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Connecting Television: raccontare il canone inverso

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Devo confessare una cosa: io non solo non so scrivere un libro (chi ha incocciato il mio capitolo di “Connecting Television” penso se ne sia accorto subito) ma soprattutto non so come si organizza la presentazione di un libro. Intendiamoci, il rito lo conosco bene, e ne subisco il fascino. Normalmente prevede un tipo occhialuto e con la pashmina che inizia a parlare a un gruppo di signore profumatissime, che accavallano gambe ancora piacenti su sedie scomode, con accanto l’autore – l’unico autorizzato ad avere sempre l’aria annoiata – il quale aspetta di poter anzitutto rimbalzare al mittente l’imbarazzante panegirico che lo ha appena investito, mostrandosi schivo e modesto per un brevissimo istante dal quale la Sua Creazione riemergerà monda di ogni autoreferenzialità e sarà quindi pronta a essere persino letta in pubblico dalla Sua Stessa Viva Voce, che si sarà casualmente posata su un brano abbastanza incuriosente ma poi non troppo spoilerante.

Il fatto di essere stati parecchie volte a Messa, però, non significa saper “dire Messa”. E così ci abbiamo proprio rinunciato, a fare “le belle presentazioni del prestigioso volume”, preferendo improvvisare una specie di mercato delle pulci nella speranza che tra pubblico e relatori qualcuno avrebbe comprato una vocale.

D’accordo, avevamo “zero budget”, ma anche,  bellepprònte, due fulgide location a Bologna e Milano. Avevamo soprattutto un libro che – apparentemente – iniziava ad invecchiare, ma invece stava solo diventando più saggio.

In circa due anni dall’uscita, più o meno, là fuori erano cominciate a succedere un po’ delle cose che avevamo provato a raccontare: grandi brand che iniziano a scrivere storie per la TV;  soldi che cominciano a finire direttamente nelle tasche dei creatori, senza essere filtrati dai distributori; un pubblico che decide lui i nuovi trend d’uso, iniziando a “creare senso” per gli altri utenti e addirittura, con la Social TV, ad avere lui (buffa parola), “un’audience”.

Così col professor Marinelli abbiamo preso il calendario e piantato il dito su due date un po’ a casaccio. L’idea era quella di trasformarle in altrettanti pretesti  per rilanciare la madre di tutte le grandi discussioni: che cavolo sta succedendo alla “grande sorella”? Che succede a questa televisione che qualcuno, in direzione ostinata e contraria rispetto all’incessante vento unidirezionale dei broadcaster, non rinuncia a voler collegare alla rete-che-fa-anche-tutto-il-resto, e pure nell’altro senso? Scusi lei, sì, dico a lei, quello che ha urlacchiato “sticazzi” dal fondo sala: eschi, per favore.

Abbiamo alzato il telefono, chiamato un po’ di belle persone, a cominciare da Massimo Mantellini, che abbiamo costretto con la forza a fare il “tipo occhialuto con la pashmina”, e siam partiti alla volta della patria dei turtelèn.

“Forse qualcuno verrà a sentire”, ci bisbigliavano gli indigeni mostrandoci un ingiustificatamente enorme articolo  apparso la mattina stessa sulla cronaca di Bologna del Carlino. Il vero dramma è che il titolo era una roba tipo “Correte, ci svelano il futuro della TV!”, alché l’idea di darsi malati e di proiettare in sostituzione Bugs Bunny  si era pure fatta strada.

Poi però abbiamo pensato che tutto sommato avevamo studiato e osservato per qualche annetto, abbastanza per poter raccontare qualcosa con più cognizione di causa degli attori, dei calciatori, dei parrucchieri che tutti i giorni se ne escono con cose come “sarà tutto in 3D, anzi al centro commerciale ho visto pure il 7D”. E quindi ci siamo pazientemente seduti sugli sgabelli e, mentre fuori era già quasi l’ora dell’aperitivo, abbiamo iniziato a raccontare questa roba qua.

Il pubblico? folto, molto attento, e in alcuni casi davvero molto qualificato. Tanto che “le domande”, alla fine, se le sono fatte soprattutto tra di loro, visto che in mezzo c’era gente tipo Angelo Ghigi e Giovanni Boccia Artieri. Il quale, per non tradire il primo dei suoi cognomi, ci ha poi subito condotti in un posto fighetto dietro l’angolo a bere una boccia di Brunello con contorno di sugna sopraffina. Il lambrusco l’avevano finito.

Nel frattempo, in vista della tappa finale milanese, le persone serie e soprattutto sobrie come Romana Andò stavano lavorando alacremente per reclutare autorevoli esponenti dell’universo broadcast. Perché – vedete – nella parte più “sana” della TV tradizionale, per esempio a MTV o Discovery, ci sono teste molto, molto pensanti che sanno dirci cosa, del “canone inverso” che sta per travolgerli può funzionare subito, cosa ancora no, cosa proprio mai mai mai, e soprattutto perché.

Per questo, nel giro di qualche giorno ci siamo ritrovati con Gianluca Neri sotto la madonnina (ditemi che Lambrate è ancora sotto la madonnina, vi prego) per farci raccontare proprio da loro gli ostacoli che impediscono una transizione più veloce verso una TV più libera: con contenuti davvero in concorrenza fra loro, indipendentemente dalla sorgente, meno vincoli “di palinsesto”, meno schiavitù “dell’audience” e magari con qualche nuovo modello di business, di quelli che altrove iniziano a funzionare, eccome.

E siccome stavolta davanti avevamo gente del mestiere (valenti analisti, autorevolissimi e imperscrutabili polemisti,  ma anche personcine che la web-tv la fanno, oltre che “scriverla”) ci è parso opportuno far parlare soprattutto loro, le due voci dell’industria con la I maiuscola, che per fortuna sono andate molto oltre il classico “bambole, non c’è una lira”, svelandoci un po’ di perché e persino qualche percome.

E dopo va beh, ci è parso ovvio e necessario annegare il tutto in un fiume di birra artigianale, perché pare che a Lambrate ci siano le cascate di birra artigianale, si sentiva il rumore in lontananza. Anche se alla fine sembrava un raduno di commilitoni: le ragazze ci hanno mollato “perché avevano da fare”, loro. E pazienza, anche perché io e Gallizio stavamo già elaborando le scuse per congegnare un fugone leggendario, ad ascoltare jazz in una specie di Million Dollar Hotel che forse ci siamo sognati, ma va bene lo stesso.