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Tra Roma, Berlino e Viterbo alla ricerca di un respiro più lungo

berlin

Sono stati giorni un po’ convulsi, quelli delle ultime tre-quattro settimane. Come spesso accade in questo periodo dell’anno, con alle spalle un inverno segnato da una fitta sequenza di “cose da fare”, a volte senza troppo costrutto, ho sentito il bisogno di fermarmi a scambiare idee con quelle poche persone con cui ti capisci al volo per staccare un po’, soprattutto di testa.

Mi sono corse in aiuto le persone, ma anche i luoghi. Complice l’invito al Media Web Symposium di Berlino, ho raccontato agli amici del Fraunhofer le mie riflessioni su Tumblr, l’unica cosa di lungo respiro a cui ho potuto lavorare negli ultimi tempi, mettendo insieme nuovi dati e alcuni studi comportamentali sui trend d’uso dei social media.

L’ultima frase delle mie slide, peraltro, non ha alcuna base scientifica: sono io che spero di vedere nell’apparentemente inspiegabile sopravvivenza di Tumblr il possibile segnale di un riflusso. Credo che alcuni di noi inizino a cercare un buen retiro segnato da un più basso investimento cognitivo e un minor controllo sociale, con meno ostacoli alla libertà d’espressione e alla condivisione di emozioni nella loro forma più immediata. Senza, per intenderci, che le molte persone con cui abbiamo a che fare quotidianamente, online e offline, ne debbano trarre “significati” o peggio “conseguenze” secondo codici che peraltro sarebbero ancora tutti da scrivere, visto che quelli preesistenti non valgono più.

Il disagio verso i luoghi socialmente pesanti, dove ogni tuo comportamento viene letto, interpretato e giudicato da chi conosce non solo la tua identità, ma anche la tua storia vale anche, manco a dirlo, nel mondo reale. Per rimanere nella metafora di questi giorni, Roma è per me pesantissima, così come Berlino è straordinariamente leggera. Mi piacerebbe poter dire che ciò dipende da una condizione soggettiva (magari chi vive a Berlino da trent’anni potrebbe fare il ragionamento inverso), ma alcune cose mi dicono che c’è anche un problema di “predisposizione alla pesantezza”. Eternità, per intenderci, significa anche immobilità, e l’immobilità è il brodo ideale per il controllo sociale e la pretesa di una chiave di lettura universale dei comportamenti.

Forse l’unica cosa di cui non solo chi sfoglia foto su Tumblr, ma anche chi cammina per le nostre strade inizia a sentire il bisogno è liberarsi dal vincolo di necessarietà tipico di molti nostri paesaggi urbani. Ogni cosa che vediamo o sentiamo risponde a una necessità: l’insegna, il cartellone pubblicitario, il rumore del traffico, la musica nei negozi, la gran parte degli odori e dei profumi. Questi elementi non sono da respingere in quanto tali, anzi spesso è esattamente ciò che cerchiamo in una città. Ma quando sono loro a cercare pezzi della nostra vita, spesso per sfilarceli via, con la tendenza ad occupare tutto lo spazio disponibile dentro di noi, ecco che la città diventa insostenibile, ed è esattamente questo che Roma in questo frangente storico sta diventando: una somma di vincoli di necessarietà.

Se ho bisogno di un respiro più lungo, ho bisogno di spazio per farlo. E Berlino – coi suoi spazi ancora in cerca di una nuova identità, residui delle fratture del passato – mi corre in soccorso, come a volte provo a raccontare anche per immagini. Non so se Roma sia la mia Facebook, e Berlino la mia Tumblr, ma tutto sommato non importa, le metafore le lasciamo ai quotidiani manovali del significante. Ma con buona pace di Jep Gambardella, che mette tutto su un piano orizzontale (“le cose che voglio fare e le cose che non voglio fare”), l’esigenza di una prospettiva più ampia è la scoperta più importante dei miei ultimi scampoli di esistenza, da reinvestire in quelli venturi.

Prima di Berlino peraltro, grazie agli organizzatori di Medioera, delle lessons learned from Tumblr ho potuto parlare a Viterbo con persone ben più autorevoli e mentalmente libere di me come Mafe e Gallizio. Viterbo è forse l’unica provincia del Lazio che sta provando a legare il suo territorio a una “scatola delle idee”, che per ora prende la forma di un festival di cultura digitale ma che probabilmente potrebbe connotare molti altri momenti pubblici nel corso dell’anno. Ne varrebbe la pena anche anche se lo scopo fosse solo quello di far entrare nei grandi circuiti le tante cose belle e buone prodotte da questa terra, per non parlare della bellezza e dell’autenticità delle persone. Ne è venuta fuori una discussione a cavallo tra il freddo lavoro dell’analista e l’intimo rapporto che ognuno di noi ha col Web e le cose che ci stanno dentro. Sono sicuro che il nascente libro di Mafe sulla natura rivelatrice del reale di Internet aggiungerà molta carne al fuoco, su questo e su altri temi adiacenti.

So solo che da questo mese di parole, suoni e colori, come forse si sarà capito, mi rimarrà parecchio. Quindi sento di dover esprimere la mia riconoscenza a chi le ha dette, a chi li ha suonati, a chi li ha dipinti. Sperando di tornare presto sui luoghi del delitto.

Perché non esiste una libreria così?

L’altro giorno, a Marina di Pietrasanta, sono entrato nella storica libreria del corso principale. Anche se ormai questo vecchio negozio sembra la metafora dell’editoria in crisi, con tanti libri accatastati e mai comprati da chissà quando, è un luogo a cui sono affezionato, e dove mi rifugio quando sono assediato dalla tipica pressione sociale che subiamo nei giorni di festa, in cui dovremmo avere sempre un sorriso per tutti tranne che per noi stessi.

Scappo lì dentro perchè una libreria, ogni libreria, compie sempre e comunque un miracolo: quello di moltiplicare le possibilità di incontrare persone curiose, che “vogliono arrivare in fondo alle storie” e quindi anche solo per questo motivo ci somigliano.

Ero lì con mia figlia, che come al solito ha usato Fidel – il cane bassotto di casa – come chiavistello relazionale, facendo subito amicizia con una bella bambina che stazionava nell’angusta area destinata ai libri per ragazzi. Mi volto, un paio di sorrisi familiari e capisco subito che si trattava della nipotina di carissimi amici, anche loro appassionati di “storie”.

E così la stringente sequenza degli impegni pasquali ha lasciato un breve spiraglio al senso, alla curiosità, alle persone con cui abbiamo qualcosa a che fare, che puntualmente incontriamo dove ci sono le storie: vere, inventate, semiromanzate, rilette o riraccontate in mille modi diversi, fatte di testo, di fumetti, di immagini fisse o in movimento. Comunque: storie.

Penso per un attimo alle grandi librerie o meglio, ai grandi Mediastore che popolano le grandi città. Spazi da sempre all’inseguimento dell’avventore casuale, fungibile, al quale vendere il libro piazzato nella piramide dopo l’ingresso, quello che è su tutti i manifesti, che si trova in cima a tutte le classifiche. Come se fossimo tutti uguali, come se avessimo non tanto voglia di leggere una storia per noi, ma qualcosa che ci faccia alzare la manina e dire “l’ho letto anch’io” quando siamo in mezzo a un crocchio di persone che “normalmente non hanno tempo di leggere, e quindi”.

Che clamorosa occasione perduta, penso. Perché in realtà una libreria dovrebbe offrire dei percorsi. E un “percorso” naturalmente può essere qualcosa di perfettamente intimo e definito in piena libertà da un lettore con idee più o meno, volontariamente o involontariamente, chiare. Ma può anche un percorso guidato da chi le storie le conosce, come dovrebbero essere i commessi delle librerie. E persino un percorso pubblico, una pubblica strada tra le storie.

Io i commessi delle librerie, quelli col broncio perenne che vanno subito a testa bassa a spulciare nell’intoccabile “terminale”, per vedere se tale libro c’è o non c’è oppure “possiamo ordinarlo”  – e allora tanti saluti, per tutto il resto c’è Amazon – li manderei a un corso di “storie”. Per fare in modo che siano in grado di capire, in poche domande, o da poche domande, di cosa ha bisogno (o cosa vuole, che è un po’ diverso) chi entra in libreria.

Bisogno di farsi una passeggiata al coperto, ma in mezzo a delle suggestioni mentre fuori piove, di sfogliare un Taschen illustrato, di rimorchiare attraverso uno scaffale, magari guardando cosa sta sfogliando quella tipa lentigginosa che gli ricorda la maestra delle medie, di comprare ma anche di regalare a qualcuno al quale siamo legati da “dati” (fatti, luoghi, emozioni, aspettative) che nessun, nessun database di Amazon potrà mai conoscere. Almeno per ora, finché c’è tempo.

E allora mi chiedo: perché non esiste una libreria dove entro e ok, se voglio non succede nulla, mi faccio il solito giro, ho le mie idee, vedremo cosa deciderò. Ma anche: entro, seguo il tappetino rosso, mi siedo in una sala dove un tizio con la maglietta Mondadori, Feltrinelli, quello che è parla dietro un tavolo con accanto uno scrittore. E no, non è la solita presentazione dei libri, è proprio un happening continuo, dove a un certo punto il tizio con la maglietta dice “e veniamo ad Anselmo, che dalla sua app ci ha detto che vorrebbe un romanzo storico, ma ne sa poco e ci ha solo detto che non dovrebbe essere ambientato prima del 1789, ché non si ricorda le vicende precedenti”. E vai con le risate di gioioso imbarazzo del pubblico, che in parte si è seduto lì solo perché è una specie di Apostrophes in diretta, che dura tutto il giorno, e molti saranno venuti solo per sentire, altroché.

con Bernard Pivot (TDF)

“Apostrophes”, di Bernard Pivot (1981)

Inizia un breve dialogo tra “maglietta rossa” con accanto Gianluca Morozzi – ce lo vedo, Morozzi a fare l’happening – e il cliente che per un quarto d’ora diventa “la star” del pomeriggio. E alla fine dico, alla fine di questo momento che già ti ha riempito la giornata, insieme ai quarti d’ora di tutti gli altri, un libro, due libri, non li vorrai comprare?

E non vorrai fare amicizia con le altre persone sedute lì con te, ad aspettare il loro turno? Non vorrai proseguire la conversazione dopo, davanti a un tè, invece di continuare a lanciare occhiate alla tipa lentigginosa oltre lo scaffale, senza alcuna concreta speranza di sentire se parla calabrese o friulano o una lingua sconosciuta?

Editori: svegliatevi. Le vostre librerie, quelle che state chiudendo con un tratto di penna su una stampata di Excel, sono forse il vostro ultimo asset non duplicabile. Sono gli ultimi luoghi in cui “possono succedere delle cose” tra quel pubblico che ancora vi si fila: i curiosi. E allora costruite qualcosa intorno a loro. Altrimenti hai voglia a comprarne, di Anobii. Hai voglia a presentazioni con gli influencer. Tempo dieci anni e avrete fatto la fine della Fnac di Roma: sostituiti da uno store di abbigliamento low cost.

Pensateci, vi prego. Ci mancherete.

[EDIT del 23.4] – Grazie all’incommensurabile Mafe scopro che la libreria in questione esiste, eccome. E’ a Milano e si chiama Open. Non vedo l’ora di visitarla. Ovviamente, la speranza è che cose del genere inizino a succedere anche nel resto d’Italia, e magari anche negli stores che raggiungono il grosso del pubblico. Cose del tipo apro il Vivimilano e trovo “come ogni pomeriggio, alla libreria X è tempo di Happening, stasera con [nome di scrittore a caso] e i consigli di [nome di heavy reader a caso]”. Chissà, magari, un giorno 🙂

Un’isola virtuale per il mondo reale

montaggio di salvatore mulliri

Conobbi Salvatore Mulliri, con il nick “Isola Virtuale” circa quattro anni fa, grazie alle sue vignette su Tumblr e Friendfeed. Lo so, parlare di “vignette”, nel suo caso, è limitativo, come del resto lo sarebbe parlare di “montaggi”. Ma non è facile attrezzarsi con le definizioni in un mondo in continua evoluzione come quello della comunicazione digitale.

Salvatore è un “anticipatore” della rivoluzione dei contenuti in rete. Un creativo in grado di cogliere i trend sociali nella loro fase acerba. E’ uno dei primi ad aver capito il valore della conversazione che può essere innescato da uno spunto creativo, fino a farsi MEME, tormentone. Quando pubblica una vignetta  – ok, chiamiamole così per ora –  inizia subito a dialogare in tempo reale con chi la commenta, estendendo a dismisura il potenziale del messaggio e di tutti i meta messaggi associati. Proviamo a immaginarci il Forattini nella sua fase di declino che si azzarda in un esperimento del genere, con la gente che gli chiede “ma che significato hanno quei gabbiani?” e lui che non può esimersi dal rispondere “non so più cosa disegnare”. Immaginiamoci un Bucchi, un Giannelli, che ingaggiano sotto le loro vignette una conversazione su un fatto di attualità, fino a doversi esporre, argomentare, o continuare sul filo dell’ironia.

Ecco, questa è la prima cosa che fa Salvatore. Lui “conversa”, come i pionieri del Cluetrain Manifesto hanno stabilito che si debba fare in rete proprio perché grazie al Web sono tutti sullo stesso piano: artisti e “loggionisti”, creativi e distruttivi, geni e detrattori di geni. Con la certezza che ogni opinione ha un mercato, e quindi c’è gloria per tutti.

Il fatto che tutto questo si svolga principalmente in un social network per “addetti ai livori” (come lo definì sagacemente un blogger del calibro di Enrico Sola, al momento di abbandonarlo) rende il tutto ancora più interessante. FriendFeed è a ragione stato definito “il socialino dell’odio”, proprio per il fatto di essere il dominio quasi incontrastato dei cattivi, dei cinici, dei distruttori. Perché si sa, se per caso hai la sfortuna di nascere senza alcun reale talento creativo, puoi sempre distinguerti parlando male degli altri. In fondo è infinitamente meno faticoso e quasi più redditizio.

Dal mio personalissimo punto di vista di osservatore delle dinamiche andreottiddel Web, lo spettacolo dell’originalità creativa di Salvatore che sovrasta “le guerre dei poveri di talento” con le sue vignette è forse uno degli ultimi motivi che fa sperare in una rete capace di superare le logiche della comunicazione mainstream. Di sconfiggere, in definitiva, una omologazione culturale per anni imposta non solo dai vincoli delle piattaforme tradizionali, ma anche per la sempiterna disponibilità del pubblico passivo a cercare aggregazione nella riconoscimento di schemi e figure, senza correre il rischio di esplorare la diversità di nuovi linguaggi e nuove culture che non fossero quelli introdotti dall’alto.

Se c’è una cosa che internet sta regalando alle nuove generazioni, e lo dico a dispetto dei tanti neoluddisti che vivono oggi la loro effimera età d’oro, è un ecosistema mediatico finalmente aperto a questi nuovi linguaggi e a queste nuove culture. Culture che solo per comodità definiamo “digitali”, ma potremmo semplicemente definire, finalmente, libere dai vincoli funzionali delle catene produttive verticalmente integrate.  Prima ancora di non essere preventivamente censurabile da qualche “padrone in redazione”, Salvatore, anche in un ipotetico mondo di stampa libera e “guardiano della democrazia” avrebbe dovuto comunque concordare tempi di uscita e di stampa. E il suo lavoro sarebbe stato vagliato, se non direttamente dall’editore, dal gradimento degli inserzionisti. E nessun vignettista sano di mente vorrebbe vedere il suo lavoro giudicato dal responsabile marketing della Findus o della S. Pellegrino.

Ma nel comporre e pubblicare i suoi montaggi digitali, Salvatore è libero da un altro mantra che si presumeva eterno: l’individualità dell’atto creativo. Quando lo invitai a parlare alla BlogFest 2012, dal palco di Riva del Garda Salvatore pronunciò parole che lasciarono molti di stucco, e forse fecero anche storcere il naso a qualcuno. “Sono orgoglioso di essere influenzato, nelle mie vignette, dalla folla degli utenti di Internet, e di ispirarla a mia volta per nuovi spunti creativi. La creazione per me non può essere un atto solitario”. Nè, mi verrebbe da aggiungere, può essere la proprietà di un solo autore.

Quando Lawrence Lessig, profeta dei Creative Commons, proclamò  alla Camera dei Deputati nel 2009 che il mondo era entrato  “nell’era della cultura condivisa”, a qualcuno sembrò una di quelle frasi altisonanti buone per ingraziarsi una platea accomodante. Di fatto, nei trend d’uso e di fruizione dei contenuti digitali che mi trovo a studiare per  lavoro, poche profezie hanno avuto un maggior riscontro di quelle parole.

I report degli infoprovider dell’industria dei media concordano su un punto: la principale leva di interazione con un contenuto si sta spostando rapidamente dalla fruizione alla condivisione. Il ruolo principale di un contenuto non è più – dunque – solo quello di informare, intrattenere, acculturare, ma anche di ispirare altre persone a modificarlo, remixarlo o crearne uno integralmente nuovo.

Le vignette di Salvatore-IsolaVirtuale sono spesso dei remix, che a loro volta vengono modificate in MEMI e tormentoni prima dagli utenti più smaliziati, poi via via anche da tutti gli altri. A dare nuovo senso a una vignetta, del resto, può contribuire anche un solo commento, e Internet non pone filtri o setacci. Se in giro c’è un commento geniale, sarà pubblicato, e ne ispirerà altri istantaneamente.

Ma il tema della open culture non riguarda solo la co-creazione delle idee, e si estende agli strumenti che decidiamo di mettere nella “cassetta degli attrezzi”. Nell’elaborazione grafica, per esempio, Salvatore si serve esclusivamente di software Open Source, vale a dire applicativi che migliorano grazie al costante contributo di una comunità di sviluppatori. La sua storia ci insegna che tutto sta cambiando, non solo nell’industria dei media, ma anche nel modo in cui ci rapportiamo a una idea, a un contenuto, a un racconto. Le chiavi di questo passaggio cruciale sono la partecipazione, l’apertura, la condivisione da opporre all’autorialità proprietaria e che si apre al mondo esterno solo attraverso una catena di vendita, protetta da silos impenetrabili.

Non c’è miglior modo per cogliere l’essenza di questa transizione se non attraverso l’opera e le pratiche di chi ha scelto di attraversare un terreno così vergine col suo genio, ma anche con la sua coerenza ed onestà.

Il Web, gli altri e la libertà di costruirsi una prigione dorata

Internet-dissent-ccL’altro giorno, dopo parecchio tempo, ho ripreso a guidare l’automobile. Molte cose mi sono venute automatiche, altre no. E me ne sono accorto quando una signora, dietro di me, ha suonato nervosamente il clacson. Non capivo perché, ma credetti che intendesse avvertirmi di qualcosa, magari un pericolo immediato, come prescrive il codice stradale.

E invece no, non intendeva avvertirmi di nulla. Voleva solo esprimermi il suo fastidio perché mi stavo spostando sulla corsia di destra, con regolare freccia accesa da alcuni secondi, mentre lei voleva sorpassarmi proprio a destra. A confermarlo, la pronta occhiata di riprovazione, mista a un velato disprezzo, che mi ha raggiunto attraverso il retrovisore.

Ora, come ben sappiamo la riprovazione riguarda l’atto, mentre il disprezzo riguarda la persona. Ma il codice di comportamento tra sconosciuti in automobile permette di esprimere bene entrambe le sfumature. Sia su binari paralleli, sia, (se necessario, quando non vogliamo andare troppo per il sottile), anche in un unico minestrone di brutti sentimenti pronti per l’uso.

Fondamentalmente, un comportamento che non condividiamo ci offre l’opportunità non solo di sentirci migliori di qualcun altro, ma persino di cercare conforto, magari con uno sguardo complice o incredulo, in qualche altro automobilista o pedone nei paraggi.

Nel traffico, infatti, non vale lo stesso codice di condotta che normalmente osserviamo verso gli sconosciuti. Dove magari è ammesso un qualche scarno dialogo strettamente legato alla condizione in cui palesemente ci troviamo: le informazioni sui mezzi passati alla fermata del bus, sull’ordine di chiamata nella sala d’attesa del dentista, e così via.

No. in auto la barriera del veicolo – che ci protegge, ma è anche un arma d’offesa – garantisce è una sorta di semi-anonimato dove ogni atto può – anzi, deve – essere debitamente teatralizzato. Uno sguardo, un epiteto, un labiale, un gestaccio attraverso il finestrino assumono spesso una rilevanza semi-pubblica. Compresa l’occhiata con cui squadriamo il volto di chi ha compiuto una manovra particolarmente odiosa, forse per trovare nei suoi lineamenti la conferma lombrosiana del nostro pregiudizio di partenza. Che poi è sempre lo stesso assunto, che suona più o meno così: “il mondo va a rotoli perché noi facciamo parte di una sparuta minoranza di persone civili, che sanno guidare e hanno  rispetto per gli altri; questi parassiti invece, quando tornano a casa, forse picchiano le loro mogli e lasciano i loro cani sul terrazzo tutta l’estate”. Confortati da questa certezza, come premio, quantomeno vorremo guardarli in faccia, per vedere il volto del male, della stupidità, dell’arroganza.

Semi-anonimato, dicevamo. E rilevanza semi-pubblica, abbiamo aggiunto. Ecco, io credo che questi termini – qui sul Web – dovrebbero farci scattare un rumoroso campanello d’allarme. Perché si tratta delle stesse condizioni in cui ci troviamo quando decidiamo di interloquire con uno sconosciuto su Facebook, in un post leggibile da altre persone. Dove puntualmente, anche qui, scatta in noi qualcosa di lombrosiano quando ci imbattiamo “negli altri”, nella “massa informe”. Cioè in tutti quelli che fondamentalmente, riteniamo meno informati, meno consapevoli, meno attrezzati di noi: dal grillino complottista, alla bimbominkia sgrammaticata, al pasionario irragionevole di questa o quella parte politica, allo spammatore di foto di cani scuoiati, all’irriducibile ricondivisore della bufala più evidente, e così via.

Tutta gente che – mannaggia! – può anche lei scrivere ed essere condivisa con successo su facebook, creare pagine con diecimila like per una petizione contro un inesistente sperpero di danaro pubblico, trasformare una battuta volgare e sessista in un tormentone, perché per cento persone mosse dal demone di pubblicare qualcosa di becero ce ne saranno sempre migliaia pronte ad amplificare il messaggio, e tutto per colpa di quel maledetto bottone “share”.

Ora, a ben vedere, il risultato è che con gli sconosciuti, nelle discussioni pubbliche (proprio come accade in auto) siamo motivati a dialogare quasi sempre in un solo caso: quando appunto non siamo d’accordo con loro. Specie quando abbiamo l’opportunità unica di far passare l’eterno messaggio identitario, lo stesso che regna da sempre in mezzo al traffico e cioè quello per cui “io sono migliore di te”.

E a prescindere dal merito e della gratuità di una affermazione del genere, siamo davvero di nuovo di fronte a una grave sconfitta. A sentire Lawrence Lessig il web (a differenza del traffico cittadino) ci permetterebbe di trovare il bello proprio nello sconosciuto e nell’inaspettato, la famosa “serendipity” di cui si favoleggiava nei primi barcamp. Ai tempi, iniziavamo a guardare molti illustri sconosciuti negli occhi, e quegli sconosciuti ci piacevano. Ma proprio ora che siamo riusciti ad aggregare le nostre conoscenze per interessi e passioni comuni, partendo dalla rete ma portando spesso queste affinità nel mondo degli atomi, ecco che ci siamo di nuovo chiusi a riccio e ci apprestiamo a salire sull’Arca, mentre fuori vediamo solo un diluvio universale di ignoranza e stupidità.

Siamo diventati, in sintesi, ciechi – ma per scelta. Appagati dalle continue, pulviscolari gratificazioni della nostra cerchia abbiamo stabilito di non voler guardare oltre ciò che è distante da noi. Con buona pace della social diversity e della shared culture propugnata da Lessig e da altri visionari.

La cosa più triste è che questa cecità sociale diventa ancora più grave di fronte a quello che accade, lontano dalla rete. Come accennai di recente all’Internet Festival di Pisa (e ringrazio Maria per averlo ricordato), se siamo disposti a pagare perché qualcuno ci imprigioni in una sala buia per assistere a qualcosa che potremmo serenamente vedere anche nel salotto di casa (di solito un film, ma più di recente anche eventi live e persino versioni “da big screen” di mostre d’arte), questo indica un mutamento radicale della nostra prospettiva sociale.

Il punto è che con “gli altri” non vogliamo più parlare, al di fuori delle nostre passioni, dei nostri interessi verticali, perché sui problemi reali, sui temi di attualità i media analogici ormai da vent’anni ci hanno insegnato a metterci uno contro l’altro, e i flame su facebook sono solo un ovvio riflesso di questo consolidatissimo andazzo. Guardiamo il vicino di casa o il parente al cenone di Natale non come una persona che ha i nostri stessi problemi, ma come l’idiota che pensa di risolverli votando per uno che dice “vaffanculo” nelle piazze. E dal tizio che stringe “Libero” sotto il braccio  ci aspettiamo uno squallido tentativo di passarci avanti nella fila della posta.

Pretendiamo di avere un raffinatissimo e lombrosianissimo sguardo socio antropologico su tutto e su tutti. E francamente mi chiedo, a volte mi chiedo, che razza di cambiamento potrà mai innescare un Paese prigioniero di una prospettiva del genere.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.

Context is King, Content is Apps

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E se fossero proprio le tecnologie aperte come HTML5 a permettere ai creatori di contenuti di stabilire autonomamente i loro modelli di business?

Se fossi riuscito, col mio coloratissimo Prezi a seminare un dubbio di questo tipo tra gli avventori del Media Web Symposium di Berlino, lo considererei già un successo trionfale. Per ben due giorni la kermesse organizzata dal Fraunhofer Institut sulle tecnologie d’interazione applicate all’industria dei contenuti si è concentrata su fenomeni “di processo”: la connected TV, il multiscreen, la ricerca di uno streaming davvero “agnostico” rispetto a chi lo diffonde sul Web.

Ma rimaneva un grosso “buco” al centro del programma, quello su come queste evoluzioni tecnologiche si incontrano (o ignorano) i nuovi trend d’uso, e soprattutto come possono abilitare ecosistemi del tutto inediti, non necessariamente governati da vecchi e nuovi aspiranti “padroni del vapore”.

E in quello spazio mi sono infilato io, con la scusa di concedere una tregua a un pubblico forse in vena di staccare per un attimo dal tema dei linguaggi di programmazione e degli standard.

Nel mio speech ho provato a percorrere un pezzo di passato fino a un possibile futuro: dal 1990 al 2020, con al centro una fotografia del momento che stiamo vivendo, il 2013.

Si passa quindi da un ecosistema bloccato (1990), in cui il modello “sussidia” in prima istanza i detentori dell’infrastruttura distributiva, che possono così dettare regole, vincoli e modelli di business per tutti gli altri attori a monte della catena, a cominciare dai Content Owners…

…a una fase, quella attuale (2013), in cui nuovi soggetti provano a sostituirsi ai vecchi “tycoon”, facendo valere i propri asset non duplicabili (la piattaforma, il device, i contenuti mainstream)…

…per sbarcare in un 2020 dove appare un nuovo ecosistema che ancora non si sostituisce al vecchio, ma progressivamente sottrae eyeballs, attenzione e quindi fonti di ricavo ai modelli precedenti, facendo soprattutto leva sul “senso” del contenuto (“Context is King”).

La straordinaria resistenza al cambiamento di TV, Radio, Giornali e Libri è solo scalfita dai newcomers, il cui principale fattore di successo, nel conseguire una sostenibilità economica, è allearsi coi nuovi player che sul Web spingono verso linguaggi, codec, pratiche aperte e non controllabili da pochi soggetti. L’area del sussidio si allontana dai distributori e per la prima volta si avvicina al content provider indipendente, che è libero di studiare il format insieme al nuovo meccanismo di remunerazione. Per esempio, all’interno di una App “agnostica” rispetto alla piattaforma, e in grado (magari grazie a HTML5) di girare su qualsiasi browser. Sullo sfondo, le nuove esigenze di consumatori ormai smaliziati, che da un lato si tuffano nella “diversity” offerta dal Web, dall’altro confermano di usare i social media per i grandi, irrinunciabili momenti di aggregazione.

Il video in italiano, registrato pochi giorni prima alla Social Media Week, è qui. I vostri commenti sono più che mai graditi.

Milano da twittare

C’è un primo, grande paradosso che è apparso in tutta la sua evidenza durante la Social Media Week che si è recentemente chiusa a Milano. Mentre dai vari “panel” ci si produceva nell’ennesimo sforzo di dimostrare come la rete ci liberi da mille vincoli, scatenando la creatività delle persone e mettendo le idee a disposizione di tutti, la stampa mainstream guardava Grillo in Piazza del Duomo e concludeva questo: “Visto? La rete è roba da frustrati, astiosi dilettanti rinchiusi nelle loro camerette, ridateci il monopolio dell’informazione”.

C’era dunque bisogno di un evento non “per addetti ai lavori”, non isolato in una nuvola autoreferenziale, ma “su strada”, che incuriosissse anche visivamente l’avventore casuale. Occorreva non spaventarlo con la solita cascata di buzzword, e magari sedurlo attraverso il racconto di come la Rete cambia la nostra vita quotidiana, quella fatta di cose che si toccano e di persone che si guardano negli occhi.

Posso dire che Hagakure c’è riuscita? OK, mi limito a pubblicare qualche numero che ciascuno potrà liberamente interpretare. In fondo siamo il popolo dei 10.000 visitatori “secondo la Questura”, quindi anche la matematica è una simpatica opinione 🙂

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Circa i panel che sono riuscito a seguire, cito a memoria:

–  “Web Everywhere!” il dibattito sulle prospettive di una rete omnipresente: anche qui siamo in pieno conflitto d’interesse, ma non posso esimermi dall’esaltare la splendida deriva socioantropologica innescata dai brillantissimi Bennato e Mulé;

Social Media & Comics, dove incontrastate star della satira in rete come Zerocalcare hanno trasformato Palazzo Reale in una sorta di Zelig improvvisato;

Governi, piazze, mercati e palazzi. Come Twitter cambia il mondo in cui Matthias Lufkens, capo della sezione Digital di Burson-Marsteller, ha raccontato in che modo – ancora a volte troppo ingenuo – i governanti dell’orbe terracqueo usano i social media (come cambia in fretta il mondo, vero Eric?);

Non potevo infine mancare (perché ero sul palco, mica per altro) il dibattito di chiusura, dove – fortunatamente con modalità del tutto ludiche – l’ineffabile Gianluca Neri ha tormentato i relatori con pungenti domande sui possibili trend del 2013. Io me la sono cavata con un nuovo Prezi sull’evoluzione degli ecosistemi dei media, in realtà una specie di anteprima della presentazione che sto per tenere a Berlino per il Media Web Symposium 2013. Per una analisi più puntuale di quella roba lì, rimando al prossimo post dalla Crante Cermania.

Concludendo, sono sicuro che i molti personaggi che sono pagati non per lavorare, ma per parlar male del lavoro degli altri, avranno da ridire anche sulla Social Media Week. Da parte mia, io non vedo l’ora che ne organizzino un’altra, magari all’ombra del Colosseo, e possibilmente col sole. Perché OK, la neve a fiocconi è bella e romantica, ma insomma, ecco, come dire.

Connecting Television, making (stiff) money

Presentazione del libro Connecting TelevisionChe fare soldi facili sfruttando la convergenza tra internet e televisione fosse una chimera lo si era capito già da qualche anno. Al di là degli ostacoli “strutturali”, del resto, i nuovi modelli di business sono ancora molto immaturi. Non a caso i primi a cogliere qualche opportunità (banalmente per il fatto di avere qualche soldo da investire) sono soggetti provenienti dal “vecchio mondo”, come major e broadcasters. Chi magari avrebbe la giusta cultura e una sufficiente “verginità” per sperimentare qualcosa di davvero nuovo, come le molte startup che si stanno cimentando nell’impresa (un nome per tutti: Boxee), trova purtroppo notevoli  difficoltà a convincere gli investitori, o comunque è costretto a scendere a pesanti compromessi.

Un’occasione per approfondire il tema potrebbe essere la presentazione, domani pomeriggio, alle 17 in Via dei Volsci 112, del volume “Connecting Television, la televisione al tempo di Internet”, curato da Alberto Marinelli e Gianni Celata, e al quale ho contribuito con un capitolo – guarda caso – sui possibili nuovi modelli di business che si possono costruire attorno alla Web TV e alla OTT-TV.

Interverranno persone che hanno sicuramente qualcosa di interessante da dire sul tema, come Gina Nieri (Mediaset), Enrico Menduni (Uniroma3) e Oscar Cicchetti (Telecom Italia). Se quel pomeriggio non avete pilates, mi farebbe piacere discuterne insieme. A domani, allora.

[EDIT: è in linea la registrazione MP3 della presentazione. Si può scaricare qui]

What’s Broadcast, and what’s not?

Sempre più spesso mi capita di leggere o ascoltare frasi come “Twitter non è conversazionale, è broadcast”. La mia sensazione è che al fianco del deprecabile fenomeno delle buzzwords che durano il tempo di far sembrare “nuovi” quelli che le usano per primi, stia prendendo corpo la tendenza di attribuire a parole antiche, come “broadcast”, significati fantasiosi.

Lungi da me fare il lexicon-nazi (per me i Beatles sono diventati grandi comunicatori quando hanno iniziato a strillare “she don’t care”, per dire). Il punto è che si comincia ad esagerare. Con questa parola, “broadcast” ormai si iniziano ad intendere significati che – ad essere clementi – potremmo definire tirati per i capelli. Twitter e Tumblr vengono definiti “broadcast” perchè non incoraggerebbero la risposta e il canale di ritorno, favorendo invece il meccanismo dell’amplificazione dell’audience attraverso il meccanismo del retweet o del reblog.

Niente di più falso. Sia Twitter che Tumblr poggiano su una infrastruttura a due vie. Se le  due piattaforme sembrano incoraggiare un uso “spannometrico” ciò non significa che gli utenti rinuncino ad utilizzare il canale di ritorno, e questo a prescindere da funzionalità come il “like” di Tumblr o il “reply” di Twitter. E’ proprio il feedback in tempo reale, in ogni caso, a rendere questi mezzi completamente diversi rispetto – per intenderci – alla radio o alla televisione. Essi permettono infatti – attraverso la curation – di costruire e ricondividere senso, cosa che nel broadcast non è possibile e – aggiungerei – nemmeno auspicabile.

Non è una questione di poco conto. Quando venne inventata la radio, non fu dato per niente per scontato se dovesse essere utilizzata la tecnologia broadcast (radioaudizioni circolari) o quella a due vie (radioaudizioni telefoniche). E quando fu scelta la prima, è stato comunque possibile per decenni ascoltare programmi anche attraverso il telefono. L’Araldo Telefonico è stato uno dei più popolari di questi, e ovviamente già allora era disponibile “on demand”.

La scelta del tutto ovvia di andare “on the air” per raggiungere a condizioni più economiche il maggior numero di fruitori, attraverso la modulazione di ampiezza, implicò non solo la mancanza fisica di un canale di ritorno nella catena distributiva, ma anche il principio della distribuzione lineare (e quindi del “palinsesto”), e infine  l’accettazione di un criterio di tipo “best effort” sia per la qualità della trasmissione sia per la misurazione dei risultati. L'”era del broadcast” di cui forse (e sottolineo forse) stiamo osservando le prime luci del crepuscolo determinò tutta una serie di vincoli: negli stili, nei linguaggi, nei modelli di business e nelle modalità d’uso.

Tutti vincoli che nè Tumblr, nè Twitter nè – per fare un esempio più sofisticato – oggetti come Pleens pongono all’utente e al gestore della piattaforma. Così, per fare chiarezza.

L’impatto della Content Curation sugli ecosistemi dei media

Gli amici di InToscana hanno pubblicato il video del mio intervento (qui il prezi originale) all’Internet Festival di Pisa, rassegna su cui mi sono già ampiamente speso, in cui ho affontato il tema della Content Curation e degli effetti dei nuovi trend di interazione coi contenuti su ciò che ci ostiniamo a chiamare “televisione”, e sugli ecosistemi dei media in generale.

I punti chiave sono abbastanza consolidati: il passaggio dalla leva della fruizione a quella della condivisione, l’attenzione che diventa l’unica risorsa scarsa, le ragioni del successo di Tumblr e Instagram,  il “senso” che progressivamente acquista importanza a spese del “significato di un contenuto”.

Lo pubblico qui come “punto di appoggio” per un discussione che probabilmente si svolgerà altrove, sia nel mondo degli atomi, sia in quello dei bit. Per qualche motivo, il keynote del sottoscritto inizia solo al minuto 3.27, ma direi che è un male minore : )