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Il Web, gli altri e la libertà di costruirsi una prigione dorata

Internet-dissent-ccL’altro giorno, dopo parecchio tempo, ho ripreso a guidare l’automobile. Molte cose mi sono venute automatiche, altre no. E me ne sono accorto quando una signora, dietro di me, ha suonato nervosamente il clacson. Non capivo perché, ma credetti che intendesse avvertirmi di qualcosa, magari un pericolo immediato, come prescrive il codice stradale.

E invece no, non intendeva avvertirmi di nulla. Voleva solo esprimermi il suo fastidio perché mi stavo spostando sulla corsia di destra, con regolare freccia accesa da alcuni secondi, mentre lei voleva sorpassarmi proprio a destra. A confermarlo, la pronta occhiata di riprovazione, mista a un velato disprezzo, che mi ha raggiunto attraverso il retrovisore.

Ora, come ben sappiamo la riprovazione riguarda l’atto, mentre il disprezzo riguarda la persona. Ma il codice di comportamento tra sconosciuti in automobile permette di esprimere bene entrambe le sfumature. Sia su binari paralleli, sia, (se necessario, quando non vogliamo andare troppo per il sottile), anche in un unico minestrone di brutti sentimenti pronti per l’uso.

Fondamentalmente, un comportamento che non condividiamo ci offre l’opportunità non solo di sentirci migliori di qualcun altro, ma persino di cercare conforto, magari con uno sguardo complice o incredulo, in qualche altro automobilista o pedone nei paraggi.

Nel traffico, infatti, non vale lo stesso codice di condotta che normalmente osserviamo verso gli sconosciuti. Dove magari è ammesso un qualche scarno dialogo strettamente legato alla condizione in cui palesemente ci troviamo: le informazioni sui mezzi passati alla fermata del bus, sull’ordine di chiamata nella sala d’attesa del dentista, e così via.

No. in auto la barriera del veicolo – che ci protegge, ma è anche un arma d’offesa – garantisce è una sorta di semi-anonimato dove ogni atto può – anzi, deve – essere debitamente teatralizzato. Uno sguardo, un epiteto, un labiale, un gestaccio attraverso il finestrino assumono spesso una rilevanza semi-pubblica. Compresa l’occhiata con cui squadriamo il volto di chi ha compiuto una manovra particolarmente odiosa, forse per trovare nei suoi lineamenti la conferma lombrosiana del nostro pregiudizio di partenza. Che poi è sempre lo stesso assunto, che suona più o meno così: “il mondo va a rotoli perché noi facciamo parte di una sparuta minoranza di persone civili, che sanno guidare e hanno  rispetto per gli altri; questi parassiti invece, quando tornano a casa, forse picchiano le loro mogli e lasciano i loro cani sul terrazzo tutta l’estate”. Confortati da questa certezza, come premio, quantomeno vorremo guardarli in faccia, per vedere il volto del male, della stupidità, dell’arroganza.

Semi-anonimato, dicevamo. E rilevanza semi-pubblica, abbiamo aggiunto. Ecco, io credo che questi termini – qui sul Web – dovrebbero farci scattare un rumoroso campanello d’allarme. Perché si tratta delle stesse condizioni in cui ci troviamo quando decidiamo di interloquire con uno sconosciuto su Facebook, in un post leggibile da altre persone. Dove puntualmente, anche qui, scatta in noi qualcosa di lombrosiano quando ci imbattiamo “negli altri”, nella “massa informe”. Cioè in tutti quelli che fondamentalmente, riteniamo meno informati, meno consapevoli, meno attrezzati di noi: dal grillino complottista, alla bimbominkia sgrammaticata, al pasionario irragionevole di questa o quella parte politica, allo spammatore di foto di cani scuoiati, all’irriducibile ricondivisore della bufala più evidente, e così via.

Tutta gente che – mannaggia! – può anche lei scrivere ed essere condivisa con successo su facebook, creare pagine con diecimila like per una petizione contro un inesistente sperpero di danaro pubblico, trasformare una battuta volgare e sessista in un tormentone, perché per cento persone mosse dal demone di pubblicare qualcosa di becero ce ne saranno sempre migliaia pronte ad amplificare il messaggio, e tutto per colpa di quel maledetto bottone “share”.

Ora, a ben vedere, il risultato è che con gli sconosciuti, nelle discussioni pubbliche (proprio come accade in auto) siamo motivati a dialogare quasi sempre in un solo caso: quando appunto non siamo d’accordo con loro. Specie quando abbiamo l’opportunità unica di far passare l’eterno messaggio identitario, lo stesso che regna da sempre in mezzo al traffico e cioè quello per cui “io sono migliore di te”.

E a prescindere dal merito e della gratuità di una affermazione del genere, siamo davvero di nuovo di fronte a una grave sconfitta. A sentire Lawrence Lessig il web (a differenza del traffico cittadino) ci permetterebbe di trovare il bello proprio nello sconosciuto e nell’inaspettato, la famosa “serendipity” di cui si favoleggiava nei primi barcamp. Ai tempi, iniziavamo a guardare molti illustri sconosciuti negli occhi, e quegli sconosciuti ci piacevano. Ma proprio ora che siamo riusciti ad aggregare le nostre conoscenze per interessi e passioni comuni, partendo dalla rete ma portando spesso queste affinità nel mondo degli atomi, ecco che ci siamo di nuovo chiusi a riccio e ci apprestiamo a salire sull’Arca, mentre fuori vediamo solo un diluvio universale di ignoranza e stupidità.

Siamo diventati, in sintesi, ciechi – ma per scelta. Appagati dalle continue, pulviscolari gratificazioni della nostra cerchia abbiamo stabilito di non voler guardare oltre ciò che è distante da noi. Con buona pace della social diversity e della shared culture propugnata da Lessig e da altri visionari.

La cosa più triste è che questa cecità sociale diventa ancora più grave di fronte a quello che accade, lontano dalla rete. Come accennai di recente all’Internet Festival di Pisa (e ringrazio Maria per averlo ricordato), se siamo disposti a pagare perché qualcuno ci imprigioni in una sala buia per assistere a qualcosa che potremmo serenamente vedere anche nel salotto di casa (di solito un film, ma più di recente anche eventi live e persino versioni “da big screen” di mostre d’arte), questo indica un mutamento radicale della nostra prospettiva sociale.

Il punto è che con “gli altri” non vogliamo più parlare, al di fuori delle nostre passioni, dei nostri interessi verticali, perché sui problemi reali, sui temi di attualità i media analogici ormai da vent’anni ci hanno insegnato a metterci uno contro l’altro, e i flame su facebook sono solo un ovvio riflesso di questo consolidatissimo andazzo. Guardiamo il vicino di casa o il parente al cenone di Natale non come una persona che ha i nostri stessi problemi, ma come l’idiota che pensa di risolverli votando per uno che dice “vaffanculo” nelle piazze. E dal tizio che stringe “Libero” sotto il braccio  ci aspettiamo uno squallido tentativo di passarci avanti nella fila della posta.

Pretendiamo di avere un raffinatissimo e lombrosianissimo sguardo socio antropologico su tutto e su tutti. E francamente mi chiedo, a volte mi chiedo, che razza di cambiamento potrà mai innescare un Paese prigioniero di una prospettiva del genere.

La prima della Scala, la televisione, twitter: l’intreccio si infittisce

E’ trascorso esattamente un anno da quando Rai5, con la diretta del “Don Giovanni”, mise fine allo scempio della “Prima” della Scala fino ad allora ricevibile in chiaro solo da un canale franco-tedesco come Arte-TV. In quella circostanza, finalmente, il principale evento culturale del calendario italiano tornò a costituire un patrimonio accessibile a tutti, rompendo lo schema per cui solo la certezza di una grande audience può legittimare una produzione e una distribuzione televisiva certamente onerosa.

Fu la fine di un’epoca: quella in cui per decenni la grande serata dell’Opera italiana si era fatta “blockbuster” solo per i  suoi riflessi mondani: i puntualissimi tre minuti del TG1, con l’imperdibile sfilata di paillettes e acconciature in perfetto stile “Messa di Natale” (la classica messa di chi non va mai a messa), il terrore per la studiatissima reazione dei loggionisti, il sorriso dei VIP, la presenza delle autorità, ecc. ecc.

Era proprio il contorno lo spettacolo da vendere, mentre ciò che avveniva sul palco veniva instradato su catene distributive logore e sempre meno redditizie. Come foglia di fico, per la propria incapacità di costruire un business intorno a quel contenuto, l’industria finiva per etichettarlo come “di nicchia”. Intanto,  per motivi evidentemente ignoti ai nostri grandi tycoon, quello stesso evento veniva prodotto e redistribuito in giro per il mondo come un imperdibile gioiello.

L’altroieri, con le 6 ore di diretta per il  Lohengrin di Baremboim (su Rai5 ma anche in HD), la televisione pubblica è sembrata voler rilanciare la sfida del 2011.  Wagner non è esattamente digeribile come Mozart, e in parecchi  hanno dovuto compiere un notevole investimento emotivo per avventurarsi  in una  “scoperta” a scatola chiusa. Ma pensare di spiegare solo in questa chiave il dimezzamento dell’audience (poco più di 200.000 contro il mezzo milione dell’anno scorso) significa sottovalutare altri, meno evidenti, fenomeni.

Siamo sicuri che nel 2012 il singolo dato di ascolto del “live” esaurisca la dimensione del potenziale mediatico di un evento di questa portata? Io non credo. Intanto bisogna ricordare che la “Prima” della Scala, finalmente liberata dal tritacarne della cronaca, torna ad essere un tipico contenuto dal lungo ciclo di vita, che può dare il meglio di sè in ciò che una volta era “l’Home Video” e oggi sono le multiprogrammazioni, la catch-up TV, e le mille “code” che saranno disponibili sul Web, a patto di riuscire seriamente a metterle a valore.

L’annosa questione dell’aggregazione sociale generata dai grandi eventi non può più prescindere dal fatto che i social media rendono l’aggregazione svincolata dal luogo fisico della fruizione.  L’hashtag #primascala ha monopolizzato la serata di S. Ambrogio su Twitter, e ancora una volta il broadcaster ha perso l’occasione di agganciare queste conversazioni (“lock-in”) su primo schermo, relegandole al ruolo di “rumore di fondo”. Gli sviluppi della social TV negli Stati Uniti, di cui parla spesso con costrutto Emanuela Zaccone, raccontano bene quali opportunità si nascondano dietro lo sviluppo di una strategia “social” intorno ai grandi momenti aggregativi che il broadcast ancora riesce a realizzare.

A questo proposito, sono proprio curioso di sapere cosa abbiano in mente di fare alla RAI in occasione del prossimo Festival di Sanremo. Andrà a finire che tornerò a seguirlo, cosa che non accadeva dai tempi di Gigliola Cinquetti.

Sky Arte, l’ambizioso matrimonio tra broadcast e cultura

Dato il panorama piuttosto desolante del broadcasting di casa nostra, c’è solo da rallegrarsi del fatto che da qualche giorno esista un canale televisivo  interamente consacrato all’arte e alla cultura, come Sky Arte HD.

In questi primi giorni di programmazione, devo ammettere che è stato consolante sapere che da qualche parte nell’ormai sterminata guida programmi di Sky avrei potuto trovare un proposta dichiaratamente “culturale”, pur con tutti i vincoli e i limiti della televisione lineare.

Nell’epoca di un Web dove puoi ormai trovare davvero tutto quello di cui hai bisogno per soddisfare la più sfrenata highbrowness, dalla più onesta alla più smaccatamente autoreferenziale, e per giunta sempre on demand, indovinare il modo di conciliare tempi, stili, linguaggi, linea editoriale e soprattutto un modello di business adeguato a un canale di televisione lineare di questo tipo rappresenta una vera e propria sfida che merita tutto il sostegno possibile.

Ma quante possibilità ci sono di vincere questa sfida?   E’ presto per dirlo. Di sicuro, da quel poco che si è potuto vedere finora, Sky Arte ci rivela il suo essere, soprattutto, un “contenitore di cose belle”, senza pretendere troppo di discuterle, o – atto estremo – di farne l’oggetto di un dibattito intellettuale. Il paragone immediato è con l’ormai trentennale esperienza di Arte-TV, la televisione pubblica franco-tedesca, che forse proprio per il fatto di non avere alle spalle un vero e proprio modello di business (la tengono in piedi gli oltre 150 milioni di abbonati alla televisione pubblica dei due Paesi), e anche per la circostanza di costituire l’unica vera e propria “Tele-Sogno” realizzata su larga scala, ha una libertà di linguaggio e di sguardo sulla realtà – il famoso régard decalé – che chiunque abbia come stella cometa il far quadrare i conti non potrà mai permettersi di indossare.

Ed è qui la principale differenza: Arte-Tv non è un contenitore estetico, ma un canale che nasce per far pensare attraverso un terreno comune: il dibattito culturale mitteleuropeo, che mette continuamente in discussione il punto di vista occidentale rispetto alle grandi “forze del mondo”. E con una dialettica legittima ed autorevole proprio perchè espressione di quella “eccezione culturale” giudicata necessaria rispetto ai modelli culturali di massa di matrice anglosassone.

Sky Arte sembra piuttosto guardare all’arte internazionale (prima che alla cultura) attraverso un filtro consolatorio, un setaccio di “recupero del bello in quanto tale”, che tradisce l’ovvio riflesso di proclamarsi anzitutto in opposizione alle brutture televisive espresse dalla TV italiana negli ultimi (almeno) trent’anni. E forse anche un modo efficace per rivendere il prodotto (e pare ci stiano riuscendo) nei pacchetti delle altre consociate Sky  in giro per il mondo,  anche loro alla prese col classico restyling autunnale.

E così, dopo la roboante inaugurazione, segnata da una suggestiva docu-fiction originale su Michelangelo – si parte sempre dai fondamentali –  e alcuni bellissimi acquisti da altre reti (mi pare si intenda saccheggiare soprattutto la PBS che Romney vorrebbe strozzare, ma anche e la stessa Arte-Tv, e spero proprio di non sbagliarmi) adesso possiamo rifarci gli occhi con lo schiaccianoci di Ciajkovskij o coi bellissimi documentari sui Doors, in attesa di cogliere i succosi frutti dell’accordo col Cinecittà-Luce, che già grandi soddisfazioni ci regalò su History Channel. Roba da leccarsi i baffi, insomma. Ma quanto durerà?

La domanda non è scontata, visto che non è la prima volta che si prova una operazione del genere nel nostro paese. Per dire, quando qualche testa calda della Rai pensò di inserire “RaiSat Art” nel pacchetto premium di RaiSat prodotto per una Pay-TV che allora si chiamava “Telepiù”, l’esperienza durò poco più di due anni, con tanti applausi e molti rimpianti per non aver saputo rinnovare l’accordo di distribuzione con Sky.

Il tema centrale è quindi ancora una volta quello del modello di business. Se – come pare – si stia cercando di battere il chiodo delle sponsorship “alle spalle” della produzione (è già molto chiara la presenza di Enel e Banca Intesa in questo senso) credo che si potrà costruire un discorso serio e di lungo periodo. Se invece si punterà su una operazione di semplice “rilucidatura” del marchio Sky  anche a costo di tenere il canale in perdita  – un po’ l’operazione che fu tentata con Current TV, poi chiusa – si disse – per un capriccio anti-Gore del Capoil discorso potrà durare il tempo di una lunga campagna pubblicitaria. Ma spero proprio non sia così.