web e agli schermi portatili:

1) fruiscono contenuti lontano da casa, nei tempi morti, liberando del tempo per la propria vita sociale “fisica” (per esempio guardano un film o leggono un e-book sui mezzi pubblici mentre vanno al lavoro o a trovare gli amici)

2) usano i social network come Facebook, e sempre più le piattaforme di instant messaging non tanto per “surrogare” una qualche vita sociale su uno schermo personale, ma per permetterla lontano dallo schermo: si organizzano, creano eventi, si danno appuntamento nel mondo reale, lontano dalle case in cui erano confinati quando era proprio la televisione a fungere consapevolmente da “surrogato” (con i reality, per fare l’esempio più lampante).

Da un giornalista del calibro di Serra, che si richiama da sempre a un inderogabile illuminismo cartesiano, non mi aspettavo un ragionamento così sgangherato. E non so se augurarmi se si tratti di una piccola perdita di lucidità, o solo dell’ennesimo, maldestro tentativo di tirare l’acqua al mulino del “vecchio medium” di turno.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.

Milano da twittare

C’è un primo, grande paradosso che è apparso in tutta la sua evidenza durante la Social Media Week che si è recentemente chiusa a Milano. Mentre dai vari “panel” ci si produceva nell’ennesimo sforzo di dimostrare come la rete ci liberi da mille vincoli, scatenando la creatività delle persone e mettendo le idee a disposizione di tutti, la stampa mainstream guardava Grillo in Piazza del Duomo e concludeva questo: “Visto? La rete è roba da frustrati, astiosi dilettanti rinchiusi nelle loro camerette, ridateci il monopolio dell’informazione”.

C’era dunque bisogno di un evento non “per addetti ai lavori”, non isolato in una nuvola autoreferenziale, ma “su strada”, che incuriosissse anche visivamente l’avventore casuale. Occorreva non spaventarlo con la solita cascata di buzzword, e magari sedurlo attraverso il racconto di come la Rete cambia la nostra vita quotidiana, quella fatta di cose che si toccano e di persone che si guardano negli occhi.

Posso dire che Hagakure c’è riuscita? OK, mi limito a pubblicare qualche numero che ciascuno potrà liberamente interpretare. In fondo siamo il popolo dei 10.000 visitatori “secondo la Questura”, quindi anche la matematica è una simpatica opinione 🙂

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Circa i panel che sono riuscito a seguire, cito a memoria:

–  “Web Everywhere!” il dibattito sulle prospettive di una rete omnipresente: anche qui siamo in pieno conflitto d’interesse, ma non posso esimermi dall’esaltare la splendida deriva socioantropologica innescata dai brillantissimi Bennato e Mulé;

Social Media & Comics, dove incontrastate star della satira in rete come Zerocalcare hanno trasformato Palazzo Reale in una sorta di Zelig improvvisato;

Governi, piazze, mercati e palazzi. Come Twitter cambia il mondo in cui Matthias Lufkens, capo della sezione Digital di Burson-Marsteller, ha raccontato in che modo – ancora a volte troppo ingenuo – i governanti dell’orbe terracqueo usano i social media (come cambia in fretta il mondo, vero Eric?);

Non potevo infine mancare (perché ero sul palco, mica per altro) il dibattito di chiusura, dove – fortunatamente con modalità del tutto ludiche – l’ineffabile Gianluca Neri ha tormentato i relatori con pungenti domande sui possibili trend del 2013. Io me la sono cavata con un nuovo Prezi sull’evoluzione degli ecosistemi dei media, in realtà una specie di anteprima della presentazione che sto per tenere a Berlino per il Media Web Symposium 2013. Per una analisi più puntuale di quella roba lì, rimando al prossimo post dalla Crante Cermania.

Concludendo, sono sicuro che i molti personaggi che sono pagati non per lavorare, ma per parlar male del lavoro degli altri, avranno da ridire anche sulla Social Media Week. Da parte mia, io non vedo l’ora che ne organizzino un’altra, magari all’ombra del Colosseo, e possibilmente col sole. Perché OK, la neve a fiocconi è bella e romantica, ma insomma, ecco, come dire.

Le elezioni, gli effetti-annuncio e i pensieri compiuti

Negli ultimi giorni mi è apparso evidente che rispetto alle ultime elezioni politiche, quelle del 2008, negli ecosistemi dei media qualcosa di non trascurabile è forse cambiato.

Questa potrebbe essere la prima campagna elettorale in cui una larga fetta di elettori (non necessariamente coincidente con il “club dei 5 milioni” di Severgniniana memoria) è mediaticamente esposta all’integralità dei contenuti dei programmi proposti dalle varie formazioni politiche.

Fino a qualche anno fa, il meccanismo prevedeva che questi contenuti dovessero necessariamente passare attraverso il “filtro della digeribilità” stabilito a priori dalla televisione, e in seconda battuta dei giornali. Con i tempi della televisione e la “reductio ad headline” della carta stampata, e pochissimo spazio a disposizione dei commentatori politici veri e propri, qualsiasi proposta politica risultava ostaggio dell'”effetto annuncio”. La conseguenza diretta era che una proposta per il Paese poteva avere elettoralmente senso solo in funzione della sua “titolabilità”, che è inversamente proporzionale alla necessità di spiegarla o raccontarla in un concetto compiuto.

Una volta, per trasmettere la prospettiva reale di una idea politica, esistevano i comizi. Il candidato parlava in una piazza, che si gremiva in varia misura di persone disposte a farsi raccontare il contesto dei problemi e farsi convincere dalle varie soluzioni. La televisione ha ucciso i comizi, favorendo gli esponenti poveri di contenuti ma ricchi di “titoli” suggestivi, come “abolirò l’ICI” o – per rimanere nella stretta cronaca – “restituirò l’IMU”, senza che questi ultimi si sentissero in obbligo di spiegare dove avrebbero trovato – per esempio – la copertura finanziaria.

Ora, io non intendo affollare ulteriormente la già nutrita schiera degli osservatori che sottolineano la crescente importanza dei social media nella discussione delle varie posizioni politiche in vista del 24-25 febbraio. Vorrei piuttosto limitarmi a sottolineare che – grazie al moltiplicarsi delle piattaforme mediatiche a disposizione di tutti (e non solo del “club” di cui sopra) – è oggi possibile tornare a seguire la campagna elettorale nella sua interezza.

Sui canali “active” di Sky Tg 24, per fare solo un esempio, è possibile seguire tutti i comizi dello Tsunami Tour di Beppe Grillo, per capire se si tratti davvero di un populista demagogo o di qualcuno che solleva problemi e propone soluzioni nuove. Allo stesso modo, attraverso le apparizioni pubbliche di Bersani, è possibile vivere in diretta  i tormenti del centro-sinistra ora che la sua vittoria è nuovamente messa in discussione. E non fosse stato per Sky, le molte proposte ed idee per il Paese scaturite dal dibattito delle Primarie avrebbero avuto una esposizione molto inferiore su tutti gli altri media. E allo stesso modo, avremmo subito il teatrino di Berlusconi senza assistere in tempo reale allo psicodramma delle liste PDL in Campania, dopo la vicenda Cosentino. In questa nuova “arena politica integrale” si possono capire i mutamenti di strategia di Monti e dei suoi sodali, e farsi delle domande sulla costante assenza di Fini e Casini dalle sue apparizioni pubbliche.

Non ci sono giornalisti o commentatori o tipografi di mezzo. E se proprio non ci si arriva con la diretta satellitare, si può supplire con lo streaming sul web, dove magari “i passi salienti” vengono ripresi dall’amico su facebook e non dal titolista che deve comporre la prima pagina.

L'”integralità” non sposta un voto? Sarei cauto prima di sostenere una cosa del genere. Nella disponibilità di nuove piattaforme, utilizzate da un numero sempre maggiore di elettori, c’è infatti un nuovo linguaggio e un nuovo racconto della politica. Una “nuova pratica” che lascia maggiori margini alla capacità dei residui indecisi di farsi un’idea sulla scelta finale al di là degli annunci roboanti cui ci eravamo abituati negli ultimi 20 anni. Al di là di quegli imbattibili slogan che facevano sembrare il “programma di 252 pagine” una sorta di dichiarazione di sconfitta in partenza.

Saranno tre settimane molto lunghe quelle che ci separano dal voto, ma forse – per una volta – qualcuno potrebbe riuscire a riempirle di contenuti. Lo spazio, almeno quello mediatico, non manca. L’audience, per la prima volta, non è solo quella della televisione o delle edicole. A meno che non si preferisca credere di essere ancora nel 2008, o peggio – come sento ripetere su twitter – nel 1994.

I festival sul web e la necessità della non necessarietà

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Sul treno Pisa-Roma, di ritorno dall’Internet Festival che si è appena concluso nella città toscana, cerco un bandolo nella matassa dei pensieri razionali e delle sensazioni grezze, con una preferenza per queste ultime, che quest’ennesimo raduno di Web Tellers (è l’unica definizione che mi pare in grado di accomunarli) mi ha lasciato nello zaino.

I festival sul web, è indubbio, si stanno affollando. Ce ne sono così tanti che si inizia a guardare con preoccupazione a certi momenti “pregiati” del calendario (settembre-ottobre e maggio-giugno), con tanto di lotte di posizionamento per occupare la settimana più utile e i primi, inevitabili fenomeni di sovrapposizione.

Non c’è da stupirsi per questa rincorsa: da un lato gli sponsor privati cominciano a “mettere i paletti” e a fidelizzare il proprio brand su alcune iniziative “storiche”, pensando di poter capitalizzare sulla primigenia, e non sempre con molto costrutto. Dall’altro sono ormai nel “loop” le amministrazioni locali, e in particolare quelle che per diverse ragioni (maggiori risorse o reale e meditata scelta strategica, o una combinazione delle due) decidono di finanziare con soldi prevalentemente pubblici la propria “settimana del web”, a vario titolo o con tagli diversi.

A quest’ultima categoria di iniziative appartiene, come del resto l’ottimo Medioera (organizzato lo scorso Luglio dalla provincia di Viterbo),  anche l’arioso e apparentemente indefinito festival pisano, giunto quest’anno alla seconda edizione ma solo da quest’anno curato dalla Fondazione Sistema Toscana.

A Pisa abbiamo vissuto un festival finanziato prevalentemente con denaro pubblico dunque, anche se alcuni sponsor di non trascurabile peso facevano bella mostra di sè negli stand e sui materiali. Dico subito, a scanso di equivoci, che laicamente e dal mio soggettivissimo punto di vista di semplice fruitore, il festival mi è piaciuto più di qualsiasi altro evento organizzato quest’anno nel nostro Paese.

Ma prima di spiegare perchè, vorrei tornare su questa oziosa forzatura della dicotomia pubblico-privato, che torna sempre più di frequente nelle discussioni delle “cerchia” che si muove in primo piano e con le stesse dinamiche, indipendentemente dal mutare della texture dello sfondo (dalla Rocca di Riva del Garda alle ormai consolidate location delle grandi aree metropolitane).

A Pisa ho avvertito molte critiche, spesso gratuite, provenienti da addetti ai lavori di primissima fascia, persone che stimo per la loro competenza e professionalità e che ormai da una decina d’anni mi trovo ad incontrare in occasioni simili (dai barcamp in poi, diciamo). Ecco, mi spiace rilevare che in queste critiche ho letto più la volontà di far pagare una sorta di noviziato agli “ultimi arrivati” – gli organizzatori del festival, appunto – che uno sforzo “laico” di capire che cosa essi avessero in mente, che cosa volessero lasciarci nel cuore e nella testa dopo queste 4 giornate, a prescindere dalle ovvie rigidità che legano le aspettative all’esperienza, se non addirittura un cliente ad un fornitore.

Dietro queste critiche il messaggio di fondo sembra essere “se i soldi sono pubblici, sono sprecati, perchè non possono che essere affidati a persone incompetenti” . Ebbene, io credo che questo tipo di associazione sia poco più che un riflesso condizionato che risponde a uno sterile pregiudizio.

Potrà anche esserci del vero – perchè “il diavolo è nei dettagli” – nelle parole di chi sottolinea l’imprecisione della segnaletica e dei materiali, l’eccessivo affollamento di eventi in contemporanea, l’inadeguatezza di certe location, la composizione di panel che hanno relatori di prima fascia mescolati a personaggi semisconosciuti, o che per le ragioni più disparate a ciascuno di noi risultano tristemente conosciuti, come se tra i vari oneri dell’organizzazione vi fosse anche quello di bilanciare i rapporti tra clan, amicizie, inimicizie e orientamenti ideologici di varia natura, e via criticando.

Ora, io credo si possa affermare con ragionevole serenità che nessuna di queste osservazioni aggiunga assolutamente nulla sul tema davvero centrale, che è un altro: qual è l’obiettivo di un evento come questo? accontentare i clienti? gli sponsor? le istituzioni? l’università? o forse, banalmente, lasciare a chi il festival lo fruisce (in larghissima misura studenti), qualche traccia di quella cultura digitale che che negli ultimi anni stiamo alacremente distruggendo, affogandola nella nostra necessità di rivendicare una presunta e neonata “professionalità”? O, peggio, come accade a molti miei coetanei, traghettare la nostra competenza “cartacea” (qualcuno una volta la definiva “parolaia”) nel mondo digitale, come se le logiche di contenuto fossero le stesse, come se certi “capisaldi” cosituissero davvero l’imprescindibile punto di partenza?

E’ buffo, perchè molte delle pecche che rileviamo oggi una volta le consideravamo fenomeni romantici, tipici di una transizione, di un'”era dei pionieri”. Ciò che oggi chiamiamo “disorganizzazione”, ai tempi, la chiamavamo serendipity, per il semplice fatto che allora, gli eventi, li organizzavamo noi, da soli, con le nostre risorse, ed eravamo i primi. E ci lamentavamo proprio perchè il “pubblico” (e non le aziende, che avrebbero “comprato” la nostra verginità) non ci aiutava, non ci capiva, era sempre in ritardo. Ma non appena ci siamo felicemente riposizionati siamo tornati ad essere più realisti dei Re, perdendo ogni stilla dell’entusiasmo e di quella “ingenuità” iniziale che oggi ci spedisce dritti dritti al ritorno all’alveo, in perfetto stile “Business International”.

E nel frattempo, tra le altre cose, abbiamo scoperto che quando organizziamo un evento è più facile essere giudicati sui pochi parametri che i nostri interlocutori comprendono: la “cura della segnaletica”, la “coerenza dei relatori”, e via banalizzando. Finendo così per assecondare qualsiasi iniziativa pubblica alle logiche di sempre, i criteri “necessari”, semplicemente perchè più vendibili ai nostri “clienti”, che sono ormai le aziende che ci mettono i soldi. E perdendo così di vista la nostra responsabilità di ex-pionieri, che poi è quella di dar vita a una rottura, a un filone davvero indipendente, quello delle culture digitali che permettono di creare nuove aspettative, compresa la capacità di stupirci con un necessario – se mi perdonate il gioco di parole – clima di “non necessarietà”.

Per riassumere: continuando così, nell’asfittico calendario di cui sopra, ci sarà sempre meno spazio per i tanti eventi realmente “partecipati”, perchè nell’inseguire pedissequamente la logica del “se c’è, è perchè è monetizzato” (ove la monetizzazione è solo una delle possibili forme di remunerazione) finiremo per non essere più remunerati con le idee, con le esperienze, con il networking che solo dopo, dentro di noi e dentro la Rete, diventano competenze davvero monetizzabili.

Per fare un parallelo, se io stessi scrivendo questo post con l’obiettivo di monetizzare il mio blog, sarebbe già infinitamente troppo lungo: avrei dovuto scrivere al massimo venti righe, meglio se ricolme di link. Sfortunatamente per i liberisti orizzontali, può anche capitare che a qualcuno interessi esprimere compiutamente il proprio pensiero (ed essere gratificato dal valore della discussione che lo spunto genererà). Ed è per questo che non sono affatto preoccupato dai cali di attenzione, ma dalla necessità di argomentare e mettere nuovi problemi sul tavolo, a disposizione di chi si riterrà interessato.

Tornando a Pisa, questo festival, forse proprio per il fatto di non essere troppo assillato dal rapporto profit/loss, ha potuto mettere sul tavolo tante questioni, senza dover scendere a compromessi, nella consapevolezza che “ogni issue ha un suo mercato” il che è infinitamente preferibile alla coda lunga delle opinioni secondo cui “ogni opinione –  compresa quella degli scettici ad orologeria –  ha un suo mercato”.

E’ forse solo grazie all’approccio “laico” rispetto agli snobisti e ai disillusi per tutte le stagioni che a Pisa è stato possibile ascoltare Mariann, che ha parlato delle rispettabilissime motivazioni dei molti che decidono coscientemente di cancellarsi da Facebook, seguire il meraviglioso Salvatore nel suo struggente e visionario appello alla rete, approfondire temi spinosi come quello dei dati personali in un programma che prima di giudicare “troppo affollato” definirei, semplicemente, ricco. Ricco delle sue diversità, delle sue incoerenze, della sua incoscienza nel non dover preoccuparsi di chi è amico di chi, di cosa è rapidamente passato di moda, di quali sono le nuovissime buzzwords ascoltate la settimana prima, magari da quelli che ormai parlano di 4.0 e di “nuovo umanesimo”.

Non possiamo infine dimenticare che la riuscita di un evento non si misura solo durante o immediatamente dopo. Anche se i numeri sono già impressionanti, un festival come questo va valorizzato anche e soprattutto per i contenuti che  hanno un ciclo di vita potenziale ben più lungo. Ed è dai tempi di Words, World, Web che a In Toscana l’hanno capito, mandando in streaming (con un servizio che ha funzionato a puntino, anche da 12 location in contemporanea) tutte le conferenze, che saranno rese disponibili successivamente, on demand.

Personalmente, nelle due occasioni in cui ho participato come relatore (un Keynote Speech sulla Content Curation – il prezi è qui – e  il dibattito sulla nuova informazione “Dalla Carta a Twitter“, moderato da Luca Alagna) ho avuto ottimi riscontri sia dalla platea che dalla Rete, con domande e osservazioni molto più utili rispetto a tante occasioni con un “vissuto” più consistente.

Comincio a sospettare che sia proprio il “vissuto storico” a iniziare a pesare come un fardello su parecchie di queste manifestazioni, con una costante opera di corrosione e drenaggio dell’entusiasmo di chi ci lavora prima, durante e dopo. E lo dico a ragion veduta, dopo aver ammirato la passione e la pazienza di persone come Ivo Riccio, Costanza Giovannini, Marzia Cerrai e naturalmente Adriana De Cesare che ci hanno accompagnato in queste quattro lunghissime e  meravigliose giornate.

Stili

Al di là delle conseguenze più immediate del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti, negli ultimi giorni in parecchi si sono spesi per descrivere il cambiamento del modo di comunicare riscontrabile nel nuovo Governo. In particolare, sono stato colpito dall’analisi molto acuta di Giovanni Boccia Artieri, che nella sua rubrica per Apogeo (sul cui nomeavrei qualcosa da dire :)) sottolinea l’adozione di una “strategia del silenzio” e dell’antidivismo che permetterebbe al nuovo esecutivo di conservare un consenso diffuso nonostante le misure impopolari che il Paese dovrà affontare.

A questo proposito avrei un paio di considerazioni da fare. Sulla scelta del “silenzio”, distinguerei i mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, radio) dai mezzi di comunicazione istituzionale (le dirette dal parlamento, le conferenze stampa, le apparizioni in occasioni pubbliche). La mia sensazione è che l’apparente rinuncia al controllo delle “uscite” sui primi, che Berlusconi come sappiamo aveva gioco facile a presidiare, non sia altro che l’ovvio contraltare di un consapevole e assiduo uso dei secondi.

Il punto è che qualcuno sembra essersi finalmente accorto che da qualche tempo gli strumenti “non mediati”, una volta riservati agli addetti ai lavori (le sedute a della Camera, la conferenza stampa, i convegni e i seminari) sono finalmente – grazie al web, o banalmente, alla moltiplicazione dei canali digitali (si pensi al canale eventi di SkyTG24) – alla portata di un pubblico sempre più ampio. Un pubblico sempre meno di nicchia che, come Boccia Artieri ha sottolineato, commenta e ricondivide in tempo reale, ampliandone ulteriormente l’effetto prima che passi dal tritacarne dei “commentatori politici” che dovrebbero orientare opinioni e consenso.

In prima battuta, dunque, arrivano i canali istituzionali, diretti e immediati e ricondivisi dagli utenti, che li commentano in tempo reale, certificando un sentiment che non risente dell’onda lunga dei talk show serali o dei “pastoni” politici del giorno dopo. Questo i giornali sembrano non averlo ancora capito, tant’è che ormai perdono più tempo a farsi la rassegna stampa incrociata tra loro che a capire davvero cosa stia succedendo nell’opinione pubblica.

Poi c’è il tema dello stile e dell’antidivismo. Io credo che Berlusconi, a un livello superficiale – quello che ha sempre ispirato la gestione della sua immagine pubblica, nella convinzione che gli elettori ragionassero (sono parole sue) come un bambino di quattro anni – fosse effettivamente ossessionato dalla necessità di dominare la scena sempre e comunque, a qualsiasi costo, compreso il rischio di clamorose gaffes che peraltro spesso altro non erano che ballons d’essai per testare la reazione del pubblico e degli interlocutori politici. Tutto questo, con Monti, dovrebbe essere ormai alle nostre spalle, dato che il primissimo scrupolo del suo Governo dovrebbe essere quello di recuperare la credibilità internazionale verso il nostro Paese.

Ma non traiamone conclusioni affrettate. La politica ha sempre giocato, e sempre giocherà, anche su precise leve emotive. Per questo avrà sempre i suoi divi. Elsa Fornero, a prescindere dal grado di spontaneità della sua reazione, pare averlo capito benissimo, e oggi gioca con straordinaria maestria il ruolo di “persona consapevole dei problemi e delle responsabilità”, fino a scendere nel midollo delle nostre speranze e delle nostre paure. E ne è anche una rappresentazione plastica, con le sue rughe che sono al contempo simbolo ostentato di lavoro, esperienza e conoscenza delle spine della vita. Quelle che tutti noi, sembra quasi volerci implicitamente dire, dovremmo tirar fuori senza vergogna nel momento del bisogno, e cioè oggi, ai tempi del “blood, sweat and tears”. Si potrà discutere a lungo se poi a pagare saranno in equa misura “i soliti noti”, ma va detto che questo “standing” della signora Elsa pare essere infinitamente più potente sia dei grafici e delle tabelle di Giarda che delle ormai leggendarie lavagne a fogli mobili dove Berlusconi vergava i suoi immaginifici “contratti con gli italiani”.

E il messaggio è ancora più potente se pensiamo ai volti lisci e levigati di chi, ricoprendo le responsabilità”delle pari opportunità” o “dell’ambiente” sembravano occupare la scena pubblica col preciso scopo di rappresentare fisicamente la soluzione del problema, piuttosto che il processo necessario per affrontarne le difficoltà.

Per rimanere in tema di ministri donna, il contrasto è davvero stridente tra personaggi come Maria Stella Gelmini e Anna Maria Cancellieri. Quando vidi per la prima volta l’ex ministro dell’Istruzione pensai subito che qualcuno avesse deciso che gli italiani non abbiano la minima idea sul ruolo di un ministro. Pensai davvero, come ci suggerisce Caterina Guzzanti, che dovesse interpretare nel nostro immaginario una sorta di super maestrina ideale, dotata di una specie di buonsenso al quadrato che avrebbe permesso di farci digerire i tagli alla scuola. La Cancellieri, agli Interni, è l’esatto contrario: non solo un “tecnico” che da anni si scontra coi problemi della pubblica sicurezza, ma anche l’immagine plastica del caterpillar cui si ispirano molti dirigenti pubblici in carriera, nella (ahimè) giusta convinzione che prima della giustezza delle idee è il timore del brutto quarto d’ora che passerai se ti metti di traverso a farti avanzare sulla strada del vertici del potere. Per gli italiani, indubbiamente, una immagine rassicurante, ma non esattamente un concetto moderno di leadership pubblica.

Chiudo con una nota sui comportameni e sui linguaggi. E’ indubbio che dal punto di vista oratorio Monti non sia esattamente un trascinatore. Però in queste sue prime apparizioni da premier ha dato prova di un sapiente uso delle pause. Pause che non servono tanto a creare tensione (e in questo il maestro era Craxi) ma proprio per dare la sensazione di qualcuno che non recita un copione. Che – mi rendo conto dello shock – sembrebbe addirittura pensare prima di aprire bocca. E mostrare quindi un minimo di rispetto per l’interlocutore, nel senso di prendersi un attimo per trovare le parole giuste per lui, in una sorta di riedizione politica del “marketing to one”. Ma non solo: riguardatevi la sua reazione rispetto all’ennesima indegna gazzarra dei parlamentari leghisti. Quello del premier è uno sguardo incredulo, di chi sembra sceso da un altro pianeta. Di chi, soprattutto, non prova a gabellarti per “obbligo democratico” il fatto di rispondere a tono, scendendo così sullo stesso piano di chi utilizza quella tribuna per manifestare il massimo spregio verso le nostre istituzioni. E’ la Lega che – da questo confronto mediatico – esce miseramente smascherata e incastonata negli anni ‘90, quelli in cui ci si poteva permettere di inscenare teatrini perchè la conquista delle ribalte, il superamento di quella famosa linea rossa della visibilità era l’unico vero problema sentito dalla politica, visto che la crisi non la vedeva ancora nessuno.

Un segnale definitivo di cambiamento sarà quando i nostri leader non si sentiranno in diritto di chiamare l’ANSA per una dichiarazione di smentita, ciò che negli ultimi vent’anni ha significato per tutti, persino per la smaliziatissima stampa mainstream, che la verità era appunto ciò che si intendeva smentire. Ricordate? eravamo arrivati a un punto in cui se un esponente dle Governo dichiarava ufficialmente “Non esiste alcun rischio di [elemento negativo a piacere]” significava che era davvero arrivato il momento di preoccuparsi.

Non so cosa ci riserveranno i prossimi mesi, ma spero tanto che dietro a questo cambiamento di stile, molto più consapevole di quello che sembra,  vi sia anche la capacità – dopo aver ripristinato un corretto rapporto con la scena pubblica –  di tornare ad occuparsi della cosa pubblica.