Archivi del mese: dicembre 2011

Forse quell’altro schermo che hai in mano non deve farmi paura

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Nel salotto di casa l’unica vera risorsa scarsa è l’attenzione. Per anni lo schermo televisivo, avendo la pretesa di costituire un’ esperienza autosaturante, ha dovuto contendere questa risorsa alle “altre cose” che succedevano nell’ambiente domestico. La cena, i riti familiari, i racconti, le discussioni, fino naturalmente agli altri media analogici (il libro, il giornale, il disco, eccetera). Tutte attività che, in ogni caso, tendevano ad essere svolte – appunto – una per volta.

Ma quando anche l’antico precetto “non si cena con la tv accesa” cominciò a scricchiolare, in concidenza con lo sbarco di un secondo televisore in cucina, si capì che qualcosa stava cambiando. La TV poteva essere vista anche in modo distratto, e i contenuti potevano persino essere “intuiti” via audio, magari da un’altra stanza, dove magari stavamo svolgendo un’altra attività. Gli stessi format si sono adeguati a questa mutamento, tanto da prevedere enormi sovraimpressioni (”The Jerry Springer Show”), newsticker (la CNN), o comunque altri dati statici che hanno permesso, con una sola occhiata, di capire “cosa sta succedendo in TV” senza necessariamente guardare la TV.

Una volta assicuratisi che questo cambiamento comportamentale (che derubricava la TV da “aggregatore sociale”  – tutti nella stessa stanza a guardare Rischiatutto – a banale “elettrodomestico”), non modificava gli equilibri dei modelli di business, i broadcaster tornarono a dormire tranquilli sugli allori, capendo che non era poi così necessario fare “la guerra alla vita reale”.

Questo passaggio però gettava le basi per una successiva evoluzione, che viene permessa oggi da una nuova svolta tecnologica. Quando i salotti (ma anche le altre stanze) hanno cominciato a popolarsi di nuovi schermi del tutto indipendenti dalla programmazione dei broadcasters (smartphone, notebook, ma sempre più ormai tablet) fu chiaro che queste nuove interazioni iniziavano a sottrarre eyeball e quindi attenzione “vendibile” e quindi – in potenza – raccolta pubblicitaria alla televisione tradizionale. La cosa più grave era che le giovani generazioni utilizzavano questo secondo schermo magari proprio per commentare in tempo reale la propria trasmissione preferita. In sostanza, il broadcaster tornava ad essere un aggregatore sociale, ma stavolta svincolato dalla posizione fisica degli utenti. Col problema di alimentare l’attenzione (e quindi il business) di altre piattaforme, senza ricavarne un euro per sè. Dalla “guerra alla vita reale” la prospettiva della TV lineare divenne quella di una sanguinosa “guerra agli altri schermi”.

Ed è proprio di queste dinamiche si è parlato a “The Future od Digital Media Distribution”, l’evento annuale di Screen Digest (tra i principali infoprovider internazionali che rilevano e studiano i dati di audience) al quale sono stato invitato qualche giorno fa a Londra. La questione centrale del dibattito è stata: cosa succede a chi vende non solo pubblicità ma anche contenuti (la Pay per View) in un luogo in cui la disponibilità ad acquistare contenuti vale solo se si “compra”, nuovamente, una esperienza autosaturante (il film, la partita di calcio, insomma “storie” che richiedono ancora una attenzione costante)?

Nessuno dei componenti del pur qualificato panel ha saputo rispondere a questa difficilissima domanda. E questo è un bel passo in avanti, rispetto ai troppi convegni e seminari nostrani in cui si avvicendano persone che parlano come se avessero la soluzione in tasca. Su una cosa, però, siamo stati d’accordo: c’è del valore nel riassegnare al televisore un ruolo di riaggregazione, quel ruolo che fino a poco fa veniva considerato estinto a causa della fruizione asincrona. Per i broadcaster si tratta di “non avere paura” di quel secondo schermo e di quello che può accaderci dentro, abilitando forme di interazione “proprie” che restituiscano valore per l’utente da un lato e per l’inserzionista dall’altro. Qui potete assistere al video della tavola rotonda, con una avvertenza: in uno dei miei interventi c’è anche (al min. 23) una battuta preventiva mirante a schivare in anticipo il consueto lazzo di scherno e dileggio sull’Italia di oggi, sempre in agguato quando si parla lontano dai patri lidi

Stili

Al di là delle conseguenze più immediate del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti, negli ultimi giorni in parecchi si sono spesi per descrivere il cambiamento del modo di comunicare riscontrabile nel nuovo Governo. In particolare, sono stato colpito dall’analisi molto acuta di Giovanni Boccia Artieri, che nella sua rubrica per Apogeo (sul cui nomeavrei qualcosa da dire :)) sottolinea l’adozione di una “strategia del silenzio” e dell’antidivismo che permetterebbe al nuovo esecutivo di conservare un consenso diffuso nonostante le misure impopolari che il Paese dovrà affontare.

A questo proposito avrei un paio di considerazioni da fare. Sulla scelta del “silenzio”, distinguerei i mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, radio) dai mezzi di comunicazione istituzionale (le dirette dal parlamento, le conferenze stampa, le apparizioni in occasioni pubbliche). La mia sensazione è che l’apparente rinuncia al controllo delle “uscite” sui primi, che Berlusconi come sappiamo aveva gioco facile a presidiare, non sia altro che l’ovvio contraltare di un consapevole e assiduo uso dei secondi.

Il punto è che qualcuno sembra essersi finalmente accorto che da qualche tempo gli strumenti “non mediati”, una volta riservati agli addetti ai lavori (le sedute a della Camera, la conferenza stampa, i convegni e i seminari) sono finalmente – grazie al web, o banalmente, alla moltiplicazione dei canali digitali (si pensi al canale eventi di SkyTG24) – alla portata di un pubblico sempre più ampio. Un pubblico sempre meno di nicchia che, come Boccia Artieri ha sottolineato, commenta e ricondivide in tempo reale, ampliandone ulteriormente l’effetto prima che passi dal tritacarne dei “commentatori politici” che dovrebbero orientare opinioni e consenso.

In prima battuta, dunque, arrivano i canali istituzionali, diretti e immediati e ricondivisi dagli utenti, che li commentano in tempo reale, certificando un sentiment che non risente dell’onda lunga dei talk show serali o dei “pastoni” politici del giorno dopo. Questo i giornali sembrano non averlo ancora capito, tant’è che ormai perdono più tempo a farsi la rassegna stampa incrociata tra loro che a capire davvero cosa stia succedendo nell’opinione pubblica.

Poi c’è il tema dello stile e dell’antidivismo. Io credo che Berlusconi, a un livello superficiale – quello che ha sempre ispirato la gestione della sua immagine pubblica, nella convinzione che gli elettori ragionassero (sono parole sue) come un bambino di quattro anni – fosse effettivamente ossessionato dalla necessità di dominare la scena sempre e comunque, a qualsiasi costo, compreso il rischio di clamorose gaffes che peraltro spesso altro non erano che ballons d’essai per testare la reazione del pubblico e degli interlocutori politici. Tutto questo, con Monti, dovrebbe essere ormai alle nostre spalle, dato che il primissimo scrupolo del suo Governo dovrebbe essere quello di recuperare la credibilità internazionale verso il nostro Paese.

Ma non traiamone conclusioni affrettate. La politica ha sempre giocato, e sempre giocherà, anche su precise leve emotive. Per questo avrà sempre i suoi divi. Elsa Fornero, a prescindere dal grado di spontaneità della sua reazione, pare averlo capito benissimo, e oggi gioca con straordinaria maestria il ruolo di “persona consapevole dei problemi e delle responsabilità”, fino a scendere nel midollo delle nostre speranze e delle nostre paure. E ne è anche una rappresentazione plastica, con le sue rughe che sono al contempo simbolo ostentato di lavoro, esperienza e conoscenza delle spine della vita. Quelle che tutti noi, sembra quasi volerci implicitamente dire, dovremmo tirar fuori senza vergogna nel momento del bisogno, e cioè oggi, ai tempi del “blood, sweat and tears”. Si potrà discutere a lungo se poi a pagare saranno in equa misura “i soliti noti”, ma va detto che questo “standing” della signora Elsa pare essere infinitamente più potente sia dei grafici e delle tabelle di Giarda che delle ormai leggendarie lavagne a fogli mobili dove Berlusconi vergava i suoi immaginifici “contratti con gli italiani”.

E il messaggio è ancora più potente se pensiamo ai volti lisci e levigati di chi, ricoprendo le responsabilità”delle pari opportunità” o “dell’ambiente” sembravano occupare la scena pubblica col preciso scopo di rappresentare fisicamente la soluzione del problema, piuttosto che il processo necessario per affrontarne le difficoltà.

Per rimanere in tema di ministri donna, il contrasto è davvero stridente tra personaggi come Maria Stella Gelmini e Anna Maria Cancellieri. Quando vidi per la prima volta l’ex ministro dell’Istruzione pensai subito che qualcuno avesse deciso che gli italiani non abbiano la minima idea sul ruolo di un ministro. Pensai davvero, come ci suggerisce Caterina Guzzanti, che dovesse interpretare nel nostro immaginario una sorta di super maestrina ideale, dotata di una specie di buonsenso al quadrato che avrebbe permesso di farci digerire i tagli alla scuola. La Cancellieri, agli Interni, è l’esatto contrario: non solo un “tecnico” che da anni si scontra coi problemi della pubblica sicurezza, ma anche l’immagine plastica del caterpillar cui si ispirano molti dirigenti pubblici in carriera, nella (ahimè) giusta convinzione che prima della giustezza delle idee è il timore del brutto quarto d’ora che passerai se ti metti di traverso a farti avanzare sulla strada del vertici del potere. Per gli italiani, indubbiamente, una immagine rassicurante, ma non esattamente un concetto moderno di leadership pubblica.

Chiudo con una nota sui comportameni e sui linguaggi. E’ indubbio che dal punto di vista oratorio Monti non sia esattamente un trascinatore. Però in queste sue prime apparizioni da premier ha dato prova di un sapiente uso delle pause. Pause che non servono tanto a creare tensione (e in questo il maestro era Craxi) ma proprio per dare la sensazione di qualcuno che non recita un copione. Che – mi rendo conto dello shock – sembrebbe addirittura pensare prima di aprire bocca. E mostrare quindi un minimo di rispetto per l’interlocutore, nel senso di prendersi un attimo per trovare le parole giuste per lui, in una sorta di riedizione politica del “marketing to one”. Ma non solo: riguardatevi la sua reazione rispetto all’ennesima indegna gazzarra dei parlamentari leghisti. Quello del premier è uno sguardo incredulo, di chi sembra sceso da un altro pianeta. Di chi, soprattutto, non prova a gabellarti per “obbligo democratico” il fatto di rispondere a tono, scendendo così sullo stesso piano di chi utilizza quella tribuna per manifestare il massimo spregio verso le nostre istituzioni. E’ la Lega che – da questo confronto mediatico – esce miseramente smascherata e incastonata negli anni ‘90, quelli in cui ci si poteva permettere di inscenare teatrini perchè la conquista delle ribalte, il superamento di quella famosa linea rossa della visibilità era l’unico vero problema sentito dalla politica, visto che la crisi non la vedeva ancora nessuno.

Un segnale definitivo di cambiamento sarà quando i nostri leader non si sentiranno in diritto di chiamare l’ANSA per una dichiarazione di smentita, ciò che negli ultimi vent’anni ha significato per tutti, persino per la smaliziatissima stampa mainstream, che la verità era appunto ciò che si intendeva smentire. Ricordate? eravamo arrivati a un punto in cui se un esponente dle Governo dichiarava ufficialmente “Non esiste alcun rischio di [elemento negativo a piacere]” significava che era davvero arrivato il momento di preoccuparsi.

Non so cosa ci riserveranno i prossimi mesi, ma spero tanto che dietro a questo cambiamento di stile, molto più consapevole di quello che sembra,  vi sia anche la capacità – dopo aver ripristinato un corretto rapporto con la scena pubblica –  di tornare ad occuparsi della cosa pubblica.

Cosa ci fa uno schermo in un salotto?

Il ruolo dei dispositivi connessi alla rete (flatscreen, smartphone, tablet) nella living room, da sempre regno incontrastato dell’intrattenimento domestico, è stato l’oggetto del mio intervento alla Social Media Week che si è appena conclusa a Milano. Qui potete vedere il relativo Prezi – che si conferma strumento insostituibile quando si vuole far sembrare importanti cose banali  🙂  – e qui il video dell’intero dibattito, intitolato “Narrazioni Convergenti”, moderato da Paola Liberace e nel corso del quale si è parlato soprattutto di Social TV, di Serial TV e del “caso” Lost, oggetto di un recentissimo libro di Romana Andò.

Uno degli aspetti più interessanti della discussione è stato l’emergere di un valore sociale del contenuto in rete che è legato intimamente al potere della narrazione, e che prescinde del tutto dalle piattaforme e dalle modalità di fruzione – proprio come è accaduto con Lost. Come ha sottolineato anche Alberto Marinelli, è il segnale che nella corsa alla valorizzazione degli aspetti sociali nei media non bisogna sopravvalutare l’aspetto tecnologico rispetto a quello dei mutati comportamenti della net-generation, che decide spesso da sola cosa fare sia degli strumenti sia dei contenuti, fino a sostituirsi al ruolo dei produttori e degli aggregatori nella stessa “costruzione di senso” attorno all’oggetto multimediale. Per un resoconto più dettagliato della giornata potete vedere qui.