Google Maps Maker: quando il crowdsourcing è un alibi

Circa un anno fa, prima di abbandonare FriendFeed, segnalai uno strano errore su Google Maps. Una ferrovia fantasma, che secondo le mappe avrebbe dovuto collegare la stazione di Piazza Euclide con la stazione Valle Aurelia.

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Per evidenziarla, accanto al tratto grigio che Google Maps utilizza per le ferrovie, tratteggiai una linea rossa. Con una linea verde, evidenziai il tracciato reale della prosecuzione dei binari verso Piazzale Flaminio, che la mappa aveva invece dimenticato.

Su FriendFeed partì il classico thread in cui tutti avanzarono le varie ipotesi sul perché di un errore così marchiano. Alla fine convenimmo che si trattò non di una svista, ma di una evidente negligenza di chi aveva preparato il file originale con il CAD a due dimensioni. Qualcuno che forse si era trovato in difficoltà nell’elaborare le mappe originali a disposizione, non avendo capito che dopo Piazza Euclide quella linea prosegue in sotterranea fino al Capolinea, e cioè Piazzale Flaminio.

Non solo per scrivere una mappa, ma anche per leggerla correttamente, sono infatti necessarie minime nozioni di cartografia. E non si può certo pretendere che un servizio gratuito come quello offerto da Google lo affidi sempre a persone esperte delle reti di trasporto di ogni città del mondo, o addirittura a una persona del luogo. Si chiama “best effort”, e in molti casi “best effort is good enough”. Magari, però, si può pretendere che queste persone non si inventino, col solo scopo di collegare due linee su una mappa, una ferrovia inesistente dall’oggi al domani, come accadde in quel caso.

A Mountain View si devono essere resi conto che questi errori non sono casi isolati. Infatti, da qualche tempo è disponibile un tool, chiamato “Google Maps Maker” che permette di segnalare tutte le inesattezze, interagendo coi gestori di Google Maps, per ottenere rapidamente delle correzioni. Ciò che mi affrettai a fare, ottenendo una sequenza di correzioni persino più fantasiose dell’errore originario. Guardate, per esempio, questo utilissimo “doppio traforo” della collina di Monte Mario, che naturalmente parte sempre dalla minuscola stazione di Piazza Euclide a cui evidentemente gli incolpevoli ragazzi di Google Maps sono per qualche motivo molto affezionati.

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Oppure, questo fondamentale raccordo di penetrazione ferroviaria attraverso le mura vaticane (ce n’è già uno poco più a sud, in realtà, e mi pare già più che sufficiente).

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La sensazione è che a Google Maps abbiano una qualche idiosincrasia per le stazioni di testa. Eppure, a volte, le ferrovie finiscono, non devono per forza essere collegate con AutoCad. Non ci sarebbe nemmeno troppo da incavolarsi, se certe segnalazioni provenienti da chi – come dire – in quelle città ci abita non venissero respinte con messaggi del genere.

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Ora, il fatto che Google affidi al suo Reviewer “Karuna” una tale autorità sulle ferrovie del quadrante nord ovest di Roma credo la dica lunga sull’equivoco che ancora circonda termini come “crowdsourcing” e “best effort”.

Il fatto di affidare all’intelligenza collettiva l’autocorrezione di un servizio non può essere l’alibi per nascondere altre lacune del servizio, che col crowdsourcing non hanno nulla a che vedere.  Esistono servizi, come Wikipedia, che si fondano sul crowdsourcing e ammettono di non poter andare oltre un “best effort” (per le ovvie differenze rispetto alle enciclopedie professionali), ma offrono un servizio che è ritenuto ragionevolmente sufficiente per milioni di persone. Tra l’altro, su una enciclopedia tradizionale non troverai mai una voce così completa e aggiornata su personaggi che appartengono alla cultura popolare, ma che la Treccani giustamente ignora.

Per la cronaca, alla fine – e dopo immani fatiche di gente che quei treni li prende per davvero – siamo riusciti a convincere Big G a togliere le varie mostruosità che si erano sovrapposte nei mesi ed avere una mappa ragionevolmente esatta. Meno male.

Rai, i buoi sono scappati ma va bene così

rai2Certe battaglie – come quella di chi si ostina a trattare i diritti sui contenuti digitali con gli stessi strumenti dei contenuti analogici – sono ormai perse. Lo hanno capito quasi tutti, nel mondo. La major discografiche, per prime, scendendo a patti con chi – come Apple – prometteva di poter stringere nuovi cordoni, al prezzo di un flusso di ricavi molto ridotto rispetto ai tempi d’oro. Le case editrici, ora inginocchiate di fronte a un nuovo intermediatore di piattaforma (Amazon) più o meno dietro la stessa promessa, e alle stesse condizioni.

Con la TV, specie quella privata, è più difficile. Non a caso mentre la RAI ha trovato un accordo con Google per avere una quota dei ritorni pubblicitari su You Tube (anche sui contenuti “rippati” illegalmente dalla televisione pubblica) Mediaset è ancora ferma alle minacce e alle carte bollate.

Non c’è da sorprendersi. La cultura del modello della televisione commerciale è molto distante da qualsiasi prospettiva di cambiare il paradigma nell’era di internet. La televisione pubblica, invece, ha una cosuccia che la contraddistingue: si chiama “contratto di servizio“, ed è ciò che ci ricorda che è nostra. Un pezzo di carta dove sta scritto che la RAI deve rendere disponibile a tutti i cittadini italiani la fruzione dei contenuti da lei trasmessi su tutte le piattaforme che la tecnologia rende via via disponibili. Compreso il web. Poi, sta naturalmente alla RAI dotarsi di tutti gli strumenti che impediscano l’appropriazione indebita di questi contenuti, ma questo non deve limitare “la fruizione”.

Ora, la vicenda SKY/TVSAT ci insegna che non è il caso di dormire sugli allori. Sulla tecnologia satellitare, la RAI può imporre un proprio decoder, e alla fine – nonostante vari ricorsi in tutte le sedi legali anche internazionali, la piattaforma SKY non può ritrasmettere i canali del digitale terrestre, con l’argomento che non si poteva arricchire l’offerta di un concorrente.

Ma quello – lo ammettiamo – era un caso limite. Diverso è il caso dei portali “ufficiali” che ospitano i live stream dei canali televisivi. La RAI, in questo, è stata molto più veloce di Mediaset col suo portale Rai.tv. All’inizio, l’adozione di Silverlight (e di Microsoft.net) come piattaforma per il DRM suscitò qualche malumore. Poi ci si rese conto che Flash era ormai prossimo a tirare le cuoia, e il tema sembrò superato.

Chi voleva pervicacemente scaricare sul proprio hard disk, in modo illegale, i video della RAI poteva farlo seguendo le istruzioni dei parecchi tutorial che iniziarono a comparire su YouYube. Ma la quota dei “pirati” disposti a un tale sbattimento non superava mai la soglia “bittorrent”, la stessa che oggi mostra a major e broadcasters che la pirateria ha già saturato il “suo” mercato, rispetto alle molte offerte legali (come iTunes e Netflix) che ormai sono disponibili in rete. In sostanza si è scoperto che la stragrande maggioranza degli utenti è più che disposta a pagare un’offerta legale di contenuti via web pur di non dover imparare a diventare “pirata”.

Tutti felici e contenti? Manco per niente. Negli ultimi anni, infatti, le tecnologie per un web aperto (come HTML5) sono diventate degli standard “de facto” anche per il video. Tutti gli smartphone e tablet (che supportano HTML5) hanno ormai preso una bella quota delle fruizioni video totali, determinando il famoso “furto di attenzione” rispetto al primo schermo che terrorizza i broadcaster.

E – tornando alla RAI – se il servizio pubblico intende rispettare il contratto, deve permettere a ogni cittadino italiano possessore di un device mobile di accedere atutti i contenuti di Rai.tv senza limitazioni sulla piattaforma. Ora, però, la piattaforma non è solo il portale. E’ anche il sistema operativo, per esempio iOS e Android. Sono i linguaggi supportati, come HTML5. E’ anche il browser, per esempio Firefox.

Ecco, appunto: HTML5 e Firefox. Non sono in molti a rendersi conto di quanto sia importante che queste due componenti, che hanno ormai una quota di diffusione così alta siano componenti a sviluppo Open Source.

Infatti da un lato la RAI (ma anche molti altri produttori di contenuti) non possono esimersi dall’adottarle, proprio per la loro diffusione, e non solo per una questione di “contratto di servizio”. Ma dall’altro la comunità potrà continuare a sviluppare funzionalità su Firefox e HTML5 senza dover chiedere il permesso a nessuno.

E’ per questo che – anche se con una funzione seminascosta – Firefox permette sui player HTML5 di scaricare il contenuto del video, come ho scoperto per caso l’altro giorno (e subito segnalato) guardando una bellissima puntata di “Sostiene Bollani” su Rai.tv. Da un tablet o uno smartphone, è sufficiente tenere premuto il player per vedere apparire queste funzioni.

raiScegliendo “Salva video” il device inizia a scaricare un enorme file con estensione “.htm”, che – rinominato in “.mpg” può poi essere visto in locale, come ogni altro video memorizzato sul device. E’ illegale, come quando si seguono le istruzioni dei tutorial pirata? No, non lo è. Perché la RAI supporta quella tecnologia in tutte le sue componenti, e quelle funzionalità sono previste da quelle componenti.

Ora, sono sicuro che esiste un modo per impedire “a monte” che i file video vengano scaricati. In questo modo, però, il broadcaster adotterebbe una versione “spuria” delle funzionalità della piattaforma di distribuzione, e violerebbe il contratto di servizio proprio come nel caso-limite di TVSAT.

Ma sono sicuro che, avendo gli esperti della RAI capito da tempo che ciò che interessa alla stragrande maggioranza delle persone è la fruizione, e non il possesso dei contenuti (lo dicono i report degli analisti che noi non siamo come i tedeschi, per fortuna), non sarà adottato alcuno stratagemma di questo tipo.

A meno che qualcuno non pensi di fare carriera illudendo qualche capo struttura con una pezza di durata molto, ma molto breve.

Rimini, la transizione al rallenty

Questa è la volta che capirò se scrivere un post sul divano a piedi scalzi, con un bassotto che te li lecca tutto il tempo, può essere fonte d’ispirazione.

Vorrei scrivere il classico sbrodolone a consuntivo della Blogfest, nessuno mi ha obbligato, ma il punto è che i molti confronti “live” con le persone incontrate sul posto mi hanno schiarito le idee su alcune cose che ho sempre pensato e che finora avevo elaborato solo in parte.

Gianluca sa cosa penso della sua creatura, dai tempi delle prime edizioni. Ne abbiamo parlato più volte francamente, senza ipocrisie. Per me è troppo allineata agli stili della comunicazione televisiva per poter essere una vera festa della Rete. Lui ribatte che in Italia c’è ancora troppo strada da fare per gettare il cuore oltre l’ostacolo e rinnegare i linguaggi, i tormentoni, i riflessi condizionati della TV. Alla fine ciascuno rimane della sua opinione, ma siccome siamo nella stessa barca  (nei rispettivi ruoli) alla fine bisogna stare tutti e due a testa bassa, e pedalare. OK, facciamo che la barca è un pedalò – ma ci siamo capiti.

Certo, dispiace confrontare la realtà italiana con gli USA, dove il festival SXSW (nato come un raduno di sviluppatori) è diventato negli anni una straordinaria kermesse di tutta la cultura indipendente, dal cinema alla musica, alla letteratura, al giornalismo, ecc. Mentre laggiù internet è considerato un volano di tutti questi movimenti, che entrano progressivamente in concorrenza coi fenomeni di massa costruiti da major e broadcaster, qui da noi è l’esatto contrario: l’evento più “vissuto” dalla socialsfera ha senso nella misura in cui “risuona” negli strapuntini concessi ai protagonisti su giornali, radio e TG (la famigerata “rassegna stampa”).

Questo – si badi bene – è un mio punto di vista personale, ma non riesco a passarci sopra. In fondo a me non interessa troppo “la purezza di “Internet”, “la net neutrality contro i walled garden” o “HTML5 contro gli App Store”. A me interessa tutto ciò che può far crescere musica, cinema, spettacolo, cultura, informazione indipendente. Se poi volete chiamarla “cultura digitale”, fate pure: io me la cavavo benissimo anche captando le community radio in onde medie o facendomi spedire i vinili dall’estero.

Ora, semplicemente, sarebbe più facile. Peccato che i tesori della cultura digitale, ovviamente, sono tutti molto lontani da casa. Si scovano nei podcast di oscure radio universitarie canadesi, nei canali youtube dei “nuovi miagolatori” di BaebleMusic, nella splendida serie House of Cards (un prodotto televisivo del tutto ortodosso, ma prodotto autonomamente da Netflix, senza interferenze), nel formidabile video magazine di Gestalten.tv, solo per citare qualche caso particolarmente eclatante.

Il punto è che non è facile convincere gli sponsor di un evento come la Blogfest senza usare i loro parametri, le loro misurazioni. Nel mio piccolo, insieme ad altri colleghi molto motivati sto provando a far passare in azienda altri elementi di valutazione che non siano sempre e solo quelli della pubblicità tabellare, ma non è facile. E allora, come ben sanno gli amici di Macchianera, occorre arrivarci per gradi, correggere il tiro, battere altre strade.

La cosa migliore dell’edizione di quest’anno è stata, guarda caso, il respiro più ampio. Il WriteCamp (a mio avviso la sezione più pregiata del pur ricchissimo programma) ha avuto uno spazio adeguato, con la domenica non più relegata a “giornata povera” della manifestazione. Ci sono stati dibattiti di alto livello (formidabile quello con Calabresi e Gramellini, due modi molto diversi di strappare applausi – direi), c’è stato l’enorme filone del food, c’è stata soprattutto una gigantesca carrambata collettiva. Eh sì, perché se Riva del Garda è sempre stato un “ri-trovo” dei blogger della prima ora, Rimini è stata la fiera del “trovo e finalmente ti conosco”. Si è registrata una netta maggioranza, per capirsi, di “quelli che io alla Blogfest non c’ero mai venuto e mi sembra stupenda”, quasi stupiti dell’eco di tutte le polemiche e i veleni pregressi maturati in troppi anni di autoreferenzialità e di chiusure a riccio. Da solo, questo risvolto giustifica il trasferimento nella più raggiungibile ed accogliente riviera romagnola.

Poi vabbè, il rischio del millesimo panel schiacciato tra neo-luddisti e tecnofatalisti è sempre dietro l’angolo. Però la sensazione è sempre quella: mondi, ambiti, contesti (sto provando a non scrivere “caste”) che sentono la loro professionalità minacciata dai nuovi modi di fare le cose con la rete. Gente che piuttosto di ammettere di doversi spostare di un millimetro (dalla propria Olivetti Lettera 22, dal borderò, dal centro media, dal comunicato stampa, dall’inviato barricato nella suite dell’Hilton di Nairobi col giubbotto Wrangler comprato a Piazza Vescovio) preferisce stare a guardare il meteorite dello Yucatan che diventa sempre più grande sulla propria testa.

Proprio ieri leggevo un libro sulla storia dei trasporti pubblici a Roma. Pare che quando furono introdotti i tram elettrici (mentre i primi tram erano trainati sulle rotaie da cavalli) i conducenti delle vecchie vetture, pur essendo i naturali candidati a guidare quelle nuove, si rifiutavano di sottoporsi a quel minimo di riconversione professionale necessaria per affrontare la transizione. Secondo loro, gli utenti del servizio avrebbero dovuto continuare ad apprezzare la loro competenza nella gestione delle stalle e dei depositi per le vettovaglie degli animali da traino. Gli utenti avevano in realtà solo bisogno di un trasporto pubblico più efficiente, di vetture più veloci, di strade più pulite. Così le compagnie di tram non ci misero più di tanto ad assumere conducenti nuovi.

Ecco, a me i vari Gramellini e Merlo, quando si scagliano contro twitter, fanno lo stesso effetto dei conducenti-stallieri. Sono degli straordinari, impareggiabili conducenti, ma si rifiutano di abbandonare i cavalli e la biada.

Chissà per quanto, alla blogfest o eventi simili, continueremo ad assistere a discussioni su transizioni che non vanno più nemmeno raccontate, perché sono sotto gli occhi di tutti. A meno che non ci si esalti nell’osservare un declino ripreso in super-slow motion. Dove la scena al rallentatore, col meteorite che si avvicina e alla fine si schianta al suolo, avviando un inverno lungo mille anni, la manda in onda la sapiente regia del festival. Proprio perché il pubblico – in fondo – non aspetta altro.

A’ la Blogfest comme à la Blogfest

BlogFest2013miniForse sarà una nuova Blogfest, e non lo dico solo per il fatto che si svolga a Rimini, per quanto ciò possa facilitare la logistica ed ampliare notevolmente la platea.

Il punto è che quest’anno la kermesse organizzata da Macchianera offre un programma molto più ricco. Oltre al consueto e irrinunciabile contesto ludico notturno (le feste, i DJ Set, la premiazione degli Awards), durante il giorno sono infatti in programma decine e decine di dibattiti, organizzati in 5 filoni contemporanei: economy, community, food, education e media.

Non è più, insomma, un “raduno di blogger”, ma qualcosa di più simile ai molti festival che affollano sempre più il calendario nazionale, sintomo di una crescente voglia di esperti e non esperti di confrontarsi nel mondo reale sui temi che escono dai giornali (La Repubblica delle Idee) dai libri (I festival della Letteratura, della Mente, della Filosofia), e dalla Rete (Internet Festival, le Social Media Week come quella di Milano e appunto – adesso – anche la Blogfest in questa versione arricchita e corretta).

Ascolteremo le voci di personaggi vecchi e nuovi, di tecnottimisti e di neo-luddisti, di startupper e artigiani del cibo, insomma ce ne sarà per tutti i gusti. E ci sarà anche  “il Capo del Capo del mio Capo“, intervistato da Daria Bignardi su tutto ciò che può essere rappresentato in uni e zeri, e non solo le tlc.

Per quanto mi riguarda, sarò coinvolto in due panel: il primo (sabato 21 alle 10) – al quale parteciperò a titolo personale, come co-autore di questo libro – sul futuro della “connected television”, in compagnia di pionieri della net-tv come Tommaso Tessarolo, venerati broadcast-bloggers come Matteo Bordone e con l’inafferrabile Filippo Pretolani nel ruolo di moderatore-guastatore d’altissimo lignaggio.

Il secondo – domenica 22 alle 12, stavolta col badge rosso in tasca e magari con una cravatta decente intorno al collo – nel quale Marco Massarotto presenterà un adorabile e misteriosissimo accrocco fotografico, che propone di raccontare la vita di una persona nel modo più autentico, cioè bypassando il “filtro autoriale” di chi lo indossa. Il digitale che prova a risorpassare la Lomo, insomma:  ne parleremo con virtuosi dell’analisi tecnoantropologica del calibro di Paolo Mulè, Luca Alagna, Davide Bennato.

Per il resto, se il lavoro me lo consentirà, sarà l’occasione di incontrare tante belissime persone che proprio grazie alla Rete sono diventate amicizie in carne ed ossa. E magari ascoltare insieme il crescente e sempre più popolare lamento di chi la Rete sa solo attaccarla.

Lo faremo con vigile rispetto per ogni opinione, ma con l’avvertenza che non accetteremo critiche:

  • per la spazzatura che si trova su You Tube da chi ha inondato la TV di spazzatura, senza offrire per decenni alcuna alternativa
  •  alla qualità della scrittura sui blog da chi ha prosperato per anni vendendo i libri di Rosa Giannetta Alberoni  (per fare solo un esempio)
  • per le bufale dell’informazione in Rete da chi titolò a nove colonne che i Raeliani avevano clonato l’uomo, dopo una regolare ed analogicissima conferenza stampa (e anche questo è solo un esempio)
  • al linguaggio di Facebook “che istiga alla violenza” da chi ha mandato in onda Borghezio con la maglietta anti-Maometto (altro esempio tutt’altro che isolato)
  • alla superficiale brevità di Twitter da chi ha ridotto la politica ad una lista di slogan precotti, da distribuire in speciali “kit per il candidato”
  • (aggiungere altri allegri riflessi condizionati a piacere)

Insomma, ci sarà da divertirsi, credo.

La tecnologia è sopravvalutata

danielProvate ad aprire il menu “impostazioni” di Facebook. Non passa settimana che non venga introdotta una nuova funzionalità per dare all’utente il massimo controllo possibile – da un punto di vista tecnologico – del proprio account. A partire dalle liste, che permettono di scegliere chi può vedere i nostri post, per proseguire con la privacy (chi mi può contattare, chi mi può taggare, chi può vedere quello che gli altri postano nella propria timeline, ecc. ecc.) per finire con le opzioni “block” e “report”, in caso di decisioni più drastiche.

Se proviamo ad approfondire, scopriamo che è un trend generalizzato. I cosiddetti “Over The Top” players (e quindi anche Google, Amazon, EBay, ecc.) pensano così di rispondere alle crescenti – e ingiustificate – accuse di prestarsi agli abusi, quando non al compimento di veri e propri reati.

Si tratta, per carità, di funzionalità utilissime, ma che prestano il fianco a un equivoco: quello che il problema dell’uso dei social media (e quindi anche la soluzione degli abusi) sia un problema tecnologico. Cedere, come fanno gli OTT, a questo equivoco significa legittimare le posizioni di chi – spesso per difendere le proprie piattaforme di comunicazione “a una via” – accusa i social media in quanto tali, cioè “a due vie”. In quanto, per l’appunto, “social”.

In un social media, per quanto ricco di nuove funzionalità e di opzioni di personalizzazione, gli “effetti emotivi” di una azione compiuta nei nostri riguardi ha in realtà a che fare in primissima battuta coi codici (e quindi coi significati) che individualmente attribuiamo a tali azioni.

L’esempio più banale è il famigerato “Poke” di facebook. A seconda del contesto, del vissuto delle due persone che se lo scambiano, del significato individuale che gli attribuiamo se arriva da uno sconosciuto o comune se fa parte di una “storia” o di un linguaggio tra persone in confidenza, potrà voler dire molte cose diverse e determinare effetti emotivi molto diversi. Non a caso, quando fu introdotto,  non avendo alcun codice comune di interpretazione, generò parecchi equivoci.

Ma i problemi principali nascono dalla confusione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Infatti, quando scriviamo qualcosa in pubblico, spesso mandiamo un messaggio speciale a qualcuno in particolare, pensando che lo possa leggere in un certo modo,  presumendo di avere un codice comune di intepretazione di quel messaggio. O magari ci rivolgiamo alla nicchia che condivide il nostro linguaggio pensando che ciò sia sufficiente perchè possa essere decodificato nel modo che desideriamo.

A volte, inconsciamente o meno, gestiamo i nostri messaggi pubblici con le logiche della comunicazione di massa. Se siamo molto noti in un ambito ristretto (se ci leggono spesso – diciamo – un migliaio di persone) ci comportiamo da “microcelebrità” e pensiamo di rivolgerci indistintamente alla nostra “micromassa”, adottando un nostro stile che riteniamo sia “micro-universalmente riconosciuto”. E tutti questi ossimori (microcelebrità, micromassa, microuniversale ecc.) dovrebbero rivelarci quanto mal riposta sia la nostra speranza di aver scritto un codice forte come quelli consolidati in anni da chi (giornali, radio, televisioni) poteva nutrire questa ambizione per il fatto di gestire canali esclusivi e monodirezionali.

Sovente ci comportiamo come quegli adolescenti che avendo una propria grezza idea di come debba svolgersi una relazione sociale rimaniamo delusi (e scornati) quando vediamo che l’interlocutore, banalmente, la vede diversamente.

Pensiamo alla famigerata funzione “visualizzato alle” di Whatsapp. il “Gruppo A”  dà per scontato che l’instant messaging richieda sempre una risposta immediata. Altri, il “Gruppo B”, lo considerano un mezzo del tutto asincrono, proprio come la posta elettronica.  Ebbene, i primi si sentiranno in obbligo di rispondere sempre e subito, magari anche frettolosamente. E per non avvertire la pressione di tale obbligo, troveranno utile disabilitare la funzione “visualizzato alle”. Il Gruppo B, inversamente, ignorerà serenamente quella funzione, mentre magari risulterà infastidito dalla brevità di una risposta, per quanto immediata. Ovviamente nessuno ha scritto una regola valida per tutti, e la possibilità introdotta dalla piattaforma di “non rendere pubblico il momento in cui abbiamo visualizzato un messaggio” non risolve minimamente gli equivoci che ne possono nascere.

Per dissipare, negli anni, questi equivoci, occorrerà capire col tempo a quali esigenze strettamente “sociali” degli utenti vengono incontro queste tecnologie. Dobbiamo imparare la lezione degli anni ’90, quando sviluppavamo una tecnologia pensando di indurre un bisogno (c’è un’intera scuola di marketing che poggia su questo assunto) mentre di fatto stava per accadere l’esatto contrario. E’ in quegli anni che furono fatti ingenti investimenti per permettere la fantascientifica “videotelefonata”, salvo poi scoprire che a nessuno interessava essere disturbati nella propria intimità, e dover gestire l’enorme carico sociale della propria immagine, in un momento deciso non da noi, ma da chi faceva squillare il nostro telefono. Ed è sempre in quegli anni che – senza fare grossi investimenti – fu deciso di sfruttare una caratteristica dello standard GSM per permettere agli utenti di inviare brevi messaggi di testo, gli SMS. Scoprendo così che la vera esigenza a cui non era stata data risposta era appunto quella di una comunicazione asincrona e a basso impatto emotivo. Una lezione che ancora in molti sembrano non aver imparato a sufficienza.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.

Ecco cosa vorrei che facessero i Google Glass

Si, lo so che molto presto arriveranno le applicazioni più svariate per i fantasmagorici occhialini di Mountain View. Ma per ora, a parte il “video in cui si vede che con i Google Glass si fanno i video” e qualche recensione ricolma di quell’entusiasmo d’ufficio tipico di chiunque riesca a mettere le mani sull’ultimo gadget sfornato in Silicon Valley, non mi pare che si sia visto granché, in termini di funzionalità rivoluzionarie.

E allora, visto che l’hardware lascia intatte potenzialità notevoli, e visto che devo difendere la mia avventata previsione secondo cui l’accrocco in questione sarebbe stato uno dei 5 trend del 2013, provo a scrivere qui quello che IO vorrei che si potesse fare coi Google Glass. Sviluppatori di tutto il mondo, prendete nota.

Mi piacerebbe se i Google Glass…

  1. Mi facessero vedere (ok, attivando un apposito layer, ma questo non lo diciamo più) tutti i percorsi enogastronomici dei dintorni a portata di colpo d’occhio. Per intenderci, se mi volto verso una collina, devo poter vedere “la riga arancione” della strada dei vini, dei salumi e dei formaggi del posto. Coi POI associati (la cantina, l’azienda agricola, ecc.). E la funzione “ci vado dopo” che mi manda un reminder tutte le volte che ripasso di lì, e magari ho più tempo da dedicare alla cosa –  che è un modo gentile per dire “meglio ‘mbriacarsi quando non c’è mio suocero”.
  2. Mi evidenziassero, a 360 gradi, tutti i rischi di allergie colorando opportunamente i campi e i terreni nei paraggi. Graminacee? Attento a quei platani, sono blu. Una roba del genere.
  3. (questa è facile) Vorrei che mi mostrassero tutte le piste ciclabili, le vie del trekking, le antiche vie con rilevanza archeologica (la francigena, per esempio), e tutti gli altri luoghi di tortura dove si danno appuntamento gli esseri che si sono evoluti oltre il stato larvale in cui mi trovo. Facendomi adeguatamente apprezzare la mia condizione di ozio perenne, sapendo che ci sono loro lì intorno a sudare come muli.
  4. Non sarebbe male un “layer” per gli incendi boschivi. Ora mi direte: gli incendi si vedono anche senza occhiali. OK, ma lo sviluppo di un incendio si può modellizzare calcolando una serie di dati attuali e previsti (la direzione del vento, l’umidità, la temperatura) che fanno diventare “rosse” anche le zone che per ora sono verdi. No?
  5. Va bene, Latitude è stato appena mandato in pensione, ma un bel giorno potrebbe affermarsi un sistema universale in cui tutti stabiliscono cosa della propria esistenza (a cominciare dalla posizione nello spazio) può essere nota, in un dato momento, in rete. Così, una volta arrivati in spiaggia, invece di esclamare “che carnaio, non troveremo mai Sara e Matteo”, metteremo gli occhialetti e diremo “Ecco Sara. Hey, ma quello non è Matteo!” (ecc. ecc.)
  6. Forse il più urgente. Un bell’accordo tra Google e le principali concessionarie di pubblicità outdoor, le tanto odiate “affissioni”, sulla base del principio: “se abbattete i vostri cartellacci sulle consolari di Roma, obblighiamo tutti gli acquirenti dei Glass a vedere i vostri enormi 3 x 2 virtuali, quando usano qualche applicazione di realtà aumentata nella zona di Roma. E se vogliono farli sparire, no problem: pagano l’app (normalmente gratuita) e danno una revenue share a Google, una allo sviluppatore e uno alla concessionaria.” Tutti felici e contenti, specie quelli che abitano sulle consolari. Fiquo.
  7. Allo specchio, vorrei provare un accessorio di Etsy. Ma non l’ho ancora comprato. Oppure “chissà quanto starebbe bene quella gonna provenzale che ho visto su Etsy l’altro giorno addosso alla mia amica che compie gli anni dopodomani.”. Inforchiamo gli occhiali e…vabbè, avete capito.
  8. Sono appena arrivato a Parigi, sono le nove e non ho ancora prenotato l’Hotel. E’ sabato e non mi va di parlare con dieci reception per sapere se c’è posto. Ma ho i Google Glass in tasca, quindi nessun problema. Ovviamente vale anche per i ristoranti a trastevere. Mentre mi avvicino a quello libero, mi leggo le recensioni di TripAdvisor, magari faccio dietrofront prima di entrare.
  9. Car sharing, Bike Sharing, Segway Sharing (pare che esista), insomma quelle cose lì. No, non avvicinarti a quella stazione di scambio, hanno già preso tutte le bici. Se segui la freccia rossa ti faccio vedere io dove ne è rimasta qualcuna. Visto? Ne è rimasta una. Oops, ora ho capito perché è rimasta solo quella.
  10. “Non è il caso che tu le proponga di andare a vedere Godzilla al cinema. E’ viola, non vedi? Ha il ciclo. Per stasera è sushi. Lo dice anche Glamoo con l’offerta in alto a destra”.
  11. Il tizio che stai incrociando è verde: ha visto su SkyGo la partita che stai registrando su MySky. Sì, vorrà dirti il risultato. Schivalo.
  12. Nel raggio di 300 metri ci sono 24 persone coi Glass. Magari a qualcuno va di ballare “Get Lucky”. Esclama “Dance GetLucky” e guarda in quanti raggiungono la pista virtuale e inforcano l’auricolare. Si, lo so, sono i più sfigati, ma negli anni ’90 lo dicevamo anche dei tipi alla Zuckerberg. Ci vuole pazienza.
  13. “Fabio, sono in campo da dieci minuti e non ti sei ancora presentato. Mi sto spazientendo”. “Ma non era ieri?” “Era oggi, cretino. Avevo pure comprato le palle nuove. Vabbè, metti gli occhiali, prendi la Google Racket e sgombra il salotto”.

Lo so, la Google Racket non esiste, ma mi sono fatto prendere la mano.

wiMAN, la disintermediazione che funziona

Se avete una grande idea per fare un sacco di soldi, fate un pitch. Se non avete ancora l’idea, partite da un’esigenza, da una mancanza, da qualche intermediario inutile. E disintermediatelo, con una app o con un servizio sul Web.

L’Italia pullula di inutili intermediatori. Soggetti che trattengono il valore, che si frappongono tra utente e servizio, facendo pagare quello che a volte, in tutto o in parte, il Web può fare gratis e in un attimo. Dico “a volte e in parte”, perché quasi sempre i servizi “premium” non possono essere disintermediati con una semplice Web App. Pensiamo alla segreteria organizzativa: nessuno crede che Smappo possa sostituirsi all’organizzazione degli inviti per il World Economic Forum. Ma per molti altri eventi sì. Il punto è che fino a qualche anno fa un’agenzia di servizi paceva pagare la segreteria organizzativa sia per il World Economic Forum sia per un raduno di amanti della fotografia analogica, per dire.

Molto spesso, quindi, per un giovane imprenditore della rete, si tratta di intuire prima degli altri cosa può essere disintermediato e cosa no, e di costruirci sopra un modello che generi valore remunerato per tutte le parti in causa.

Per riuscirci, l’innovazione tecnologica è forse l’aspetto meno importante. Prendiamo wiMAN, una delle startup selezionate da Working Capital e arrivata tra le prime 16 finaliste a LeWeb. E’ un servizio di una semplicità unica. Si rivolge ai gestori di attività aperte al pubblico, proponendo loro la possibilità di creare un hot-spot wifi libero per i propri clienti, di facilissima e immediata attivazione, che determina automaticamente una pubblicità dell’attività commerciale sui social media.

L’esercente attiva il servizio in un baleno installando il kit (fondamentalmente un router da 79 euro), il cliente è attivo all’istante grazie a Facebook Connect, e a ogni connessione viene generato un post sul Facebook Account della persona collegata che promuove sia l’attività commerciale che lo stesso servizio wiMAN, rendendolo virale.

Vantaggi per tutti, oneri per nessuno. Il “disintermediato principale” è la burocrazia che richiede – stante l’incertezza normativa persistente – ancora una serie di passaggi, legati all’identità, per permettere l’accesso a internet su un hotspot free.

Dei due inventori pugliesi di questa trovata geniale, Massimo Ciuffreda e Michele di Mauro, ha già parlato diffusamente il Corriere della Sera, in un articolo che vi invito a leggere anche se risale allo scorso anno.

Di davvero nuovo, da qualche giorno, c’è la partnership di wiMAN con Telecom Italia per la sperimentazione del servizio TIMWifi, che offre accesso libero wireless in tutti i negozi sociali TIM. Un indizio non trascurabile che Working Capital si sta trasformando in una vera e propria fabbrica di servizi “su strada” in grado di accelerare non solo le startup ma anche il time to market interno. Quando arrivano segnali forti da chi mi paga lo stipendio è giusto segnalarlo anche in un luogo “laico” come questo, credo.

I nuovi narcisi e i danni della broadcastiquette

L’esistenza di un luogo dove tutti possono pubblicare tutto ha tante conseguenze. Uno degli effetti più controversi riguarda il rapporto con la nostra immagine e più in generale la pubblicità della nostra vita personale. La prima domanda che mi viene in mente è: quando pubblichiamo le cose più banali della nostra vita quotidiana, dobbiamo davvero preoccuparci se interessino o meno a qualcuno?

Ci pensavo l’altro giorno guardando questo video, invero molto divertente, che prende in giro il tipico “Instagram Heavy Sharer”: compulsivo fino al narcisismo e forse prigioniero di un proprio showbiz del tutto illusorio, alimentato dalle code di “like” del proprio target di riferimento.  Se il video è così divertente è perché nella sua ratio c’è un fondo di verità: su instagram, come su facebook o su twitter, esiste una quota fisiologica di nascisismo con cui noi per primi, ma anche chi ci segue, deve fare i conti.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Di chi è il vero problema? Nostro, perché siamo narcisi e dovremmo invece rientrare nei ranghi in base a qualche superiore principio di decenza collettiva o di chi non sa selezionare i contenuti di proprio interesse sulla rete, e continua quindi ad imbattersi nella nostra faccia? La domanda è legittima, specie se consideriamo che spesso chi si lamenta degli odiatissimi “autoscatti dei piedi” in realtà va in rete proprio perché troverà “autoscatti dei piedi” di cui poter lamentarsi. Il sospetto è quindi che anche le lamentele di chi fa un autoscatto siano sovente, a loro volta, una specie di autoscatto, che serve appunto a proiettare un altro tipo di “io, io, io”, quello che ripete implicitamente – ma altrettanto ossessivamente – la frase “io sono migliore di voi”.

Del resto, come per molte questioni che riguardano la Rete (gli insulti in Rete, le bufale in Rete, il porno in Rete e si potrebbe andare avanti a lungo), non esiste in realtà nessuna specifica versione “online” del narcisismo, anche se c’è una gran voglia di strumenti specifici per combatterlo. Esiste, come è sempre esistito, il narcisismo tout court, quello per intenderci dello struscio del sabato pomeriggio, così come sono sempre esistite le comari puntualmente alla finestra sullo stesso struscio dello stesso sabato pomeriggio.  Semplicemente, così come nei secoli abbiamo accettato l’idea di destinare una quota della nostra espressività alla comunicazione di noi stessi, oggi questo accade con strumenti più puntuali, che ci permettono di farlo compulsivamente, nei confronti dell’universo-mondo (e così ricorriamo al più molesto degli ego-casting, che infatti si rifà alle sempiterne regole del broadcasting), oppure in modo più mirato e consapevole. Per esempio, con l’idea di trasmettere senso – e quindi una precisa emozione – a degli interlocutori che conosciamo e che ci conoscono per come siamo, senza giudicarci. E fregandocene dolcemente di tutti gli altri – quelli che chi giudicheranno – perché sarà un problema loro, non nostro.

La questione è appena più complessa del pur condivisibile principio del “vivi e lascia vivere”. Intanto perché molto spesso, nel retrocranio di chi flagella la pubblicazione della “banalità del quotidiano”, compresa la banalità della nostra immagine, risiedono gli effetti di 50 anni di società dei media esercitata a titolo esclusivo da pochi per il consumo di tutti gli altri, per di più col vincolo di doverne fare un business.  Ma c’è un altro aspetto da non trascurare: se questi fustigatori avessero ragione, vorrebbe forse significare che dovremmo abbandonare del tutto la pubblicazione di contenuti personali, compresa la nostra immagine?  Magari per non urtare la suscettibilità dei depositari di una nuova “netiquette” che – come appena accennato – altro non è che il riflesso di una antichissima – e di dubbia efficacia sulla moralità pubblica – “broadcastiquette”? E infine: deve davvero passare il principio che pubblicare “cose nostre” abbia come unico scopo quello di attirare attenzione, essere immediatamente gratificati da un like, da una stellina, da un complimento? O qualcuno, magari una crescente minoranza, intende semplicemente esercitare una cosa troppo spesso dimenticata che si chiama “libertà d’espressione”, un diritto che forse riteniamo “tecnologicamente ormai acquisito” grazie al Web, quando in realtà basta una reazione neo-luddista, un riflesso condizionato dal passato, a rimetterlo in discussione?

HTML5 e DRM, tra ideologia e realpolitik

Seguo da qualche giorno, non senza un certa perplessità, i termini della polemica sul “possibile dialogo” tra HTML5 e moduli DRM.  La faccio breve, i tecnici mi scuseranno: si tratta di un progetto del W3C, l’organismo preposto a determinare l’evoluzione dei Web Standards, per permettere ad HTML5 di dialogare con componenti esterne per la gestione dei diritti digitali, in modo da consentire la visualizzazione nel browser di contenuti protetti.

Dato il brodo culturale in cui è nato il progetto HTML5, in opposizione a piattaforme proprietarie come Flash e Silverlight, non era difficile prevedere la levata di scudi di tutto il movimento Open nei confronti del W3C. Esso infatti si oppone per principio  all’idea stessa di condizionare l’accesso a un “subset” dei contenuti disponibili sul web, e quindi – per usare un eufemismo – non vede di buon occhio le tecnologie che rendono possibile questa pratica.

Ancor più prevedibile è che alla testa di questa reazione che – senza alcuna connotazione dispregiativa – potremmo definire “ideologica”, si ritrovi Richard Stallman, a cui l’intero movimento deve molto per la forza della sua voce su fondamentali questioni di principio in momenti ben più critici di questo.

All’attuale grado di evoluzione del dibattito mi sembra però di poter dire che questi timori siano più che altro legati all’idea che si verifichi una certa previsione “balistica”, quella secondo cui questa scelta costituirebbe solo il primo passo verso l’integrazione forzata del DRM all’interno dei sistemi operativi. Un vero e proprio “turning point” dunque, che facendo breccia nella “città proibita” della Open Internet (il browser, e non le applicazioni per intenderci) finirebbe per inquinare l’intero ecosistema Open.

La mia impressione è diversa. Intanto, mi pare un po’ strano che un movimento che si professa “Open” fondi una sua presunta strategia difensiva sulla necessità di non dialogare con dei “pezzi di codice”, anche se questi servono a una certa industria per rendere economicamente sostenibile la distribuzione di alcuni contenuti.

E poi, mi verrebbe da pensare, quale sarebbe l’alternativa? Secondo Peter Bright se le major e i broadcasters fossero tenuti fuori da uno standard codificato ne creerebbero uno “de facto”, come sempre accaduto in passato. E il browser perderebbe proprio quel crescente ruolo di protagonismo agnostico e trasparente su tutti i  “connected screens” che rende straordinariamente potente l’intero progetto HTML5. Chrome e Firefox, per fare un esempio, perderebbero la capacità di fare concorrenza su tutti i connected devices agli App Stores, cioè quegli ambienti protetti dove gli utenti hanno già dimostrato una notevolissima disponibilità a pagare contenuti, non percependo il valore di una alternativa a quel tipo di ecosistema.

In definitiva, decidere di non dialogare con chi, nel proprio (morente) modello di business, vede il DRM come l’unica soluzione, al di là della rivendicazione identitaria e della scelta ideologica, non porterebbe alcun vantaggio, ma solo l’enorme svantaggio di rendere ancora più complessa la già non semplice operazione di “popolarizzare” il movimento Open. Che non riguarda solo il codice, ma anche i dati, i contenuti, la shared culture e tante altre cose interessanti di cui parleremo il 5 giugno all’Open Camp a un pubblico il meno autoreferenziale possibile.

Tra l’altro, per chiudere il cerchio, anche il questo caso i grandi brand che sponsorizzano il progetto del W3C, e in particolare Google, Netflix e Microsoft, stanno palesemente usando ancora una volta la bandiera del DRM per tranquillizzare le major, proprio come fece a suo tempo Apple con iTunes. Ma non possono essere così sprovveduti da non sapere (come ben racconta ManuSporny – e grazie ad Alessio Biancalana per la segnalazione) che per chi vorrà pervicacemente craccare questi moduli l’operazione non porrà particolari difficoltà tecniche. Sulla scorta della mia memoria storica, potrei aggiungere che ancora una volta il DRM viene ipocritamente utilizzato come foglia di fico per vendere internamente alla vecchia industria l’evoluzione verso una nuova forma di distribuzione dei loro contenuti, e con essa una minima prospettiva di sostenibilità economica.

Ma il terreno dello scontro tra nuovo e vecchio ecosistema non potrà certo essere quello dell’incomunicabilità forzata dei protocolli e dei linguaggi. Piuttosto, occorrerà far fare al tempo il suo mestiere di galantuomo. Grazie al browser (ma anche grazie alle Desktop Apps in HTML5) e più in generale grazie alle piattaforme di distribuzione aperte, le nuove generazioni avranno comunque un crescente accesso a un ecosistema di contenuti indipendenti. Questi ultimi, come ebbi modo di dire nel corso di un panel sui trend emergenti in occasione dell’ultima Social Media Week, potranno quindi trovare autonomamente i loro modelli di sostenibilità liberandosi di tutti gli elementi che trattengono il valore, remunerando sempre più la creatività (del contenuto ma anche del modello) e sempre meno chi si mette in mezzo a far pagare qualche inutile pedaggio.

Questa, secondo me, è la strada. Il resto sono solo battaglie identitarie che anche troppi danni hanno già arrecato in passato.