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Roma, il buio oltre la metro

metroroma2013Questo weekend sono venuti a trovarci a Roma degli amici fiorentini. Colti da un diluvio in centro, abbiamo deciso di percorrere un tratto di questo gioioso sabato capitolino in metropolitana. Era la scelta più intelligente, sia per non bagnarsi, sia per evitare di rimanere imbottigliati. Al momento dei saluti, uno di loro mi ha colpito per due giudizi drammaticamente veri sulla nostra città. Da un lato le consuete lodi sperticate per le bellezze artistiche: in questo caso l’aspetto drammatico è che ormai, invece di inorgoglirci, allarghiamo le braccia come a scusarci del fatto che siano così scarsamente curate, fruibili o anche solo raggiungibili.  Dall’altro lato, un giudizio sulla metropolitana: non “scadente”, “malfunzionante” o “degradata”. Ma “buia”. Sì, proprio “buia” rispetto alle analoghe infrastrutture di Londra, Parigi, Berlino, Madrid, che possono contare su una rete infinitamente più ampia e capillare. Forse noi che ci abitiamo, che la usiamo tutti i giorni, questa oscurità finiamo per darla per scontata, come se la metro fosse qualcosa da nascondere, una sorta di “male necessario”, quasi una catacomba moderna. O forse c’è qualcosa di più?

Lo sappiamo bene: il servizio di trasporto pubblico a Roma non è solo insufficiente, ma è persino indegno di una grande capitale: In particolare, di una metropoli che gioca sulla fruibilità del suo patrimonio culturale la sua unica possibilità di trovare una proposizione di valore durevole e sostenibile, dopo aver perso la scommessa industriale prima e dei servizi poi. Ma attenzione all’equivoco in agguato: questo non significa che il servizio in sé  sia inutile. In molti casi, in base agli orari e alle zone di partenza e di arrivo, persino la sgangheratissima rete Metrebus può risultare competitiva col mezzo privato, specialmente quando le zone in questione sono collegate da una o più linee su ferro.

Prendiamo la tratta Balduina-Trastevere: in quasi tutti gli orari (con l’eccezione delle sere dei giorni feriali) per arrivare in tempi certi a destinazione conviene prendere il treno metropolitano della FR3 (da Balduina a Trastevere), con frequenze di 12 minuti, e poi il Tram 8. Eppure vediamo pochissime persone salire a bordo dei treni FR, che continuano ad essere frequentati soprattutto da pendolari. E lo stesso può dirsi, anche se in misura minore, per la buia metropolitana e i tram, che rimangono il regno di turisti, extracomunitari e studenti squattrinati. In sintesi: il mezzo pubblico si prende perché non si ha la macchina. E anche lo scooter – coi suoi vantaggi e svantaggi – è largamente preferito, specie lontano dai mesi invernali.
Dopo molti anni in cui risiedo a Roma, sono giunto alla conclusione che una buona parte dei “mancati passeggeri” non ha molto a che vedere con la scarsa qualità del servizio, ma vada imputata piuttosto alla sua comune percezione come “luogo buio”, e quindi – sostanzialmente – una cosa da sfigati.  Il ciclo è semplice: il servizio è pessimo (per quanto a volte concorrenziale), le vetture e le stazioni indecorose, la gente pensa che è una cosa da sfigati, l’ATAC e Trenitalia hanno un infallibile alibi per farlo funzionare sempre peggio, quando non per trasformarlo in un by-product (per le ferrovie, tutte prese ad investire nelle “Frecce” a lunga percorrenza) o un addirittura un side-business (per l’ATAC, e qui ci viene in soccorso la cronaca giudiziaria degli ultimi mesi).

Nel frattempo, nessuna campagna di comunicazione istituzionale ha mai nemmeno provato a colmare il gap tra percezione comune e percezione desiderata. Si tratterebbe di illuminare (fisicamente, ma anche metaforicamente) la parte competitiva della rete di trasporto pubblico, e cioè la rete su ferro. Malfunzionante, insufficiente quanto vogliamo, ma – come mostra la mappa qui sopra – tutt’altro che irrilevante, coprendo quasi tutte le aree strategiche della città con mezzi che viaggiano su sede propria, quindi indipendenti dal traffico delle auto. Essa comprende:

  • le due linee della metropolitana A e B, che collegano quattro periferie popolose (Il Tiburtino, Montesacro, il Tuscolano e Primavalle) col centro rinascimentale, il centro archeologico e l’EUR – cioè il principale polo direzionale.
  • le tre ferrovie concesse, che collegano le principali stazioni a tre borgate popolosissime (Ostia, Giardinetti e Prima Porta)
  •  le otto linee FR, di cui almeno due (la FR1 Fiumicino-Fara Sabina e la FR3 Cesano-Ostiense) con frequenze da servizio urbano, cioè di 12-15 minuti
  • la rete tranviaria, che ha ripreso faticosamente a crescere negli ultimi 20 anni dopo un lungo letargo, tornando a 6 linee per una estensione totale di 42 chilometri, quasi tutti su sede propria.

Si tratta di ciò che rimane, al netto dei troppi ridimensionamenti in corso d’opera, della famosa “cura del ferro” introdotta da Walter Tocci negli anni della Giunta Rutelli. Una iniziativa che mirò a sfruttare al massimo i binari esistenti attraverso l’integrazione dei servizi, che divennero fruibili con un solo biglietto urbano nel territorio del comune, cambiando le abitudini di centinaia di migliaia di cittadini.

Oggi come allora, si tratta anzitutto di indurre un nuovo “cambiamento di abitudini”.  Roma è una città dove i comportamenti collettivi sono spesso legati a una sorta di “sentire comune”, e basta davvero poco per invertire la tendenza. Senza scomodare i cicli di pubblico allo Stadio (metà classifica = stadio vuoto, alta classifica = immediato pienone anche quando si affronta una provinciale), vengono in mente fenomeni di più ampio respiro.

Nel bel mezzo dei molto bui anni di piombo, fu sufficiente animare le piazze con attività di cultura e intrattenimento per sconfiggere la paura della notte, come accadde con l’Estate Romana inventata da Renato Nicolini.  Più di recente, bastò costruire una singola pista di pattinaggio su ghiaccio (a Mentana!) per vedere l’intera città letteralmente costellata, nel giro di pochi anni, da decine di piste coperte e scoperte, per il sollazzo di grandi e piccoli. Infine, ci volle l’inaugurazione dell “Case” (una decina di immobili sottoutilizzati e ridestinati dal Comune ad attività culturali negli ultimi anni), per riempire nuovamente il calendario di numerosi piccoli e grandi eventi dedicati al cinema, alla musica, al teatro, ai libri. Spesso con meriti persino maggiori rispetto ai grandi luoghi deputati alla  produzione e all’aggregazione della cultura, come  il MAXXI, il Macro e l’Auditorium.

Non si vede perché alla regola del “punto critico”, per dirla alla Malcolm Gladwell, debba fare eccezione l’abitudine al trasporto pubblico. puntocriticoSono convinto che anche prima del pur necessario salto di qualità dell’offerta, sarebbe sufficiente una maggiore attenzione al funzionamento e al decoro dell’esistente per aumentare i “passeggeri paganti”  (perché c’è anche un notevole problema di evasione da risolvere). Si creerebbero forse così le condizioni – in un secondo momento – per una crescita strutturale dell’offerta complessiva, che per quanto mi riguarda potrebbe tranquillamente ricalcare il Piano Sciarra di recente pubblicazione: Linea C, chiusura dell’anello ferroviario, aumento delle frequenze su tutte le linee FR, nuove linee tranviarie su alcune tratte chiave.

Non ho la pretesa che i responsabili della comunicazione delle nostre aziende municipalizzate, sicuramente distratte da ben più gravi avvenimenti, mi stiano leggendo. Ma credo che sottolineare la competitività del trasporto pubblico su alcune direttrici essenziali e rendere più attraente quello che c’è, piuttosto che fantasticare di Metro D, E ed F, sia davvero, in questo momento, la tessera chiave del puzzle. Il resto, ovviamente, richiede investimenti e volontà politica, ma rinunciare all'”investimento emotivo” nel cambiamento da parte dei cittadini sarebbe a mio parere un errore imperdonabile. Per provare ad avere nei romani, per una volta, degli alleati, e non un popolo di eterni disillusi, al ritornello di “tanto non potrà cambiare mai niente”.

Stili

Al di là delle conseguenze più immediate del passaggio di consegne da Berlusconi a Monti, negli ultimi giorni in parecchi si sono spesi per descrivere il cambiamento del modo di comunicare riscontrabile nel nuovo Governo. In particolare, sono stato colpito dall’analisi molto acuta di Giovanni Boccia Artieri, che nella sua rubrica per Apogeo (sul cui nomeavrei qualcosa da dire :)) sottolinea l’adozione di una “strategia del silenzio” e dell’antidivismo che permetterebbe al nuovo esecutivo di conservare un consenso diffuso nonostante le misure impopolari che il Paese dovrà affontare.

A questo proposito avrei un paio di considerazioni da fare. Sulla scelta del “silenzio”, distinguerei i mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, radio) dai mezzi di comunicazione istituzionale (le dirette dal parlamento, le conferenze stampa, le apparizioni in occasioni pubbliche). La mia sensazione è che l’apparente rinuncia al controllo delle “uscite” sui primi, che Berlusconi come sappiamo aveva gioco facile a presidiare, non sia altro che l’ovvio contraltare di un consapevole e assiduo uso dei secondi.

Il punto è che qualcuno sembra essersi finalmente accorto che da qualche tempo gli strumenti “non mediati”, una volta riservati agli addetti ai lavori (le sedute a della Camera, la conferenza stampa, i convegni e i seminari) sono finalmente – grazie al web, o banalmente, alla moltiplicazione dei canali digitali (si pensi al canale eventi di SkyTG24) – alla portata di un pubblico sempre più ampio. Un pubblico sempre meno di nicchia che, come Boccia Artieri ha sottolineato, commenta e ricondivide in tempo reale, ampliandone ulteriormente l’effetto prima che passi dal tritacarne dei “commentatori politici” che dovrebbero orientare opinioni e consenso.

In prima battuta, dunque, arrivano i canali istituzionali, diretti e immediati e ricondivisi dagli utenti, che li commentano in tempo reale, certificando un sentiment che non risente dell’onda lunga dei talk show serali o dei “pastoni” politici del giorno dopo. Questo i giornali sembrano non averlo ancora capito, tant’è che ormai perdono più tempo a farsi la rassegna stampa incrociata tra loro che a capire davvero cosa stia succedendo nell’opinione pubblica.

Poi c’è il tema dello stile e dell’antidivismo. Io credo che Berlusconi, a un livello superficiale – quello che ha sempre ispirato la gestione della sua immagine pubblica, nella convinzione che gli elettori ragionassero (sono parole sue) come un bambino di quattro anni – fosse effettivamente ossessionato dalla necessità di dominare la scena sempre e comunque, a qualsiasi costo, compreso il rischio di clamorose gaffes che peraltro spesso altro non erano che ballons d’essai per testare la reazione del pubblico e degli interlocutori politici. Tutto questo, con Monti, dovrebbe essere ormai alle nostre spalle, dato che il primissimo scrupolo del suo Governo dovrebbe essere quello di recuperare la credibilità internazionale verso il nostro Paese.

Ma non traiamone conclusioni affrettate. La politica ha sempre giocato, e sempre giocherà, anche su precise leve emotive. Per questo avrà sempre i suoi divi. Elsa Fornero, a prescindere dal grado di spontaneità della sua reazione, pare averlo capito benissimo, e oggi gioca con straordinaria maestria il ruolo di “persona consapevole dei problemi e delle responsabilità”, fino a scendere nel midollo delle nostre speranze e delle nostre paure. E ne è anche una rappresentazione plastica, con le sue rughe che sono al contempo simbolo ostentato di lavoro, esperienza e conoscenza delle spine della vita. Quelle che tutti noi, sembra quasi volerci implicitamente dire, dovremmo tirar fuori senza vergogna nel momento del bisogno, e cioè oggi, ai tempi del “blood, sweat and tears”. Si potrà discutere a lungo se poi a pagare saranno in equa misura “i soliti noti”, ma va detto che questo “standing” della signora Elsa pare essere infinitamente più potente sia dei grafici e delle tabelle di Giarda che delle ormai leggendarie lavagne a fogli mobili dove Berlusconi vergava i suoi immaginifici “contratti con gli italiani”.

E il messaggio è ancora più potente se pensiamo ai volti lisci e levigati di chi, ricoprendo le responsabilità”delle pari opportunità” o “dell’ambiente” sembravano occupare la scena pubblica col preciso scopo di rappresentare fisicamente la soluzione del problema, piuttosto che il processo necessario per affrontarne le difficoltà.

Per rimanere in tema di ministri donna, il contrasto è davvero stridente tra personaggi come Maria Stella Gelmini e Anna Maria Cancellieri. Quando vidi per la prima volta l’ex ministro dell’Istruzione pensai subito che qualcuno avesse deciso che gli italiani non abbiano la minima idea sul ruolo di un ministro. Pensai davvero, come ci suggerisce Caterina Guzzanti, che dovesse interpretare nel nostro immaginario una sorta di super maestrina ideale, dotata di una specie di buonsenso al quadrato che avrebbe permesso di farci digerire i tagli alla scuola. La Cancellieri, agli Interni, è l’esatto contrario: non solo un “tecnico” che da anni si scontra coi problemi della pubblica sicurezza, ma anche l’immagine plastica del caterpillar cui si ispirano molti dirigenti pubblici in carriera, nella (ahimè) giusta convinzione che prima della giustezza delle idee è il timore del brutto quarto d’ora che passerai se ti metti di traverso a farti avanzare sulla strada del vertici del potere. Per gli italiani, indubbiamente, una immagine rassicurante, ma non esattamente un concetto moderno di leadership pubblica.

Chiudo con una nota sui comportameni e sui linguaggi. E’ indubbio che dal punto di vista oratorio Monti non sia esattamente un trascinatore. Però in queste sue prime apparizioni da premier ha dato prova di un sapiente uso delle pause. Pause che non servono tanto a creare tensione (e in questo il maestro era Craxi) ma proprio per dare la sensazione di qualcuno che non recita un copione. Che – mi rendo conto dello shock – sembrebbe addirittura pensare prima di aprire bocca. E mostrare quindi un minimo di rispetto per l’interlocutore, nel senso di prendersi un attimo per trovare le parole giuste per lui, in una sorta di riedizione politica del “marketing to one”. Ma non solo: riguardatevi la sua reazione rispetto all’ennesima indegna gazzarra dei parlamentari leghisti. Quello del premier è uno sguardo incredulo, di chi sembra sceso da un altro pianeta. Di chi, soprattutto, non prova a gabellarti per “obbligo democratico” il fatto di rispondere a tono, scendendo così sullo stesso piano di chi utilizza quella tribuna per manifestare il massimo spregio verso le nostre istituzioni. E’ la Lega che – da questo confronto mediatico – esce miseramente smascherata e incastonata negli anni ‘90, quelli in cui ci si poteva permettere di inscenare teatrini perchè la conquista delle ribalte, il superamento di quella famosa linea rossa della visibilità era l’unico vero problema sentito dalla politica, visto che la crisi non la vedeva ancora nessuno.

Un segnale definitivo di cambiamento sarà quando i nostri leader non si sentiranno in diritto di chiamare l’ANSA per una dichiarazione di smentita, ciò che negli ultimi vent’anni ha significato per tutti, persino per la smaliziatissima stampa mainstream, che la verità era appunto ciò che si intendeva smentire. Ricordate? eravamo arrivati a un punto in cui se un esponente dle Governo dichiarava ufficialmente “Non esiste alcun rischio di [elemento negativo a piacere]” significava che era davvero arrivato il momento di preoccuparsi.

Non so cosa ci riserveranno i prossimi mesi, ma spero tanto che dietro a questo cambiamento di stile, molto più consapevole di quello che sembra,  vi sia anche la capacità – dopo aver ripristinato un corretto rapporto con la scena pubblica –  di tornare ad occuparsi della cosa pubblica.

Gli ultimi vagiti delle PR “blindate”

Per anni, e ancora in questi giorni, è stato affermato il principio, validissimo da vendere internamente a una azienda, secondo cui in tempi di crisi occorre investire di più in attività di pubbliche relazioni. E infatti, come conferma un bell’articolo del Guardian, una delle mie sorgenti preferite di informazioni sui trend della comunicazione corporate, la spesa in P.R. sta crescendo.

Il punto è che questo principio è valido se è valido l’assunto per il quale lo scopo principale delle Pubbliche Relazioni è quello di proiettare una immagine aziendale che, una volta percepita dai vari interlocutori (stampa, comunità finanziaria, decisori, e – quasi sempre per ultimi – i clienti) avrebbe il potere di tutelare il business da una parte dei danni derivanti dalla crisi. Il che ovviamente funziona se i messaggi sono unici e coerenti dal vertice fino ai vari terminali, con la figura del Corporate Communication Manager che ha il preciso incarico di blindare questo percorso da qualsiasi interferenza, per esempio da qualsiasi messa in discussione di tali messaggi.Ma cosa succede se, nel nuovo universo new-mediale i messaggi aziendali, viaggiando liberamente in rete, e spesso fuori dai siti Web aziendali, sono continuamente oggetto di una messa in discussione? E quando questa discussione si svolge in contesti in cui i messaggi degli interlocutori hanno – gratis – la stessa visibilità di ciò che una volta era alla portata delle sole Aziende, che prima erano le uniche a poterla ottenere grazie a ingenti investimenti? Bene, l’esperienza recente ci insegna che, in questo caso:

  1. cambia la natura stessa dei messaggi, nel senso che non possono più pretendere di essere assiomatici, e devono essere argomentabili per essere credibili
  2. in questa chiave le leve razionali funzionano meglio di quelle emotive (che non sono vietate, ma vanno meno d’accordo con la trasparenza)
  3. i messaggi non sono più “istituzionali”, cioè riconducibili al vertice aziendale (e, di conseguenza al brand, col quale – come noto – non si conversa), ma…
  4. “personali”, cioè propri delle figure aziendali con cui gli interlocutori entrano in conversazione, il che comporta…
  5. …che l’Azienda decida con quali figure aziendali, alternative all’antica figura della “spokesperson”, gli interlocutori entreranno in contatto per svolgere questa vera e propria conversazione
  6. che è inutile inventarsi, con le vecchie logiche blindate e poco trasparenti, un “volto buono“, anch’esso destinato a rimanere al di fuori da questa conversazione (vedi alle voci “Bilancio Sociale”, “Corporate Social Responsibility”, ecc., almeno per come sono state attuate fino ad ora).

In sostanza, si profila un futuro in cui le varie funzioni aziendali, con nome e cognome, dovranno diventare comunicatori aziendali per la parte di propria competenza: il Product Manager per la comunicazione di prodotto, il Responsabile HR per la comunicazione ai dipendenti, e così via. Questo significa, fondamentalmente, che l’azienda sarà costretta ad essere trasparente, altrimenti i suoi messaggi, o meglio quelli declinati dalle sue persone, avranno in rete un valore inferiore allo zero. Anche perchè una bugia o una omissione non si può improvvisare: nel vecchio mondo l’Azienda poteva sedersi intorno a un tavolo per una settimana e studiare una grande bugia da comunicare, blindata e indiscutibile, attraverso tutti i propri terminali. Nel nuovo mondo l’unico modo per essere “aziendalmente coerenti”, e quindi credibili, è dire la verità, che – notoriamente – è una sola.

Per fare questo ogni persona in azienda investita di questo ruolo di front-end dovrà avere ben chiari (e blindati) non tanto i messaggi, quanto le policy, ovvero le modalità – chiamiamole pure “regole di ingaggio” – con cui conversare coi vari stakeholder. E soprattutto dovrà essere chiaro cosa costituisce un “fatto aziendale” (cioè un dato incontrovertibile) e una “opinione personale“. Distinzione nel fissare la quale da un secolo fa fatica la stampa, figuriamoci quanto faticosa potrà essere questa operazione in Azienda.

In questa prospettiva, per rispondere finalmente alla domanda iniziale, se tutte le Aziende faranno a gara a colpi di credibilità, cosa accadrà in tempi di crisi ai budget di PR? Finalmente, e giustamente, scenderanno come tutti gli altri budget. Se avranno ancora una ragione di esistere, naturalmente.

[via Geneva Communicators Blog]