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Chiamala, se vuoi, RAItudine

sandra-mondaini

Ebbene sì, mi tocca parlare ancora della RAI. Ma stavolta non è per scongiurare con una petizione la cancellazione dei video d’archivio da YouTube, o per parlare di OTT-TV, Social TV, modelli di business e altri temi poco estivi.

No, questo è proprio un post sentimentalista, di quelli che si scrivono sotto l’ombrellone ripescando nei propri ricordi e nei propri istinti primari.  Il motivo di questa struggenza agostana è che la RAI, per un verso e per un altro, negli ultimi tempi è tornata far parte della mia vita, dopo qualche doloroso anno di “ok, ma restiamo amici”. E questo tipo di ritorni di fiamma, per uno che si spaccia per un freddo studioso degli ecosistemi dei media, può avere effetti collaterali dirompenti da un punto di vista emotivo.

Ripensandoci, il punto è che l’aver studiato la RAI e le sue evoluzioni, prima per gioco e poi anche per lavoro, è stata solo l’ovvia conseguenza di un mio desiderio infantile, e cioè un mondo in cui le persone – alla radio e alla televisione – avrebbero visto e ascoltato le cose più belle (sì, ho scritto proprio “più belle”, non a caso ho usato l’aggettivo “infantile”), e non quelle decise da un responsabile marketing della Findus.

Il che sposta da sempre la mia attenzione molto più sull’evoluzione delle radio e delle televisioni pubbliche, nel mondo, rispetto alle varie aziende televisive private, per le quali la missione è ovviamente e legittimamente fare profitti, a prescindere dal valore del contenuto.

Come ben sappiamo la RAI, negli ultimi anni, complici una serie di vicende politico-economiche più o meno note a tutti, ha finito per costituire una versione “sfigata” della televisione privata sia nel modello di business sia, come conseguenza, nella tipologia dei contenuti, allontanandosi notevolmente da questo tipo di utopia alla quale – almeno idealmente – il contratto di servizio sembra tutt’ora ispirarsi.

Lo scopo di chi ha indirizzato questa ormai trentennale deriva era precisamente e consapevolmente quello di far vincere il privato. E’ il privato, infatti, ad aver potuto in Italia operare in una sostanziale condizione di monopolio, e tutta l’operazione è stata resa ancora più facile dal sostanziale e tutt’ora perdurante dominio di un solo soggetto su tutta la raccolta pubblicitaria televisiva. Un dominio che permette a costui di stabilire non solo quali prodotti esistono, ma anche quali politici sono ancora in vita, quali fatti avvengono, quali problemi affligono il paese e quali sono le soluzioni a tali problemi. Se non abiliti quel modello, se non rispetti quel vincolo non vai in TV, quindi per gli italiani semplicemente non esisti.

Ora, io sono ben consapevole dell’argomento che qualcuno potrà opporre rispetto a questa premessa. Prima ancora di stabilire quale sia la missione di un servizio pubblico, e se davvero di un servizio pubblico radiotelevisivo vi sia bisogno, chi può salire su un piedistallo e stabilire cosa è un contenuto di valore e cosa non lo è? Non è forse questo intervento pretenzioso ad opera di una presunta élite intellettuale nel libero mercato dei contenuti a costituire in linea di principio l’infrazione di una libertà fondamentale dell’individuo, quella di nutrirsi dei contenuti (e dei valori) che vogliamo, proprio come ognuno ha il diritto di saccheggiare gli scaffali di junk food nei bar e nei supermercati?

Ecco, c’è un problemino. Questi ultimi trent’anni hanno dimostrato che questo  argomento è tutt’altro che ineccepibile, e ce lo dicono in primis i desolanti dati sull’analfabetismo di ritorno. Semmai tale tesi ha costituito l’alibi perfetto che ha permesso alla televisione pubblica di svuotarsi di tutto quel racconto dell’Italia e del mondo che grandissimi professionisti, almeno fino a tutti gli anni ’80, hanno provato a riversare nelle case degli italiani. Creando un linguaggio e persino una lingua comune, per cominciare, ma anche tanti motivi per stare insieme, per non guardarsi sempre e comunque in cagnesco sul pianerottolo, come pare oggi, nei tempi della crisi di sistema e dell’inevitabile, quotidiana “guerra dei poveri”.

E l’essere stati capaci, per tanti anni, di far scoprire agli italiani la cultura, il teatro, il cinema e persino di dare una rappresentazione alta della politica, al fianco di un intrattenimento leggero ma sempre “degno”, nel senso del rispetto dell’intelligenza del telespettatore, non fu – almeno a mio parere – solo merito di competenze e professionalità, ma anche di una pratica consolidata negli anni, quella che ho sempre chiamato “RAItudine“. Che poi è rimasto l’unico vero tratto distintivo del nostro servizio pubblico anche rispetto a quelli degli altri Paesi, animati in larga misura da propositi e missioni simili.

E che cos’è questa RAItudine di cui sto vaneggiando? Beh, in estrema sintesi potrei chiamarla quella capacità di rendere leggera e parte del nostro quotidiano quella stessa pesantissima missione e quegli stessi impegnativi propositi: educare il Paese, far scoprire la bellezza delle nostre diversità ai nostri stessi connazionali, consolidare la coesione sociale e il rispetto dei valori comuni attraverso la diffusione di uno stile e di un linguaggio comune.

Tutte cose che – si badi bene – nell’immediato dopoguerra non c’erano, e che quindi andavano inventate ex novo. Una operazione che richiedeva un fortissimo senso di responsabilità,  quella responsabilità che chi ha svuotato di senso il servizio pubblico sa bene di aver dovuto mettere da parte, magari con l’ipocrisia ormai ventennale dei bollini verdi e rossi che tutto e il contrario di tutto hanno fatto penetrare dal video direttamente nelle teste delle ultime generazioni.

Certo, i Bernabei che si inalberavano per le calze color carne delle gemelle Kessler erano davvero degli inguaribili e dannosissimi bacchettoni. Eppure dietro l’ingenuo scrupolo si celava proprio quella magica parola, “responsabilità”, che oggi, in virtù dell’inattaccabile alibi liberista, vorremmo rimuovere del tutto dalla tag cloud dei nuovi costruttori di immaginari, dei nuovi piani della rapprentazione di un Paese che forse ha paura del proprio essere “Paese Reale” (e infatti ne racconta un altro, che non è mai esistito).

La cosa affascinante che ho scoperto negli ultimi tempi, e che mi fa ancora sperare in un ritorno se non a quella RAI, che ha fatto ampiamente il suo tempo, a quel senso di responsabilità, è che i residui fossili della RAItudine hanno ben resistito a trent’anni di Pensiero Unico Berlusconiano e all’arrivo in massa delle sue truppe cammellate in tutti i luoghi di potere, RAI compresa.

Ricordate quando Sandra e Raimondo furono letteralmente comprati da quella che allora si chiamava “Fininvest”? Ce li ritrovammo eternamente vestiti lui in un clamoroso smoking, lei in un tripudio di paillettes obbligatorie, un po’ imbarazzati al centro di un lustratissimo studio milanese, quasi a voler essi stessi costituire l’unico motivo per farci cambiare canale. E infatti, privi di autori all’altezza e costretti a improvvisare (eh sì, il “Sandra e Raimondo Show” impallidiva di fronte al leggendario “Tante Scuse”), ci facevano cambiare due volte: la prima per andare su Canale 5, la seconda per tornare a guardare Benigni e Troisi sulle reti di stato.

Eppure proprio quella spregiudicatezza che i cugini d’oltralpe rispedirono al mittente (con tutto il cucuzzaro di “La Cinq”, che brividi) da noi trovò terreno estremamente fertile. Non ne potevamo più di Fanfani che ritardava l’arrivo della TV a colori (“gli italiani non possono permettersela in piena crisi petrolifera”), degli anatemi di Pasolini contro il consumismo che distruggeva la nostra innocenza. Perché noi quell’innocenza volevamo prenderla a martellate. Volevamo un mondo scintillante di soubrettes finalmente scollate proprio perché eravamo sessualmente repressi, perdendo così anche il treno di una vera liberazione sessuale di stampo mitteleuropeo, che invece quasi riuscì persino alla Spagna di Felipe Gonzales, ansiosa di liberarsi in fretta dalle pastoie di decenni di catto-franchismo.

Probabilmente si trattò di un passaggio obbligato. Il problema è che ne affidammo le redini a chi, come oggi sappiamo, pensava a tutt’altro. Mentre, per dire, nel 1969, quando fu allestita in RAI la diretta fiume per la conquista della luna, qualcuno che pensasse a noi, a noi telespettatori (e non al responsabile marketing della Findus, in prima battuta) c’era davvero.

E quindi, invece di copiare le musiche roboanti che contrassegnavano l’analoga moon coverage sulle privatissime CBS, ABC e NBC, c’era qualche assennato Capo Struttura che decise di attenuare l’enfasi, rilassarci con una sorta di musica d’ascensore mentre Andrea Barbato e Tito Stagno annunciavano i collegamenti con Cape Canaveral e le altre sedi collegate. Ecco, per farvi capire bene cosa intendo con RAItudine, vi invito a sbirciare le immagini di quella serata televisivamente perfetta, che – con tutti i vincoli tecnici dell’epoca – più di ogni altra cosa fa capire cosa e come dovrebbe essere un servizio pubblico quando racconta un evento di quella portata a una intera nazione. E in che modo la televisione fosse ancora in grado di incarnare il concetto di “responsabilità”.

Ebbene, la cosa che sto scoprendo in questi giorni è che l’eredità, o forse solo i residui fossili di quel tipo di indispensabili scrupoli nella televisione pubblica ci sono ancora oggi. Per esempio quando “sente” di dover adottare HTML5 nei formati dei video sul web. Oppure quando avverte l’obbligo di sperimentare l’interazione con altri schermi, quelli che la televisione privata guarda ancora con terrore. O quando ti inonda il salotto delle austere e mai interrotte note del quinto canale della filodiffusione, che oggi viene correttamente definito un canale di pubblica utilità.

Ma anche quando mette a disposizione in podcasting quasi tutte le più importanti rubriche radiofoniche, e non ha paura di usare questa parola nei richiami delle sigle finali  (“tutte le puntate sono disponibili in podcast”). Qualcosa resterà, pensa la testa del broadcaster, e magari qualche nipote potrà spiegare alla nonna come non perdere più una puntata di Fahrenheit.

E infine quella RAItudine ancora salta meravigliosamente fuori quando un pioniere del Web 2.0 come Antonio Sofi chiama a raccolta, fin dentro i teatri di posa di Via Teulada, un manipolo di twittaroli (il neologismo è della formidabile Celestina Pistillo), con l’intento di  movimentare i talk show della prima serata. Forse l’unico modo, far entrare la Rete fin dalla concezione del format, per aprire un programma come Millennium alle suggestioni e alle provocazioni di Twitter, non più e non solo un rutilante esercito di aforisti da strapazzo, ma anche una arena di vox populi in tempo reale.

Ecco, io vorrei tanto che dalla tenacia dei consapevoli e inconsapevoli, vecchi e nuovi vessilliferi della RAItudine, dell’amore per il Pubblico, del primato dello scrupolo sul modello di business imparassimo anche noi, anche noi blogger o quello-che-siamo-diventati che, lasciatemelo dire, secondo me continuiamo a scrivere e a pubblicare le cose migliori proprio quando nessuno ci paga, o meglio quando ci appaga il senso di libertà e il voler bene a chi ha la bontà di seguirci.

Perché è del tutto legittimo scrivere, parlare in pubblico, salire su un palco per essere notati e alla fine anche meritatamente ingaggiati da una radio, da una televisione o da una casa editrice. Ma quando vi leggo, che poi è un po’ come guardarvi negli occhi, le cose più belle mi arrivano quando le pensate, o le “sentite”, libere – e quindi gratis.  Per me che vi leggo e – ahimé – anche per voi che le scrivete.

E non, per intenderci, quando qualcuno vi mostra i lontani bagliori delle paillettes di una imbarazzatissima Mondaini, ma solo dopo aver stilato l’inesorabile e antichissimo elenco delle regole per farvi “funzionare”.

 

Fuga da YouTube: errori, diritti, doveri e un appello

mina

 

A seguito del mancato rinnovo dell’accordo Rai-Google, da domani 1 Giugno spariranno da YouTube tutti i video ufficialmente pubblicati da Rai (parecchie migliaia di clip). Sempre da domani, la Rai potrà chiedere la rimozione delle migliaia di propri video pubblicati dagli utilizzatori di YouYube, quasi tutto materiale d’archivio, e sui quali (proprio in virtù di quell’accordo) Google – grazie al sistema ContentID – riconosceva alla tv pubblica italiana una quota di ricavi in base alle views di ogni clip.

Cosa succederà adesso? Il materiale “nuovo”, che  poteva essere consultato sui canali ufficiali Rai di YouTube, migrerà sull’ottimo portale Rai.tv, senza – almeno così assicura l’azienda radiotelevisiva di Stato – che vi sia alcun “cono d’ombra” durante questa complessa transizione. Credo si debba avere molta fiducia su questo, nel senso che si tratta della quota di contenuti su cui Rai spera di recuperare molta raccolta pubblicitaria gestendola in-house e finalmente sottraendola al sistema di Google.

Il materiale d’archivio invece, in stragrande maggioranza pubblicato su canali non ufficiali (quindi illecitamente) su YouTube, sarà verosimilmente rimosso su richiesta della stessa Rai, proprio come accade ormai da molti anni con le clip catturate da Mediaset.

Ora, nel cercare di elaborare un giudizio – positivo, neutro o negativo – su questa scelta, non credo sia il caso di snocciolare numeri. In fondo, tutto dipende da Google, e non conosciamo i termini che hanno fatto naufragare la trattativa per il rinnovo. Forse se avessero negoziato una quota più alta oggi non staremmo nemmeno a commentare questo esito.

Credo che sarebbe scorretto anche fare della dietrologia, per esempio immaginandosi un Gubitosi costretto a mandare un segnale di “austerità e delivery” al Governo, resosi necessario dopo il taglio di 150 milioni di euro paventato dall’esecutivo.

Però su una cosa credo sia opportuno spendere qualche considerazione: se per quanto riguarda i canali ufficiali e i materiali “nuovi” (diciamo dell’ultimo anno) mi pare giusto immaginarsi una azienda pubblica fatta di manager che devono compiere scelte strategiche per far quadrare i conti, diverso – molto diverso – è il discorso per la massa di quei capture illeciti di materiali “vecchi”, sui cui Rai non riesce a monetizzare granché.

Il modello della raccolta pubblicitaria online attualmente perseguito da Rai.tv si fonda infatti su “ciò che va per la maggiore”, e cioè “ciò che adesso va in televisione”: le dirette streaming, la catch-up tv dell’ultima settimana, le clip più interessanti, dove impera ormai da anni sua maestà lo spot in pre-roll. Bisogna dire che si tratta di una strategia del tutto ragionevole, perseguita con intelligenza da persone che ne sanno, cercando di proporre la miglior user-experience possibile sia sul sito sia sull’applicazione Rai.tv, non a caso una delle più scaricate in Italia.

Ma tutto il resto? Quanti soldi, e come intende farli Rai.tv con le vecchie puntate di StudioUno, con l’integrale della diretta per la conquista della luna del 1969, coi telegiornali del rapimento Moro, con tutte quelle cose – per intenderci – che oggi si possono ancora trovare su YouTube e domani, anzi tra pochi minuti, verosimilmente inizieranno a sparire?

Spiace dirlo, ma io credo che la Rai non abbia una vera strategia per monetizzare questi contenuti, e consideri una specie di incidente il fatto che oggi i video su YouTube siano le vere “teche”, la vera memoria collettiva del Paese. Ed è un peccato, perché è proprio grazie a YouTube che oggi molti giovani italiani possono sapere cos’è stata la Rai prima di diventare, per qualche disgraziata evoluzione politica, una brutta copia di Mediaset senza che ve ne fosse alcun obbligo nè economico nè istituzionale (anzi). Prima dei “meravigliosi” anni ’80 la Rai era una straordinaria fabbrica di idee, cultura, informazione, intrattenimento di prim’ordine a disposizione di tutti. E se a disposizione di tutti lo era rimasta lo si doveva proprio alle formichine che su YouTube catturavano quei vecchi programmi e li ripubblicavano certo non per fine di lucro.

Ma sono davvero queste vecchie trasmissioni, sono questi pezzi di storia i colpevoli di quel furto di attenzione nei confronti di Rai.Tv, o  – peggio – dell’intoccabile schermo del salotto minacciato dalla Chromecast? E’ per colpa di una YouTube dove puoi trovare Mina e Alberto Lupo, le commedie di Eduardo, i supplementari di Italia-Germania 4-3 che la Rai “sta perdendo ricavi”?

Ovviamente no. Nonostante le ossessioni di chi lavora nella incrollabile logica del broadcaster, chi studia gli user behavioural trends sa che i veri responsabili di questo furto sono da cercarsi altrove: su Facebook, su Whatsapp, persino su Candy Crush. E su milioni di altri schermi che, fregandosene della Rai e molto spesso anche di YouTube, governano sempre più la vita in salotto, in cucina, in camera da letto, in tram, in ufficio, ovunque. E’ per le tante altre cose che succedono su questi schermi, che solo in minima parte o comunque per altri versi hanno a che fare con “la televisione”, che guardiamo sempre meno “la televisione”.

E’ buffo perché vedete, nel fare questi discorsi, ci sto cascando anch’io. Sto discutendo del modello di una televisione che sarebbe di tutti (la Rai) come se fosse la televisione di uno solo (Mediaset), mettendo direttamente in relazione lo stesso modello di business (la raccolta pubblicitaria, la pay-tv) come se non esistesse un contratto di servizio, come se la Rai non avesse appunto proprio quel ruolo, cioè quello di usare tutte le tecnologie disponibili per ricordarci chi siamo, come eravamo e dove potremmo quindi decidere di andare.

Le scelte di altri grandi operatori di televisione pubblica in Europa ma anche nel resto del mondo, da sole, dovrebbero dirci a sufficienza quanto sia miope trattare l’argomento mettendola su un semplice piano di confronto di strutture di costi e ricavi.

Ora, non è difficile immaginarsi che qualcuno a questo punto possa obiettare “e allora che facciamo, chiudiamo la Rai, o la privatizziamo come in Grecia, visto che i soldi per tenerla in vita sono finiti?” La domanda è legittima, ma è come se arrivasse da un canguro che sta per affogare per aver voluto sfidare a nuoto un delfino, invece che a salto in lungo, e non si vede perché debbano essere i diritti (eh sì, sono “diritti”) dei cittadini a doverne pagare le conseguenze. La vera domanda è: quanto è disposto il Governo a far rinascere la Rai, a farla tornare ad essere una risorsa per il Paese al servizio di quella economia della conoscenza di cui proprio nei proclami governativi si parla di continuo?

E per quanto siano ridicoli gli appelli, specie quando arrivano da un semplice blog come questo, allora forse è il caso di chiedere a chi – per legge e per conto nostro – concede a questa azienda l’incarico di svolgere un servizio pubblico (ah, quanti termini vintage), di fare due semplici cose:

  • chiedere alla Rai di studiare e mettere in atto una efficace strategia di monetizzazione, con tutti i mezzi disponibili, dei contenuti “nuovi” su Rai.tv e sulle altre proprie piattaforme in modo da contribuire in modo decisivo al salvataggio e al rilancio dell’Azienda;
  • imporre alla Rai di rinunciare a far rimuovere i contenuti “vecchi” da YouTube, così da salvaguardare l’unico vero archivio naturale dell’azienda seriamente accessibile al pubblico, che dà lustro alla storia della prima industria culturale del Paese e non minaccia in alcun modo i modelli di business attuali.

Chiedo troppo? Non lo so, ma non potevo star qui ad assistere impotente allo stacco della spina. Almeno non avrò il rimpianto di non averci provato.

Rai, i buoi sono scappati ma va bene così

rai2Certe battaglie – come quella di chi si ostina a trattare i diritti sui contenuti digitali con gli stessi strumenti dei contenuti analogici – sono ormai perse. Lo hanno capito quasi tutti, nel mondo. La major discografiche, per prime, scendendo a patti con chi – come Apple – prometteva di poter stringere nuovi cordoni, al prezzo di un flusso di ricavi molto ridotto rispetto ai tempi d’oro. Le case editrici, ora inginocchiate di fronte a un nuovo intermediatore di piattaforma (Amazon) più o meno dietro la stessa promessa, e alle stesse condizioni.

Con la TV, specie quella privata, è più difficile. Non a caso mentre la RAI ha trovato un accordo con Google per avere una quota dei ritorni pubblicitari su You Tube (anche sui contenuti “rippati” illegalmente dalla televisione pubblica) Mediaset è ancora ferma alle minacce e alle carte bollate.

Non c’è da sorprendersi. La cultura del modello della televisione commerciale è molto distante da qualsiasi prospettiva di cambiare il paradigma nell’era di internet. La televisione pubblica, invece, ha una cosuccia che la contraddistingue: si chiama “contratto di servizio“, ed è ciò che ci ricorda che è nostra. Un pezzo di carta dove sta scritto che la RAI deve rendere disponibile a tutti i cittadini italiani la fruzione dei contenuti da lei trasmessi su tutte le piattaforme che la tecnologia rende via via disponibili. Compreso il web. Poi, sta naturalmente alla RAI dotarsi di tutti gli strumenti che impediscano l’appropriazione indebita di questi contenuti, ma questo non deve limitare “la fruizione”.

Ora, la vicenda SKY/TVSAT ci insegna che non è il caso di dormire sugli allori. Sulla tecnologia satellitare, la RAI può imporre un proprio decoder, e alla fine – nonostante vari ricorsi in tutte le sedi legali anche internazionali, la piattaforma SKY non può ritrasmettere i canali del digitale terrestre, con l’argomento che non si poteva arricchire l’offerta di un concorrente.

Ma quello – lo ammettiamo – era un caso limite. Diverso è il caso dei portali “ufficiali” che ospitano i live stream dei canali televisivi. La RAI, in questo, è stata molto più veloce di Mediaset col suo portale Rai.tv. All’inizio, l’adozione di Silverlight (e di Microsoft.net) come piattaforma per il DRM suscitò qualche malumore. Poi ci si rese conto che Flash era ormai prossimo a tirare le cuoia, e il tema sembrò superato.

Chi voleva pervicacemente scaricare sul proprio hard disk, in modo illegale, i video della RAI poteva farlo seguendo le istruzioni dei parecchi tutorial che iniziarono a comparire su YouYube. Ma la quota dei “pirati” disposti a un tale sbattimento non superava mai la soglia “bittorrent”, la stessa che oggi mostra a major e broadcasters che la pirateria ha già saturato il “suo” mercato, rispetto alle molte offerte legali (come iTunes e Netflix) che ormai sono disponibili in rete. In sostanza si è scoperto che la stragrande maggioranza degli utenti è più che disposta a pagare un’offerta legale di contenuti via web pur di non dover imparare a diventare “pirata”.

Tutti felici e contenti? Manco per niente. Negli ultimi anni, infatti, le tecnologie per un web aperto (come HTML5) sono diventate degli standard “de facto” anche per il video. Tutti gli smartphone e tablet (che supportano HTML5) hanno ormai preso una bella quota delle fruizioni video totali, determinando il famoso “furto di attenzione” rispetto al primo schermo che terrorizza i broadcaster.

E – tornando alla RAI – se il servizio pubblico intende rispettare il contratto, deve permettere a ogni cittadino italiano possessore di un device mobile di accedere atutti i contenuti di Rai.tv senza limitazioni sulla piattaforma. Ora, però, la piattaforma non è solo il portale. E’ anche il sistema operativo, per esempio iOS e Android. Sono i linguaggi supportati, come HTML5. E’ anche il browser, per esempio Firefox.

Ecco, appunto: HTML5 e Firefox. Non sono in molti a rendersi conto di quanto sia importante che queste due componenti, che hanno ormai una quota di diffusione così alta siano componenti a sviluppo Open Source.

Infatti da un lato la RAI (ma anche molti altri produttori di contenuti) non possono esimersi dall’adottarle, proprio per la loro diffusione, e non solo per una questione di “contratto di servizio”. Ma dall’altro la comunità potrà continuare a sviluppare funzionalità su Firefox e HTML5 senza dover chiedere il permesso a nessuno.

E’ per questo che – anche se con una funzione seminascosta – Firefox permette sui player HTML5 di scaricare il contenuto del video, come ho scoperto per caso l’altro giorno (e subito segnalato) guardando una bellissima puntata di “Sostiene Bollani” su Rai.tv. Da un tablet o uno smartphone, è sufficiente tenere premuto il player per vedere apparire queste funzioni.

raiScegliendo “Salva video” il device inizia a scaricare un enorme file con estensione “.htm”, che – rinominato in “.mpg” può poi essere visto in locale, come ogni altro video memorizzato sul device. E’ illegale, come quando si seguono le istruzioni dei tutorial pirata? No, non lo è. Perché la RAI supporta quella tecnologia in tutte le sue componenti, e quelle funzionalità sono previste da quelle componenti.

Ora, sono sicuro che esiste un modo per impedire “a monte” che i file video vengano scaricati. In questo modo, però, il broadcaster adotterebbe una versione “spuria” delle funzionalità della piattaforma di distribuzione, e violerebbe il contratto di servizio proprio come nel caso-limite di TVSAT.

Ma sono sicuro che, avendo gli esperti della RAI capito da tempo che ciò che interessa alla stragrande maggioranza delle persone è la fruizione, e non il possesso dei contenuti (lo dicono i report degli analisti che noi non siamo come i tedeschi, per fortuna), non sarà adottato alcuno stratagemma di questo tipo.

A meno che qualcuno non pensi di fare carriera illudendo qualche capo struttura con una pezza di durata molto, ma molto breve.

La prima della Scala, la televisione, twitter: l’intreccio si infittisce

E’ trascorso esattamente un anno da quando Rai5, con la diretta del “Don Giovanni”, mise fine allo scempio della “Prima” della Scala fino ad allora ricevibile in chiaro solo da un canale franco-tedesco come Arte-TV. In quella circostanza, finalmente, il principale evento culturale del calendario italiano tornò a costituire un patrimonio accessibile a tutti, rompendo lo schema per cui solo la certezza di una grande audience può legittimare una produzione e una distribuzione televisiva certamente onerosa.

Fu la fine di un’epoca: quella in cui per decenni la grande serata dell’Opera italiana si era fatta “blockbuster” solo per i  suoi riflessi mondani: i puntualissimi tre minuti del TG1, con l’imperdibile sfilata di paillettes e acconciature in perfetto stile “Messa di Natale” (la classica messa di chi non va mai a messa), il terrore per la studiatissima reazione dei loggionisti, il sorriso dei VIP, la presenza delle autorità, ecc. ecc.

Era proprio il contorno lo spettacolo da vendere, mentre ciò che avveniva sul palco veniva instradato su catene distributive logore e sempre meno redditizie. Come foglia di fico, per la propria incapacità di costruire un business intorno a quel contenuto, l’industria finiva per etichettarlo come “di nicchia”. Intanto,  per motivi evidentemente ignoti ai nostri grandi tycoon, quello stesso evento veniva prodotto e redistribuito in giro per il mondo come un imperdibile gioiello.

L’altroieri, con le 6 ore di diretta per il  Lohengrin di Baremboim (su Rai5 ma anche in HD), la televisione pubblica è sembrata voler rilanciare la sfida del 2011.  Wagner non è esattamente digeribile come Mozart, e in parecchi  hanno dovuto compiere un notevole investimento emotivo per avventurarsi  in una  “scoperta” a scatola chiusa. Ma pensare di spiegare solo in questa chiave il dimezzamento dell’audience (poco più di 200.000 contro il mezzo milione dell’anno scorso) significa sottovalutare altri, meno evidenti, fenomeni.

Siamo sicuri che nel 2012 il singolo dato di ascolto del “live” esaurisca la dimensione del potenziale mediatico di un evento di questa portata? Io non credo. Intanto bisogna ricordare che la “Prima” della Scala, finalmente liberata dal tritacarne della cronaca, torna ad essere un tipico contenuto dal lungo ciclo di vita, che può dare il meglio di sè in ciò che una volta era “l’Home Video” e oggi sono le multiprogrammazioni, la catch-up TV, e le mille “code” che saranno disponibili sul Web, a patto di riuscire seriamente a metterle a valore.

L’annosa questione dell’aggregazione sociale generata dai grandi eventi non può più prescindere dal fatto che i social media rendono l’aggregazione svincolata dal luogo fisico della fruizione.  L’hashtag #primascala ha monopolizzato la serata di S. Ambrogio su Twitter, e ancora una volta il broadcaster ha perso l’occasione di agganciare queste conversazioni (“lock-in”) su primo schermo, relegandole al ruolo di “rumore di fondo”. Gli sviluppi della social TV negli Stati Uniti, di cui parla spesso con costrutto Emanuela Zaccone, raccontano bene quali opportunità si nascondano dietro lo sviluppo di una strategia “social” intorno ai grandi momenti aggregativi che il broadcast ancora riesce a realizzare.

A questo proposito, sono proprio curioso di sapere cosa abbiano in mente di fare alla RAI in occasione del prossimo Festival di Sanremo. Andrà a finire che tornerò a seguirlo, cosa che non accadeva dai tempi di Gigliola Cinquetti.