Archivi del mese: giugno 2013

wiMAN, la disintermediazione che funziona

Se avete una grande idea per fare un sacco di soldi, fate un pitch. Se non avete ancora l’idea, partite da un’esigenza, da una mancanza, da qualche intermediario inutile. E disintermediatelo, con una app o con un servizio sul Web.

L’Italia pullula di inutili intermediatori. Soggetti che trattengono il valore, che si frappongono tra utente e servizio, facendo pagare quello che a volte, in tutto o in parte, il Web può fare gratis e in un attimo. Dico “a volte e in parte”, perché quasi sempre i servizi “premium” non possono essere disintermediati con una semplice Web App. Pensiamo alla segreteria organizzativa: nessuno crede che Smappo possa sostituirsi all’organizzazione degli inviti per il World Economic Forum. Ma per molti altri eventi sì. Il punto è che fino a qualche anno fa un’agenzia di servizi paceva pagare la segreteria organizzativa sia per il World Economic Forum sia per un raduno di amanti della fotografia analogica, per dire.

Molto spesso, quindi, per un giovane imprenditore della rete, si tratta di intuire prima degli altri cosa può essere disintermediato e cosa no, e di costruirci sopra un modello che generi valore remunerato per tutte le parti in causa.

Per riuscirci, l’innovazione tecnologica è forse l’aspetto meno importante. Prendiamo wiMAN, una delle startup selezionate da Working Capital e arrivata tra le prime 16 finaliste a LeWeb. E’ un servizio di una semplicità unica. Si rivolge ai gestori di attività aperte al pubblico, proponendo loro la possibilità di creare un hot-spot wifi libero per i propri clienti, di facilissima e immediata attivazione, che determina automaticamente una pubblicità dell’attività commerciale sui social media.

L’esercente attiva il servizio in un baleno installando il kit (fondamentalmente un router da 79 euro), il cliente è attivo all’istante grazie a Facebook Connect, e a ogni connessione viene generato un post sul Facebook Account della persona collegata che promuove sia l’attività commerciale che lo stesso servizio wiMAN, rendendolo virale.

Vantaggi per tutti, oneri per nessuno. Il “disintermediato principale” è la burocrazia che richiede – stante l’incertezza normativa persistente – ancora una serie di passaggi, legati all’identità, per permettere l’accesso a internet su un hotspot free.

Dei due inventori pugliesi di questa trovata geniale, Massimo Ciuffreda e Michele di Mauro, ha già parlato diffusamente il Corriere della Sera, in un articolo che vi invito a leggere anche se risale allo scorso anno.

Di davvero nuovo, da qualche giorno, c’è la partnership di wiMAN con Telecom Italia per la sperimentazione del servizio TIMWifi, che offre accesso libero wireless in tutti i negozi sociali TIM. Un indizio non trascurabile che Working Capital si sta trasformando in una vera e propria fabbrica di servizi “su strada” in grado di accelerare non solo le startup ma anche il time to market interno. Quando arrivano segnali forti da chi mi paga lo stipendio è giusto segnalarlo anche in un luogo “laico” come questo, credo.

I nuovi narcisi e i danni della broadcastiquette

L’esistenza di un luogo dove tutti possono pubblicare tutto ha tante conseguenze. Uno degli effetti più controversi riguarda il rapporto con la nostra immagine e più in generale la pubblicità della nostra vita personale. La prima domanda che mi viene in mente è: quando pubblichiamo le cose più banali della nostra vita quotidiana, dobbiamo davvero preoccuparci se interessino o meno a qualcuno?

Ci pensavo l’altro giorno guardando questo video, invero molto divertente, che prende in giro il tipico “Instagram Heavy Sharer”: compulsivo fino al narcisismo e forse prigioniero di un proprio showbiz del tutto illusorio, alimentato dalle code di “like” del proprio target di riferimento.  Se il video è così divertente è perché nella sua ratio c’è un fondo di verità: su instagram, come su facebook o su twitter, esiste una quota fisiologica di nascisismo con cui noi per primi, ma anche chi ci segue, deve fare i conti.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Di chi è il vero problema? Nostro, perché siamo narcisi e dovremmo invece rientrare nei ranghi in base a qualche superiore principio di decenza collettiva o di chi non sa selezionare i contenuti di proprio interesse sulla rete, e continua quindi ad imbattersi nella nostra faccia? La domanda è legittima, specie se consideriamo che spesso chi si lamenta degli odiatissimi “autoscatti dei piedi” in realtà va in rete proprio perché troverà “autoscatti dei piedi” di cui poter lamentarsi. Il sospetto è quindi che anche le lamentele di chi fa un autoscatto siano sovente, a loro volta, una specie di autoscatto, che serve appunto a proiettare un altro tipo di “io, io, io”, quello che ripete implicitamente – ma altrettanto ossessivamente – la frase “io sono migliore di voi”.

Del resto, come per molte questioni che riguardano la Rete (gli insulti in Rete, le bufale in Rete, il porno in Rete e si potrebbe andare avanti a lungo), non esiste in realtà nessuna specifica versione “online” del narcisismo, anche se c’è una gran voglia di strumenti specifici per combatterlo. Esiste, come è sempre esistito, il narcisismo tout court, quello per intenderci dello struscio del sabato pomeriggio, così come sono sempre esistite le comari puntualmente alla finestra sullo stesso struscio dello stesso sabato pomeriggio.  Semplicemente, così come nei secoli abbiamo accettato l’idea di destinare una quota della nostra espressività alla comunicazione di noi stessi, oggi questo accade con strumenti più puntuali, che ci permettono di farlo compulsivamente, nei confronti dell’universo-mondo (e così ricorriamo al più molesto degli ego-casting, che infatti si rifà alle sempiterne regole del broadcasting), oppure in modo più mirato e consapevole. Per esempio, con l’idea di trasmettere senso – e quindi una precisa emozione – a degli interlocutori che conosciamo e che ci conoscono per come siamo, senza giudicarci. E fregandocene dolcemente di tutti gli altri – quelli che chi giudicheranno – perché sarà un problema loro, non nostro.

La questione è appena più complessa del pur condivisibile principio del “vivi e lascia vivere”. Intanto perché molto spesso, nel retrocranio di chi flagella la pubblicazione della “banalità del quotidiano”, compresa la banalità della nostra immagine, risiedono gli effetti di 50 anni di società dei media esercitata a titolo esclusivo da pochi per il consumo di tutti gli altri, per di più col vincolo di doverne fare un business.  Ma c’è un altro aspetto da non trascurare: se questi fustigatori avessero ragione, vorrebbe forse significare che dovremmo abbandonare del tutto la pubblicazione di contenuti personali, compresa la nostra immagine?  Magari per non urtare la suscettibilità dei depositari di una nuova “netiquette” che – come appena accennato – altro non è che il riflesso di una antichissima – e di dubbia efficacia sulla moralità pubblica – “broadcastiquette”? E infine: deve davvero passare il principio che pubblicare “cose nostre” abbia come unico scopo quello di attirare attenzione, essere immediatamente gratificati da un like, da una stellina, da un complimento? O qualcuno, magari una crescente minoranza, intende semplicemente esercitare una cosa troppo spesso dimenticata che si chiama “libertà d’espressione”, un diritto che forse riteniamo “tecnologicamente ormai acquisito” grazie al Web, quando in realtà basta una reazione neo-luddista, un riflesso condizionato dal passato, a rimetterlo in discussione?