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Il Web, gli altri e la libertà di costruirsi una prigione dorata

Internet-dissent-ccL’altro giorno, dopo parecchio tempo, ho ripreso a guidare l’automobile. Molte cose mi sono venute automatiche, altre no. E me ne sono accorto quando una signora, dietro di me, ha suonato nervosamente il clacson. Non capivo perché, ma credetti che intendesse avvertirmi di qualcosa, magari un pericolo immediato, come prescrive il codice stradale.

E invece no, non intendeva avvertirmi di nulla. Voleva solo esprimermi il suo fastidio perché mi stavo spostando sulla corsia di destra, con regolare freccia accesa da alcuni secondi, mentre lei voleva sorpassarmi proprio a destra. A confermarlo, la pronta occhiata di riprovazione, mista a un velato disprezzo, che mi ha raggiunto attraverso il retrovisore.

Ora, come ben sappiamo la riprovazione riguarda l’atto, mentre il disprezzo riguarda la persona. Ma il codice di comportamento tra sconosciuti in automobile permette di esprimere bene entrambe le sfumature. Sia su binari paralleli, sia, (se necessario, quando non vogliamo andare troppo per il sottile), anche in un unico minestrone di brutti sentimenti pronti per l’uso.

Fondamentalmente, un comportamento che non condividiamo ci offre l’opportunità non solo di sentirci migliori di qualcun altro, ma persino di cercare conforto, magari con uno sguardo complice o incredulo, in qualche altro automobilista o pedone nei paraggi.

Nel traffico, infatti, non vale lo stesso codice di condotta che normalmente osserviamo verso gli sconosciuti. Dove magari è ammesso un qualche scarno dialogo strettamente legato alla condizione in cui palesemente ci troviamo: le informazioni sui mezzi passati alla fermata del bus, sull’ordine di chiamata nella sala d’attesa del dentista, e così via.

No. in auto la barriera del veicolo – che ci protegge, ma è anche un arma d’offesa – garantisce è una sorta di semi-anonimato dove ogni atto può – anzi, deve – essere debitamente teatralizzato. Uno sguardo, un epiteto, un labiale, un gestaccio attraverso il finestrino assumono spesso una rilevanza semi-pubblica. Compresa l’occhiata con cui squadriamo il volto di chi ha compiuto una manovra particolarmente odiosa, forse per trovare nei suoi lineamenti la conferma lombrosiana del nostro pregiudizio di partenza. Che poi è sempre lo stesso assunto, che suona più o meno così: “il mondo va a rotoli perché noi facciamo parte di una sparuta minoranza di persone civili, che sanno guidare e hanno  rispetto per gli altri; questi parassiti invece, quando tornano a casa, forse picchiano le loro mogli e lasciano i loro cani sul terrazzo tutta l’estate”. Confortati da questa certezza, come premio, quantomeno vorremo guardarli in faccia, per vedere il volto del male, della stupidità, dell’arroganza.

Semi-anonimato, dicevamo. E rilevanza semi-pubblica, abbiamo aggiunto. Ecco, io credo che questi termini – qui sul Web – dovrebbero farci scattare un rumoroso campanello d’allarme. Perché si tratta delle stesse condizioni in cui ci troviamo quando decidiamo di interloquire con uno sconosciuto su Facebook, in un post leggibile da altre persone. Dove puntualmente, anche qui, scatta in noi qualcosa di lombrosiano quando ci imbattiamo “negli altri”, nella “massa informe”. Cioè in tutti quelli che fondamentalmente, riteniamo meno informati, meno consapevoli, meno attrezzati di noi: dal grillino complottista, alla bimbominkia sgrammaticata, al pasionario irragionevole di questa o quella parte politica, allo spammatore di foto di cani scuoiati, all’irriducibile ricondivisore della bufala più evidente, e così via.

Tutta gente che – mannaggia! – può anche lei scrivere ed essere condivisa con successo su facebook, creare pagine con diecimila like per una petizione contro un inesistente sperpero di danaro pubblico, trasformare una battuta volgare e sessista in un tormentone, perché per cento persone mosse dal demone di pubblicare qualcosa di becero ce ne saranno sempre migliaia pronte ad amplificare il messaggio, e tutto per colpa di quel maledetto bottone “share”.

Ora, a ben vedere, il risultato è che con gli sconosciuti, nelle discussioni pubbliche (proprio come accade in auto) siamo motivati a dialogare quasi sempre in un solo caso: quando appunto non siamo d’accordo con loro. Specie quando abbiamo l’opportunità unica di far passare l’eterno messaggio identitario, lo stesso che regna da sempre in mezzo al traffico e cioè quello per cui “io sono migliore di te”.

E a prescindere dal merito e della gratuità di una affermazione del genere, siamo davvero di nuovo di fronte a una grave sconfitta. A sentire Lawrence Lessig il web (a differenza del traffico cittadino) ci permetterebbe di trovare il bello proprio nello sconosciuto e nell’inaspettato, la famosa “serendipity” di cui si favoleggiava nei primi barcamp. Ai tempi, iniziavamo a guardare molti illustri sconosciuti negli occhi, e quegli sconosciuti ci piacevano. Ma proprio ora che siamo riusciti ad aggregare le nostre conoscenze per interessi e passioni comuni, partendo dalla rete ma portando spesso queste affinità nel mondo degli atomi, ecco che ci siamo di nuovo chiusi a riccio e ci apprestiamo a salire sull’Arca, mentre fuori vediamo solo un diluvio universale di ignoranza e stupidità.

Siamo diventati, in sintesi, ciechi – ma per scelta. Appagati dalle continue, pulviscolari gratificazioni della nostra cerchia abbiamo stabilito di non voler guardare oltre ciò che è distante da noi. Con buona pace della social diversity e della shared culture propugnata da Lessig e da altri visionari.

La cosa più triste è che questa cecità sociale diventa ancora più grave di fronte a quello che accade, lontano dalla rete. Come accennai di recente all’Internet Festival di Pisa (e ringrazio Maria per averlo ricordato), se siamo disposti a pagare perché qualcuno ci imprigioni in una sala buia per assistere a qualcosa che potremmo serenamente vedere anche nel salotto di casa (di solito un film, ma più di recente anche eventi live e persino versioni “da big screen” di mostre d’arte), questo indica un mutamento radicale della nostra prospettiva sociale.

Il punto è che con “gli altri” non vogliamo più parlare, al di fuori delle nostre passioni, dei nostri interessi verticali, perché sui problemi reali, sui temi di attualità i media analogici ormai da vent’anni ci hanno insegnato a metterci uno contro l’altro, e i flame su facebook sono solo un ovvio riflesso di questo consolidatissimo andazzo. Guardiamo il vicino di casa o il parente al cenone di Natale non come una persona che ha i nostri stessi problemi, ma come l’idiota che pensa di risolverli votando per uno che dice “vaffanculo” nelle piazze. E dal tizio che stringe “Libero” sotto il braccio  ci aspettiamo uno squallido tentativo di passarci avanti nella fila della posta.

Pretendiamo di avere un raffinatissimo e lombrosianissimo sguardo socio antropologico su tutto e su tutti. E francamente mi chiedo, a volte mi chiedo, che razza di cambiamento potrà mai innescare un Paese prigioniero di una prospettiva del genere.

La carica degli ovetti

ovetti-twitter-renzi-130x300Se seguite la campagna elettorale su twitter con un minimo di assiduità, non potete non averli incontrati almeno una volta. Sono loro, gli ovetti, le centinaia, forse migliaia di account con un nome, ma senza un volto (costerebbe troppo) che stanno infestando le conversazioni online sui temi politici. Come è fin troppo facile capire, li hanno creati ad arte per intervenire tempestivamente nelle discussioni dove, legittimamente o meno, viene attaccato un candidato da difendere. La strategia è quella del branco: non conta la forza degli argomenti, ma solo il numero, il mettere in minoranza chi minaccia l’autorevolezza del personaggio da proteggere. Proprio come alle elementari.

E’ la vera novità di questa campagna elettorale online. Lo sciame di disturbatori fittizi è gestito da dei piccoli eserciti di volontari. E spesso si tratta anche di volontari “a loro insaputa”, perché a volte sono stagisti che non hanno nemmeno la certezza che verranno pagati per la loro autoclonazione, per la loro capacità di moltiplicarsi in decine di “Elio Vito” (lo ricordate?) in grado di ripetere a manetta una serie di frasi fatte da opporre in automatico anche di fronte all’argomentazione più stringente.

Del resto, se la stagione politica che abbiamo alle spalle continua a premiare, nei talk show televisivi, esattamente questo tipo di comportamenti, non dobbiamo stupirci se vengono ripetuti sui social media, dove al vantaggio della clonazione infinita si aggiunge la sensazione di un miglior rapporto costo/beneficio.

Il vero problema, duole ricordarlo ancora dopo averlo più volte affermato in ambito aziendale, è la facilità con cui il più becero e vetusto approccio alla comunicazione sul web viene venduto ai committenti di questa breve ma evidentemente remunerativa stagione elettorale: i politici. Invece di spiegar loro come, in passato, gli strumenti digitali hanno svolto un ruolo forse non decisivo, ma nemmeno trascurabile, durante una campagna per il voto si preferisce calarsi  nel più scontato “digital divide” del cliente, del quale è un gioco da ragazzi assecondare il naturale terrore di “essere criticati su twitter”.

E quindi via con gli sciami di droni che possono attaccare in massa senza mettere a rischio vere “vite umane”, vere reputazioni con un nome e un cognome. E tanti saluti ai profeti del marketing conversazionale che avrebbe dovuto premiare la trasparenza, trasformandola in credibilità.

Rimane solo da chiedersi, la prossima volta, se ci sarà ancora qualcuno disposto a pagare l’affama-stagisti di turno per una “strategia” di questo tipo. Ma siamo in Italia, e la memoria corta, purtroppo, non ce l’ha solo l’elettorato attivo.

Le elezioni, gli effetti-annuncio e i pensieri compiuti

Negli ultimi giorni mi è apparso evidente che rispetto alle ultime elezioni politiche, quelle del 2008, negli ecosistemi dei media qualcosa di non trascurabile è forse cambiato.

Questa potrebbe essere la prima campagna elettorale in cui una larga fetta di elettori (non necessariamente coincidente con il “club dei 5 milioni” di Severgniniana memoria) è mediaticamente esposta all’integralità dei contenuti dei programmi proposti dalle varie formazioni politiche.

Fino a qualche anno fa, il meccanismo prevedeva che questi contenuti dovessero necessariamente passare attraverso il “filtro della digeribilità” stabilito a priori dalla televisione, e in seconda battuta dei giornali. Con i tempi della televisione e la “reductio ad headline” della carta stampata, e pochissimo spazio a disposizione dei commentatori politici veri e propri, qualsiasi proposta politica risultava ostaggio dell'”effetto annuncio”. La conseguenza diretta era che una proposta per il Paese poteva avere elettoralmente senso solo in funzione della sua “titolabilità”, che è inversamente proporzionale alla necessità di spiegarla o raccontarla in un concetto compiuto.

Una volta, per trasmettere la prospettiva reale di una idea politica, esistevano i comizi. Il candidato parlava in una piazza, che si gremiva in varia misura di persone disposte a farsi raccontare il contesto dei problemi e farsi convincere dalle varie soluzioni. La televisione ha ucciso i comizi, favorendo gli esponenti poveri di contenuti ma ricchi di “titoli” suggestivi, come “abolirò l’ICI” o – per rimanere nella stretta cronaca – “restituirò l’IMU”, senza che questi ultimi si sentissero in obbligo di spiegare dove avrebbero trovato – per esempio – la copertura finanziaria.

Ora, io non intendo affollare ulteriormente la già nutrita schiera degli osservatori che sottolineano la crescente importanza dei social media nella discussione delle varie posizioni politiche in vista del 24-25 febbraio. Vorrei piuttosto limitarmi a sottolineare che – grazie al moltiplicarsi delle piattaforme mediatiche a disposizione di tutti (e non solo del “club” di cui sopra) – è oggi possibile tornare a seguire la campagna elettorale nella sua interezza.

Sui canali “active” di Sky Tg 24, per fare solo un esempio, è possibile seguire tutti i comizi dello Tsunami Tour di Beppe Grillo, per capire se si tratti davvero di un populista demagogo o di qualcuno che solleva problemi e propone soluzioni nuove. Allo stesso modo, attraverso le apparizioni pubbliche di Bersani, è possibile vivere in diretta  i tormenti del centro-sinistra ora che la sua vittoria è nuovamente messa in discussione. E non fosse stato per Sky, le molte proposte ed idee per il Paese scaturite dal dibattito delle Primarie avrebbero avuto una esposizione molto inferiore su tutti gli altri media. E allo stesso modo, avremmo subito il teatrino di Berlusconi senza assistere in tempo reale allo psicodramma delle liste PDL in Campania, dopo la vicenda Cosentino. In questa nuova “arena politica integrale” si possono capire i mutamenti di strategia di Monti e dei suoi sodali, e farsi delle domande sulla costante assenza di Fini e Casini dalle sue apparizioni pubbliche.

Non ci sono giornalisti o commentatori o tipografi di mezzo. E se proprio non ci si arriva con la diretta satellitare, si può supplire con lo streaming sul web, dove magari “i passi salienti” vengono ripresi dall’amico su facebook e non dal titolista che deve comporre la prima pagina.

L'”integralità” non sposta un voto? Sarei cauto prima di sostenere una cosa del genere. Nella disponibilità di nuove piattaforme, utilizzate da un numero sempre maggiore di elettori, c’è infatti un nuovo linguaggio e un nuovo racconto della politica. Una “nuova pratica” che lascia maggiori margini alla capacità dei residui indecisi di farsi un’idea sulla scelta finale al di là degli annunci roboanti cui ci eravamo abituati negli ultimi 20 anni. Al di là di quegli imbattibili slogan che facevano sembrare il “programma di 252 pagine” una sorta di dichiarazione di sconfitta in partenza.

Saranno tre settimane molto lunghe quelle che ci separano dal voto, ma forse – per una volta – qualcuno potrebbe riuscire a riempirle di contenuti. Lo spazio, almeno quello mediatico, non manca. L’audience, per la prima volta, non è solo quella della televisione o delle edicole. A meno che non si preferisca credere di essere ancora nel 2008, o peggio – come sento ripetere su twitter – nel 1994.

Non poteva andare diversamente

Sono passate alcune ore dal Berlusconi-show nella tana di Santoro e mi capita di leggere ancora commenti del tipo: “ma come è stato possibile, hanno aspettato vent’anni per incastrarlo, con documenti inoppugnabili, domande ineludibili, lontano dai suoi soliti lacchè, e invece l’ha fatta da padrone, li ha ridicolizzati”.

E francamente sono commenti che mi sorprendono. Sono anzitutto stupito che ancora non sia chiaro che Santoro e tutte le sue imitazioni degli ultimi vent’anni sono solo un riflesso condizionato del berlusconismo, in qualche misura un prodotto diretto di questi ultimi vent’anni di politica ridotta a teatrino raccontata da un giornalismo ridotto a teatro.

Sì, teatro, perché – se ricordate bene – quello che a molti sembrava ormai un format immutabile (il “talk-show” alla Santoro) in realtà agli inizi era molto diverso. Vent’anni fa – ai tempi di “Samarcanda”, per intenderci – Santoro conservava ancora un simulacro delle regole base del giornalismo, inteso come un mestiere  che dovrebbe mettere le persone in condizione di costruire una “propria” opinione attraverso il racconto documentato di “fatti”.

Ebbene attraverso Moby Dick, Tempo Reale, Anno Zero e infine Servizio Pubblico quello che oggi ci ritroviamo in mano, dopo tre lustri di sistematica distruzione dell’informazione televisiva, partita da Mediaset e felicemente portata a termine in Rai, è qualcosa di irriconoscibile. Un luogo dove un “opinion leader” (Santoro) e i suoi sodali (Ruotolo, Travaglio, Vauro ecc.) devono dimostrare a un pubblico evidentemente ritenuto beota che loro avevano avuto ragione fin dall’inizio, indipendentemente dalla regola numero uno che – appunto – dovrebbe essere il rispetto dell’intelligenza del telespettatore.

Il fatto che Santoro e i suoi abbiano ragione o torto, così, passa clamorosamente in secondo piano, affogato dalle dirette dalle piazze e dalle fabbriche urlanti, dai loggionisti rumorosi e scapigliati, da reportage ormai diventati copie perfette della peggiore fiction berlusconiana, con tanto di musica d’effetto e voce recitante.

Che Santoro sia diventato una “bête de spectacle” più che un giornalista, all’estero se ne rendono facilmente conto, anche quando devono difenderlo dagli editti del potente di turno. Siamo invece noi, assuefatti dall’imbarbarimento dei linguaggi prima ancora che della politica, a non accorgerci più che si tratta sempre dello stesso prodotto televisivo, un prodotto che con l’informazione ha davvero poco che vedere.

E’ dunque del tutto ovvio che in un circo come quello allestito da Santoro, in ossequio alle leggi dell’audience dettate da vent’anni di berlusconismo, sia proprio Berlusconi a trovarsi perfettamente a proprio agio. Con le più elementari sconnessioni logiche, le volgarità, le incoerenze, le battute per superare gli ovvi imbarazzi, in sintesi con il massimo disprezzo per l’intelligenza di chi è davanti al video. Un disprezzo che del resto, da spettatori, legittimiamo ogni volta che ci poniamo di fronte al video con le stesse granitiche certezze di chi compra “Libero” o “Il Giornale”, e con lo stesso spirito con cui guarderemmo l’unico prodotto televisivo paragonabile, e cioè il becerissimo “Jerry Springer Show“.

Se poi tutto questo sarà in grado di spostare consensi verso il centro-destra è un tema su cui non intendo spendermi, perché di sondaggi non capisco molto. Dico solo che se lo scopo era quello di esporre l’ex-premier al pubblico ludibrio, in una sorta di resa dei conti tra l’Italia dei giusti e quella degli avvelenatori dei pozzi, il risultato è stato imbarazzante. Anche perché di solito l’acqua per pulire non la vai a prendere nel pozzo avvelenato.

Stili

Al di là delle conseguenze più immediate del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti, negli ultimi giorni in parecchi si sono spesi per descrivere il cambiamento del modo di comunicare riscontrabile nel nuovo Governo. In particolare, sono stato colpito dall’analisi molto acuta di Giovanni Boccia Artieri, che nella sua rubrica per Apogeo (sul cui nomeavrei qualcosa da dire :)) sottolinea l’adozione di una “strategia del silenzio” e dell’antidivismo che permetterebbe al nuovo esecutivo di conservare un consenso diffuso nonostante le misure impopolari che il Paese dovrà affontare.

A questo proposito avrei un paio di considerazioni da fare. Sulla scelta del “silenzio”, distinguerei i mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, radio) dai mezzi di comunicazione istituzionale (le dirette dal parlamento, le conferenze stampa, le apparizioni in occasioni pubbliche). La mia sensazione è che l’apparente rinuncia al controllo delle “uscite” sui primi, che Berlusconi come sappiamo aveva gioco facile a presidiare, non sia altro che l’ovvio contraltare di un consapevole e assiduo uso dei secondi.

Il punto è che qualcuno sembra essersi finalmente accorto che da qualche tempo gli strumenti “non mediati”, una volta riservati agli addetti ai lavori (le sedute a della Camera, la conferenza stampa, i convegni e i seminari) sono finalmente – grazie al web, o banalmente, alla moltiplicazione dei canali digitali (si pensi al canale eventi di SkyTG24) – alla portata di un pubblico sempre più ampio. Un pubblico sempre meno di nicchia che, come Boccia Artieri ha sottolineato, commenta e ricondivide in tempo reale, ampliandone ulteriormente l’effetto prima che passi dal tritacarne dei “commentatori politici” che dovrebbero orientare opinioni e consenso.

In prima battuta, dunque, arrivano i canali istituzionali, diretti e immediati e ricondivisi dagli utenti, che li commentano in tempo reale, certificando un sentiment che non risente dell’onda lunga dei talk show serali o dei “pastoni” politici del giorno dopo. Questo i giornali sembrano non averlo ancora capito, tant’è che ormai perdono più tempo a farsi la rassegna stampa incrociata tra loro che a capire davvero cosa stia succedendo nell’opinione pubblica.

Poi c’è il tema dello stile e dell’antidivismo. Io credo che Berlusconi, a un livello superficiale – quello che ha sempre ispirato la gestione della sua immagine pubblica, nella convinzione che gli elettori ragionassero (sono parole sue) come un bambino di quattro anni – fosse effettivamente ossessionato dalla necessità di dominare la scena sempre e comunque, a qualsiasi costo, compreso il rischio di clamorose gaffes che peraltro spesso altro non erano che ballons d’essai per testare la reazione del pubblico e degli interlocutori politici. Tutto questo, con Monti, dovrebbe essere ormai alle nostre spalle, dato che il primissimo scrupolo del suo Governo dovrebbe essere quello di recuperare la credibilità internazionale verso il nostro Paese.

Ma non traiamone conclusioni affrettate. La politica ha sempre giocato, e sempre giocherà, anche su precise leve emotive. Per questo avrà sempre i suoi divi. Elsa Fornero, a prescindere dal grado di spontaneità della sua reazione, pare averlo capito benissimo, e oggi gioca con straordinaria maestria il ruolo di “persona consapevole dei problemi e delle responsabilità”, fino a scendere nel midollo delle nostre speranze e delle nostre paure. E ne è anche una rappresentazione plastica, con le sue rughe che sono al contempo simbolo ostentato di lavoro, esperienza e conoscenza delle spine della vita. Quelle che tutti noi, sembra quasi volerci implicitamente dire, dovremmo tirar fuori senza vergogna nel momento del bisogno, e cioè oggi, ai tempi del “blood, sweat and tears”. Si potrà discutere a lungo se poi a pagare saranno in equa misura “i soliti noti”, ma va detto che questo “standing” della signora Elsa pare essere infinitamente più potente sia dei grafici e delle tabelle di Giarda che delle ormai leggendarie lavagne a fogli mobili dove Berlusconi vergava i suoi immaginifici “contratti con gli italiani”.

E il messaggio è ancora più potente se pensiamo ai volti lisci e levigati di chi, ricoprendo le responsabilità”delle pari opportunità” o “dell’ambiente” sembravano occupare la scena pubblica col preciso scopo di rappresentare fisicamente la soluzione del problema, piuttosto che il processo necessario per affrontarne le difficoltà.

Per rimanere in tema di ministri donna, il contrasto è davvero stridente tra personaggi come Maria Stella Gelmini e Anna Maria Cancellieri. Quando vidi per la prima volta l’ex ministro dell’Istruzione pensai subito che qualcuno avesse deciso che gli italiani non abbiano la minima idea sul ruolo di un ministro. Pensai davvero, come ci suggerisce Caterina Guzzanti, che dovesse interpretare nel nostro immaginario una sorta di super maestrina ideale, dotata di una specie di buonsenso al quadrato che avrebbe permesso di farci digerire i tagli alla scuola. La Cancellieri, agli Interni, è l’esatto contrario: non solo un “tecnico” che da anni si scontra coi problemi della pubblica sicurezza, ma anche l’immagine plastica del caterpillar cui si ispirano molti dirigenti pubblici in carriera, nella (ahimè) giusta convinzione che prima della giustezza delle idee è il timore del brutto quarto d’ora che passerai se ti metti di traverso a farti avanzare sulla strada del vertici del potere. Per gli italiani, indubbiamente, una immagine rassicurante, ma non esattamente un concetto moderno di leadership pubblica.

Chiudo con una nota sui comportameni e sui linguaggi. E’ indubbio che dal punto di vista oratorio Monti non sia esattamente un trascinatore. Però in queste sue prime apparizioni da premier ha dato prova di un sapiente uso delle pause. Pause che non servono tanto a creare tensione (e in questo il maestro era Craxi) ma proprio per dare la sensazione di qualcuno che non recita un copione. Che – mi rendo conto dello shock – sembrebbe addirittura pensare prima di aprire bocca. E mostrare quindi un minimo di rispetto per l’interlocutore, nel senso di prendersi un attimo per trovare le parole giuste per lui, in una sorta di riedizione politica del “marketing to one”. Ma non solo: riguardatevi la sua reazione rispetto all’ennesima indegna gazzarra dei parlamentari leghisti. Quello del premier è uno sguardo incredulo, di chi sembra sceso da un altro pianeta. Di chi, soprattutto, non prova a gabellarti per “obbligo democratico” il fatto di rispondere a tono, scendendo così sullo stesso piano di chi utilizza quella tribuna per manifestare il massimo spregio verso le nostre istituzioni. E’ la Lega che – da questo confronto mediatico – esce miseramente smascherata e incastonata negli anni ‘90, quelli in cui ci si poteva permettere di inscenare teatrini perchè la conquista delle ribalte, il superamento di quella famosa linea rossa della visibilità era l’unico vero problema sentito dalla politica, visto che la crisi non la vedeva ancora nessuno.

Un segnale definitivo di cambiamento sarà quando i nostri leader non si sentiranno in diritto di chiamare l’ANSA per una dichiarazione di smentita, ciò che negli ultimi vent’anni ha significato per tutti, persino per la smaliziatissima stampa mainstream, che la verità era appunto ciò che si intendeva smentire. Ricordate? eravamo arrivati a un punto in cui se un esponente dle Governo dichiarava ufficialmente “Non esiste alcun rischio di [elemento negativo a piacere]” significava che era davvero arrivato il momento di preoccuparsi.

Non so cosa ci riserveranno i prossimi mesi, ma spero tanto che dietro a questo cambiamento di stile, molto più consapevole di quello che sembra,  vi sia anche la capacità – dopo aver ripristinato un corretto rapporto con la scena pubblica –  di tornare ad occuparsi della cosa pubblica.

Le prospettive politiche del giornalismo partecipativo

Il Partito Radicale, come noto, non ha mai avuto granchè da imparare in materia di uso dei media. Con veri e propri colpi di genio come “l’imbavagliata” di Pannella e Bonino durante le tribune elettorali, o come la campagna “Emma for President”, i militanti della rosa del pugno si sono guadagnati mille citazioni anche nel mondo della comunicazione aziendale, in particolare per quanto riguarda la capacità di esercitare le leve emotive degli italiani a supporto delle loro iniziative.

Il rischio che hanno sempre corso, semmai, è quello degli “early adopter”, cioè di coloro che adottano strumenti acerbi, che ancora non hanno espresso tutte le loro potenzialità. E’ accaduto per Agorà Telematica, uno dei primi ISP italiani, per l’archivio multimediale di Radio Radicale, che anticipa da anni le logiche della coda lunga, e anche per Fai Notizia, una delle più importanti piattaforme di citizen journalism viste finora da queste parti.

E così quando Diego Galli, responsabile dei siti internet dei Radicali, ha ritenuto di invitarmi a tenere una relazione per un seminario interno del partito, sul tema delle prospettive politiche del giornalismo partecipativo, non ho potuto far altro che provare a spingermi ancora più avanti, delineando tre possibili trend evolutivi di questo fenomeno e alcune proposte di campagne politiche sulla libertà di informare e di essere informati.

I temi erano in qualche modo già stati accennati nella prima puntata di Mutazioni Digitali, il talk show che conduco insieme a Marco Traferri, ma si erano un pò persi nella prevedibile polemica tra gli esponenti dei nuovi media e i giornalisti tradizionali. Stavolta sono riuscito ad andare un pò più a fondo, e ho potuto concentrarmi su qualche nodo cruciale, come il tema dell’assenza delle tutele legali e della conseguente “libertà di censura” che affligge l’emergente universo dei blogger e dei reporter diffusi, e che già Daniele Di Gregorio affrontò con chiarezza e competenza nel corso dell’ultimo RomeCamp.

L’intervento dura circa mezz’ora, e può essere scaricato qui oppure visto (e ascoltato, grazie alla funzionalità Slidecast) qui sopra.