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La tecnologia è sopravvalutata

danielProvate ad aprire il menu “impostazioni” di Facebook. Non passa settimana che non venga introdotta una nuova funzionalità per dare all’utente il massimo controllo possibile – da un punto di vista tecnologico – del proprio account. A partire dalle liste, che permettono di scegliere chi può vedere i nostri post, per proseguire con la privacy (chi mi può contattare, chi mi può taggare, chi può vedere quello che gli altri postano nella propria timeline, ecc. ecc.) per finire con le opzioni “block” e “report”, in caso di decisioni più drastiche.

Se proviamo ad approfondire, scopriamo che è un trend generalizzato. I cosiddetti “Over The Top” players (e quindi anche Google, Amazon, EBay, ecc.) pensano così di rispondere alle crescenti – e ingiustificate – accuse di prestarsi agli abusi, quando non al compimento di veri e propri reati.

Si tratta, per carità, di funzionalità utilissime, ma che prestano il fianco a un equivoco: quello che il problema dell’uso dei social media (e quindi anche la soluzione degli abusi) sia un problema tecnologico. Cedere, come fanno gli OTT, a questo equivoco significa legittimare le posizioni di chi – spesso per difendere le proprie piattaforme di comunicazione “a una via” – accusa i social media in quanto tali, cioè “a due vie”. In quanto, per l’appunto, “social”.

In un social media, per quanto ricco di nuove funzionalità e di opzioni di personalizzazione, gli “effetti emotivi” di una azione compiuta nei nostri riguardi ha in realtà a che fare in primissima battuta coi codici (e quindi coi significati) che individualmente attribuiamo a tali azioni.

L’esempio più banale è il famigerato “Poke” di facebook. A seconda del contesto, del vissuto delle due persone che se lo scambiano, del significato individuale che gli attribuiamo se arriva da uno sconosciuto o comune se fa parte di una “storia” o di un linguaggio tra persone in confidenza, potrà voler dire molte cose diverse e determinare effetti emotivi molto diversi. Non a caso, quando fu introdotto,  non avendo alcun codice comune di interpretazione, generò parecchi equivoci.

Ma i problemi principali nascono dalla confusione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Infatti, quando scriviamo qualcosa in pubblico, spesso mandiamo un messaggio speciale a qualcuno in particolare, pensando che lo possa leggere in un certo modo,  presumendo di avere un codice comune di intepretazione di quel messaggio. O magari ci rivolgiamo alla nicchia che condivide il nostro linguaggio pensando che ciò sia sufficiente perchè possa essere decodificato nel modo che desideriamo.

A volte, inconsciamente o meno, gestiamo i nostri messaggi pubblici con le logiche della comunicazione di massa. Se siamo molto noti in un ambito ristretto (se ci leggono spesso – diciamo – un migliaio di persone) ci comportiamo da “microcelebrità” e pensiamo di rivolgerci indistintamente alla nostra “micromassa”, adottando un nostro stile che riteniamo sia “micro-universalmente riconosciuto”. E tutti questi ossimori (microcelebrità, micromassa, microuniversale ecc.) dovrebbero rivelarci quanto mal riposta sia la nostra speranza di aver scritto un codice forte come quelli consolidati in anni da chi (giornali, radio, televisioni) poteva nutrire questa ambizione per il fatto di gestire canali esclusivi e monodirezionali.

Sovente ci comportiamo come quegli adolescenti che avendo una propria grezza idea di come debba svolgersi una relazione sociale rimaniamo delusi (e scornati) quando vediamo che l’interlocutore, banalmente, la vede diversamente.

Pensiamo alla famigerata funzione “visualizzato alle” di Whatsapp. il “Gruppo A”  dà per scontato che l’instant messaging richieda sempre una risposta immediata. Altri, il “Gruppo B”, lo considerano un mezzo del tutto asincrono, proprio come la posta elettronica.  Ebbene, i primi si sentiranno in obbligo di rispondere sempre e subito, magari anche frettolosamente. E per non avvertire la pressione di tale obbligo, troveranno utile disabilitare la funzione “visualizzato alle”. Il Gruppo B, inversamente, ignorerà serenamente quella funzione, mentre magari risulterà infastidito dalla brevità di una risposta, per quanto immediata. Ovviamente nessuno ha scritto una regola valida per tutti, e la possibilità introdotta dalla piattaforma di “non rendere pubblico il momento in cui abbiamo visualizzato un messaggio” non risolve minimamente gli equivoci che ne possono nascere.

Per dissipare, negli anni, questi equivoci, occorrerà capire col tempo a quali esigenze strettamente “sociali” degli utenti vengono incontro queste tecnologie. Dobbiamo imparare la lezione degli anni ’90, quando sviluppavamo una tecnologia pensando di indurre un bisogno (c’è un’intera scuola di marketing che poggia su questo assunto) mentre di fatto stava per accadere l’esatto contrario. E’ in quegli anni che furono fatti ingenti investimenti per permettere la fantascientifica “videotelefonata”, salvo poi scoprire che a nessuno interessava essere disturbati nella propria intimità, e dover gestire l’enorme carico sociale della propria immagine, in un momento deciso non da noi, ma da chi faceva squillare il nostro telefono. Ed è sempre in quegli anni che – senza fare grossi investimenti – fu deciso di sfruttare una caratteristica dello standard GSM per permettere agli utenti di inviare brevi messaggi di testo, gli SMS. Scoprendo così che la vera esigenza a cui non era stata data risposta era appunto quella di una comunicazione asincrona e a basso impatto emotivo. Una lezione che ancora in molti sembrano non aver imparato a sufficienza.

Dott. Merlo, mi dispiace ma Twitter è un’altra cosa

Egregio Dottor Francesco Merlo, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: lei è un grande giornalista. Grazie alle argute e puntuali analisi sue e dei suoi valenti colleghi di “Repubblica”, abbiamo potuto esplorare quotidianamente il ventre molle del berlusconismo, responsabile nell’ultimo ventennio della più devastante involuzione culturale del nostro Paese. Se un giorno l’informazione italiana vedrà rispuntare il sol dell’avvenire, lo dovremo in larga misura al lavoro suo e degli altri pochi giornalisti riusciti a sfuggire alle logiche di questo sciagurato scorcio di storia.

Leggendo il suo articolo di oggi su Twitter, però, appare purtroppo chiaro che Lei ritenga le sue indiscusse qualità professionali sufficienti a parlare diffusamente di qualcosa (Twitter e Internet più in generale) che nessuno può pensare di conoscere per il semplice fatto di saperlo usare. E’ questo un equivoco in cui cadono illustri rappresentanti di tante industrie che la grande Rete sta obbligando a mettersi in discussione, a cominciare proprio dall’editoria.

Il fatto che sia io sia lei siamo in grado di gestire un account twitter, di creare un blog su wordpress, di gestire una pagina Facebook non significa comprendere compiutamente il loro impatto sul sistema dell’informazione. Non significa, per farla breve, che siamo “esperti”, o che “possiamo scrivere un articolo di analisi su twitter”.

Faccio un esempio. Quando lei sostiene che twitter ci ha trasformati in un esercito di aspiranti Flaiano, per il fatto di costringere tutti a un aforisma di 140 caratteri, dimostra di non sapere che quella sparuta (ma influente) minoranza di persone che usa twitter per informare non twitta “messaggi”, ma link ad altri contenuti: foto, video, e ovviamente articoli di approfondimento. Twitter, per intenderci, è usato come strumento di “content curation”, e non a caso gli account più popolari non sono quelli di chi mette in fila gli aforismi più sagaci, ma quelli che nel tempo hanno guadagnato l’autorevolezza e la credibilità di chi seleziona solo contenuti validi, svolgendo un vero e proprio ruolo editoriale. Il ruolo, per intenderci, che sarebbe il vostro.

Il fatto che molti politici, personaggi illustri e financo giornalisti, nell’usare twitter si facciano stregare dal “flaianismo d’accatto” non significa che siano questi gli usi che devono essere presi a modello. Se costoro hanno molti iscritti, lo devono alla loro notorietà pregressa acquisita ben lontano dalla rete (la politica, la televisione, gli stessi giornali).

Insomma non mi pare che il fenomeno twitter lo abbia centrato con grande rigore giornalistico, come del resto accadde a suo tempo coi blogger, che per anni ha definito dei frustrati che passano la loro vita a scrivere rinchiusi nelle loro camerette, spesso facendo le pulci ai giornali non essendo riusciti a diventare ciò che avrebbero voluto (e cioè giornalisti come lei). Ebbene, a questo proposito potrà forse stupirla scoprire alcune cose.

Per cominciare, la definizione “blogger” è sbagliata dall’inizio. Essa infatti potrebbe descrivere, indifferentemente:

  1. chi ha un account su WordPress o altra piattaforma di blogging che magari ha utilizzato una volta sola per poi subito scocciarsi;
  2. chi ha un blog popolarissimo in quanto ben noto grazie ai mezzi di comunicazione tradizionali (cantanti, attori, ovviamente giornalisti, ecc.);
  3. chi – eh si, esistono – ha guadagnato un pubblico di lettori su un blog semplicemente perché scrive bene o scrive cose di valore.

Ebbene, soffermiamoci per un attimo su quest’ultimo segmento di persone, e proviamo a chiamarle “i letti”. Costoro non solo non vivono rinchiusi nelle loro camerette, ma spesso cercano di conoscere di persona chi popola la loro piccola o grande community: per affinità, per un salutare scambio di idee, o semplicemente perché è bello farlo. Altra sorpresa sconvolgente: per il fatto stesso di avere un piccolo o grande seguito, solo pochi – tra costoro – intendono trasformare il blog (o l’account twitter, o quello che è) in un lavoro o in una fonte di reddito, diventando per esempio scrittori o giornalisti. La stragrande maggioranza di loro, infatti, hanno solo scoperto di poter entrare in questo modo in contatto con persone piene di idee, di talento, di cose belle.

Allo stesso modo, me lo permetterà, ci sono molte persone che per anni sono state “lette” semplicemente perché avevano a disposizione una tipografia e una distribuzione in migliaia di edicole. Non so che fine farebbero questi ultimi se oggi si misurassero ad armi pari col vero talento dei “letti” (io sospetto che sparirebbero in un amen, ma forse sono di parte). Perché idee, talento, cose belle arrivano non solo dai giornali, dai libri, dalle radio, dalle televisioni, ma anche da una cosa che sta là fuori, che si chiama “Internet” e che non si nutre solo dei derivati dei mezzi di comunicazione tradizionali, ma inizia ad avere una vita propria, che magari sarebbe meglio esplorare con più attenzione.

Insomma, così come all’ultimo Festival di Perugia mi chiesi come mai il giornalismo tradizionale avesse il brutto vizio di prendere ad esempio una parte di internet per descrivere il tutto e dimostrare una tesi precostituita (“Grillo è il web = Grillo è il male = Il web è il male”), anche stavolta la ritrovo ad occupare una intera pagina di un quotidiano nazionale per dare rilevanza ad account twitter gestiti male da persone che non hanno compreso questo strumento. Politici, giornalisti, celebrità che – lo capisco – fanno notizia con le loro gaffe, ma non vedo cosa c’entri la constatazione della loro imperizia col giudizio complessivo del mezzo.

Il sospetto è che dietro questo tipo di pre-giudizio vi sia il terrore che l’unica chance di sopravvivenza del vecchio giornalismo sia raccontare “una certa storia” alla metà del paese che ancora oggi va solo in edicola. Del resto, se in spiaggia mi sono imbattuto nel suo pezzo di oggi è stato solo perché non volevo che la sabbia entrasse nel mio tablet dove di norma leggo cose molto più interessanti con aggregatori come Flipboard. Dove trovo (tutti insieme, e chissà come mai non mi dà alcun fastidio) un fondo del Wall Street Journal, un post di un mio amico “blogger”, un tweet con un link interessante, le migliori foto e i migliori video del giorno. Tutti contenuti scelti su misura per me. Scelti non solo da astrusi algoritmi, ma da gente che mi conosce personalmente, che sa cosa ha davvero “senso” per me, a prescindere dalla carta, dalla piattaforma, dai 140 caratteri o dalle 5 cartelle o dalle 30.000 battute.

Se le cose stanno così, se la vostra ultima trincea è davvero l’estremo tentativo di popolarizzare questi pregiudizi sui nuovi strumenti, temo proprio, caro Dr. Merlo, che per difendere il vostro business abbiate bisogno di qualcosa di più articolato di una strategia così miope. E non parlo solo del rischio che qualcuno inventi il tablet a prova di sabbia.

I nuovi narcisi e i danni della broadcastiquette

L’esistenza di un luogo dove tutti possono pubblicare tutto ha tante conseguenze. Uno degli effetti più controversi riguarda il rapporto con la nostra immagine e più in generale la pubblicità della nostra vita personale. La prima domanda che mi viene in mente è: quando pubblichiamo le cose più banali della nostra vita quotidiana, dobbiamo davvero preoccuparci se interessino o meno a qualcuno?

Ci pensavo l’altro giorno guardando questo video, invero molto divertente, che prende in giro il tipico “Instagram Heavy Sharer”: compulsivo fino al narcisismo e forse prigioniero di un proprio showbiz del tutto illusorio, alimentato dalle code di “like” del proprio target di riferimento.  Se il video è così divertente è perché nella sua ratio c’è un fondo di verità: su instagram, come su facebook o su twitter, esiste una quota fisiologica di nascisismo con cui noi per primi, ma anche chi ci segue, deve fare i conti.

Ma torniamo alla domanda iniziale. Di chi è il vero problema? Nostro, perché siamo narcisi e dovremmo invece rientrare nei ranghi in base a qualche superiore principio di decenza collettiva o di chi non sa selezionare i contenuti di proprio interesse sulla rete, e continua quindi ad imbattersi nella nostra faccia? La domanda è legittima, specie se consideriamo che spesso chi si lamenta degli odiatissimi “autoscatti dei piedi” in realtà va in rete proprio perché troverà “autoscatti dei piedi” di cui poter lamentarsi. Il sospetto è quindi che anche le lamentele di chi fa un autoscatto siano sovente, a loro volta, una specie di autoscatto, che serve appunto a proiettare un altro tipo di “io, io, io”, quello che ripete implicitamente – ma altrettanto ossessivamente – la frase “io sono migliore di voi”.

Del resto, come per molte questioni che riguardano la Rete (gli insulti in Rete, le bufale in Rete, il porno in Rete e si potrebbe andare avanti a lungo), non esiste in realtà nessuna specifica versione “online” del narcisismo, anche se c’è una gran voglia di strumenti specifici per combatterlo. Esiste, come è sempre esistito, il narcisismo tout court, quello per intenderci dello struscio del sabato pomeriggio, così come sono sempre esistite le comari puntualmente alla finestra sullo stesso struscio dello stesso sabato pomeriggio.  Semplicemente, così come nei secoli abbiamo accettato l’idea di destinare una quota della nostra espressività alla comunicazione di noi stessi, oggi questo accade con strumenti più puntuali, che ci permettono di farlo compulsivamente, nei confronti dell’universo-mondo (e così ricorriamo al più molesto degli ego-casting, che infatti si rifà alle sempiterne regole del broadcasting), oppure in modo più mirato e consapevole. Per esempio, con l’idea di trasmettere senso – e quindi una precisa emozione – a degli interlocutori che conosciamo e che ci conoscono per come siamo, senza giudicarci. E fregandocene dolcemente di tutti gli altri – quelli che chi giudicheranno – perché sarà un problema loro, non nostro.

La questione è appena più complessa del pur condivisibile principio del “vivi e lascia vivere”. Intanto perché molto spesso, nel retrocranio di chi flagella la pubblicazione della “banalità del quotidiano”, compresa la banalità della nostra immagine, risiedono gli effetti di 50 anni di società dei media esercitata a titolo esclusivo da pochi per il consumo di tutti gli altri, per di più col vincolo di doverne fare un business.  Ma c’è un altro aspetto da non trascurare: se questi fustigatori avessero ragione, vorrebbe forse significare che dovremmo abbandonare del tutto la pubblicazione di contenuti personali, compresa la nostra immagine?  Magari per non urtare la suscettibilità dei depositari di una nuova “netiquette” che – come appena accennato – altro non è che il riflesso di una antichissima – e di dubbia efficacia sulla moralità pubblica – “broadcastiquette”? E infine: deve davvero passare il principio che pubblicare “cose nostre” abbia come unico scopo quello di attirare attenzione, essere immediatamente gratificati da un like, da una stellina, da un complimento? O qualcuno, magari una crescente minoranza, intende semplicemente esercitare una cosa troppo spesso dimenticata che si chiama “libertà d’espressione”, un diritto che forse riteniamo “tecnologicamente ormai acquisito” grazie al Web, quando in realtà basta una reazione neo-luddista, un riflesso condizionato dal passato, a rimetterlo in discussione?

HTML5 e DRM, tra ideologia e realpolitik

Seguo da qualche giorno, non senza un certa perplessità, i termini della polemica sul “possibile dialogo” tra HTML5 e moduli DRM.  La faccio breve, i tecnici mi scuseranno: si tratta di un progetto del W3C, l’organismo preposto a determinare l’evoluzione dei Web Standards, per permettere ad HTML5 di dialogare con componenti esterne per la gestione dei diritti digitali, in modo da consentire la visualizzazione nel browser di contenuti protetti.

Dato il brodo culturale in cui è nato il progetto HTML5, in opposizione a piattaforme proprietarie come Flash e Silverlight, non era difficile prevedere la levata di scudi di tutto il movimento Open nei confronti del W3C. Esso infatti si oppone per principio  all’idea stessa di condizionare l’accesso a un “subset” dei contenuti disponibili sul web, e quindi – per usare un eufemismo – non vede di buon occhio le tecnologie che rendono possibile questa pratica.

Ancor più prevedibile è che alla testa di questa reazione che – senza alcuna connotazione dispregiativa – potremmo definire “ideologica”, si ritrovi Richard Stallman, a cui l’intero movimento deve molto per la forza della sua voce su fondamentali questioni di principio in momenti ben più critici di questo.

All’attuale grado di evoluzione del dibattito mi sembra però di poter dire che questi timori siano più che altro legati all’idea che si verifichi una certa previsione “balistica”, quella secondo cui questa scelta costituirebbe solo il primo passo verso l’integrazione forzata del DRM all’interno dei sistemi operativi. Un vero e proprio “turning point” dunque, che facendo breccia nella “città proibita” della Open Internet (il browser, e non le applicazioni per intenderci) finirebbe per inquinare l’intero ecosistema Open.

La mia impressione è diversa. Intanto, mi pare un po’ strano che un movimento che si professa “Open” fondi una sua presunta strategia difensiva sulla necessità di non dialogare con dei “pezzi di codice”, anche se questi servono a una certa industria per rendere economicamente sostenibile la distribuzione di alcuni contenuti.

E poi, mi verrebbe da pensare, quale sarebbe l’alternativa? Secondo Peter Bright se le major e i broadcasters fossero tenuti fuori da uno standard codificato ne creerebbero uno “de facto”, come sempre accaduto in passato. E il browser perderebbe proprio quel crescente ruolo di protagonismo agnostico e trasparente su tutti i  “connected screens” che rende straordinariamente potente l’intero progetto HTML5. Chrome e Firefox, per fare un esempio, perderebbero la capacità di fare concorrenza su tutti i connected devices agli App Stores, cioè quegli ambienti protetti dove gli utenti hanno già dimostrato una notevolissima disponibilità a pagare contenuti, non percependo il valore di una alternativa a quel tipo di ecosistema.

In definitiva, decidere di non dialogare con chi, nel proprio (morente) modello di business, vede il DRM come l’unica soluzione, al di là della rivendicazione identitaria e della scelta ideologica, non porterebbe alcun vantaggio, ma solo l’enorme svantaggio di rendere ancora più complessa la già non semplice operazione di “popolarizzare” il movimento Open. Che non riguarda solo il codice, ma anche i dati, i contenuti, la shared culture e tante altre cose interessanti di cui parleremo il 5 giugno all’Open Camp a un pubblico il meno autoreferenziale possibile.

Tra l’altro, per chiudere il cerchio, anche il questo caso i grandi brand che sponsorizzano il progetto del W3C, e in particolare Google, Netflix e Microsoft, stanno palesemente usando ancora una volta la bandiera del DRM per tranquillizzare le major, proprio come fece a suo tempo Apple con iTunes. Ma non possono essere così sprovveduti da non sapere (come ben racconta ManuSporny – e grazie ad Alessio Biancalana per la segnalazione) che per chi vorrà pervicacemente craccare questi moduli l’operazione non porrà particolari difficoltà tecniche. Sulla scorta della mia memoria storica, potrei aggiungere che ancora una volta il DRM viene ipocritamente utilizzato come foglia di fico per vendere internamente alla vecchia industria l’evoluzione verso una nuova forma di distribuzione dei loro contenuti, e con essa una minima prospettiva di sostenibilità economica.

Ma il terreno dello scontro tra nuovo e vecchio ecosistema non potrà certo essere quello dell’incomunicabilità forzata dei protocolli e dei linguaggi. Piuttosto, occorrerà far fare al tempo il suo mestiere di galantuomo. Grazie al browser (ma anche grazie alle Desktop Apps in HTML5) e più in generale grazie alle piattaforme di distribuzione aperte, le nuove generazioni avranno comunque un crescente accesso a un ecosistema di contenuti indipendenti. Questi ultimi, come ebbi modo di dire nel corso di un panel sui trend emergenti in occasione dell’ultima Social Media Week, potranno quindi trovare autonomamente i loro modelli di sostenibilità liberandosi di tutti gli elementi che trattengono il valore, remunerando sempre più la creatività (del contenuto ma anche del modello) e sempre meno chi si mette in mezzo a far pagare qualche inutile pedaggio.

Questa, secondo me, è la strada. Il resto sono solo battaglie identitarie che anche troppi danni hanno già arrecato in passato.

L’effimero eldorado dei detrattori del web

blogging Torno (claudicante) dal Festival del Giornalismo, cerco di mettere in ordine le idee venute fuori da mille incontri, panel, dibattiti, e ho un netto senso di deja vu. Ne parlavo l’altro giorno al telefono con l’amico Luca, uno che di rapporto tra informazione offline e online ci capisce qualcosina. E siamo d’accordo su una cosa: su questo tema, da sempre centrale al Festival, il dibattito non solo non fa passi avanti, ma percorre anche qualche centimetro all’indietro.

La scusa per questa regressione ce l’ha regalata Beppe Grillo. Infatti, come ho scritto in un amaro twit da Perugia, l’unico vero impatto di Grillo è stato consegnare alla stampa l’immagine di internet che ha sempre desiderato. Una accozzaglia di gente frustrata e sgrammaticata, facilmente strumentalizzabile dal primo tribuno che si presenta in piazza. E – per estensione – un esercito di dilettanti allo sbaraglio: dilettanti del giornalismo per cominciare, ma anche della scrittura, della democrazia, del’arte, della musica, insomma gente che per il solo fatto di non essere pagata per fare qualcosa, automaticamente non produce alcun valore. Anzi, banalizza, involgarisce, e persino distrugge, in una folle corsa collettiva alla battuta più tranchant, all’aforisma più fulminante col solo obbiettivo di guadagnare follower su follower come non ci fosse un domani.

Per la nuova generazione dei detrattori del Web l’exploit elettorale di Beppe Grillo è stato insomma un vero e proprio eldorado. Ed è buffo, perché chiunque conosca le basi della comunicazione politica sa bene che l’operazione Grillo/Casaleggio somiglia molto, ma molto di più a una operazione televisiva che a una campagna online. Somiglia drammaticamente, per intenderci, all’operazione “Forza Italia”: comunicazione top-down, personalismo, pochi slogan tautologici. Si dirà “ma come, Grillo non occupa i media, li snobba”. Certo, può snobbarli anzi deve, perché sa bene che nel 2013 si fa più notizia espellendo un parlamentare perché è andato a un talk show che mandarlo ad aumentare il “rumore di fondo”. In questo si può dire che quella del Movimento 5 Stelle è davvero una operazione geniale. Ma non si dica che è una operazione guidata dal web. Come fu notato agli inizi del suo blog, Beppe Grillo non risponde non solo ai giornalisti, ma nemmeno ai suoi seguaci: pubblica i post esattamente come fossero comunicati stampa, senza concedere alcuna possibilità al contraddittorio. Quindi, concludendo, Grillo non è “Il Web”, è il suo opposto. Casaleggio non è “un guru”, ma solo un abile spin doctor, e pure di quelli vecchia maniera.

Ciononostante i vari Michele Serra, Massimo Giannini e Francesco Merlo (tanto per non fare nomi e non fare riferimento a un giornale in particolare) sono convinti di aver trovato una specie di eterno klondike, al grido implicito di “ecco il Web che voleva rifondare l’informazione, la democrazia, la cultura, l’establishment, ecco il pericolo dove vogliono trascinarci”. E a questo filone d’oro, anch’esso tautologico, attingono a piene mani tutte le volte che hanno una qualche crisi di creatività o non riescono a dare una spiegazione sensata alla situazione politica nella quale ci troviamo. Forse proprio perché nessuno, proprio nessuno, si è mai sognato di fare da noi quello che col web ha fatto, per citare il caso più celebre, Barack Obama.

Ma ovviamente adesso le due vittorie di Obama, costruite in larga parte online, sono acqua passata. Il problema non è l’Italia, non sono i nostri partiti. Il problema è quella maledetta invenzione, il protocollo TCP-IP e la sua interoperabilità, che ha permesso a tutti di pubblicare qualsiasi cosa, e metterla subito disposizione di tutti. Su una piattaforma ancora miracolosamente laica e neutrale rispetto ai contenuti. Senza dover montare tralicci, lanciare satelliti, allestire tipografie.

Un sacrilegio, insomma. E a Perugia, di questo atto collettivo di lesa maestà nei confronti dei mandarini dell’industria dei contenuti, si sono visti chiaramente i segni. Proprio perché, grazie a Grillo, finalmente c’era qualcosa di orrendo che potesse personificare il Web, in una equazione facilmente vendibile a chi ancora, con una specie di rito feticista, tutte le mattine esce di casa, si reca presso un chiosco colorato dove ormai si vende qualsiasi cosa, prende i soldi in un portafogli, estrae se va bene un euro e venti e compra una cosa inquinante su cui è stampata pubblicità mescolata a dei testi che secondo qualcuno dovrebbero saturare la nostra voglia di capire, ogni giorno, cosa succede nel mondo. Ma non è così. L’eldorado di Grillo è drammaticamente effimero per la stampa di sempre. E’ solo il prolungamento di una terribile agonia, che potrebbe persino tramutarsi in resurrezione se davvero questi mandarini per tutte le stagioni stessero a sentire quello che per fortuna gli ospiti internazionali del festival, come Anthony De Rosa o Mathew Ingram sono venuti a raccontarci.

E’ inutile, come fa Repubblica, proclamare di ispirarsi al modello del Guardian se poi i feed sono inaccessibili e nessuno prova nemmeno a capire cosa sia l’Open Data Journalism. E’ inutile, come fa il mio ex-collega (posso?) del Sole 24 Ore Ugo Tramballi, meditare di chiudere il proprio blog nella convinzione che tutta l’informazione online sia condannata alla deriva della brevità, della velocità, e della conseguente incapacità di analisi, come se il problema fosse la piattaforma, e non la necessità di modificare il modo di lavorare. Il fatto che oggi, a differenza di vent’anni fa, sia infinitamente più facile -come nel caso di Andrea Marinelli – diventare un freelance di successo prima ancora che un blogger di successo dimostra che il problema non è l’evoluzione tecnologica.

Il punto è che il pubblico ha trovato altri modi di informarsi, di aggregare e scegliere le notizie secondo i propri interessi e a condizioni economiche non più stabilite da chi poteva allestire una catena distributiva verticalmente integrata. La vera cosa che i giornali stanno perdendo, in sintesi, è la capacità di stabilire cos’è una notizia. Finché non capiranno questo, temo, torneremo dall’edizione 2023 del Festival di Perugia con lo stesso, identico senso di deja vu di oggi. Ma anche senza la forza di scrivere ancora un post così lungo e lamentoso.

P.S.: ora posso rivelarlo: il sondaggio condotto negli USA che ha prodotto gli istogrammi dell’immagine è del 2008. In Italia, nel 2013, ci metterei la firma.

Context is King, Content is Apps

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E se fossero proprio le tecnologie aperte come HTML5 a permettere ai creatori di contenuti di stabilire autonomamente i loro modelli di business?

Se fossi riuscito, col mio coloratissimo Prezi a seminare un dubbio di questo tipo tra gli avventori del Media Web Symposium di Berlino, lo considererei già un successo trionfale. Per ben due giorni la kermesse organizzata dal Fraunhofer Institut sulle tecnologie d’interazione applicate all’industria dei contenuti si è concentrata su fenomeni “di processo”: la connected TV, il multiscreen, la ricerca di uno streaming davvero “agnostico” rispetto a chi lo diffonde sul Web.

Ma rimaneva un grosso “buco” al centro del programma, quello su come queste evoluzioni tecnologiche si incontrano (o ignorano) i nuovi trend d’uso, e soprattutto come possono abilitare ecosistemi del tutto inediti, non necessariamente governati da vecchi e nuovi aspiranti “padroni del vapore”.

E in quello spazio mi sono infilato io, con la scusa di concedere una tregua a un pubblico forse in vena di staccare per un attimo dal tema dei linguaggi di programmazione e degli standard.

Nel mio speech ho provato a percorrere un pezzo di passato fino a un possibile futuro: dal 1990 al 2020, con al centro una fotografia del momento che stiamo vivendo, il 2013.

Si passa quindi da un ecosistema bloccato (1990), in cui il modello “sussidia” in prima istanza i detentori dell’infrastruttura distributiva, che possono così dettare regole, vincoli e modelli di business per tutti gli altri attori a monte della catena, a cominciare dai Content Owners…

…a una fase, quella attuale (2013), in cui nuovi soggetti provano a sostituirsi ai vecchi “tycoon”, facendo valere i propri asset non duplicabili (la piattaforma, il device, i contenuti mainstream)…

…per sbarcare in un 2020 dove appare un nuovo ecosistema che ancora non si sostituisce al vecchio, ma progressivamente sottrae eyeballs, attenzione e quindi fonti di ricavo ai modelli precedenti, facendo soprattutto leva sul “senso” del contenuto (“Context is King”).

La straordinaria resistenza al cambiamento di TV, Radio, Giornali e Libri è solo scalfita dai newcomers, il cui principale fattore di successo, nel conseguire una sostenibilità economica, è allearsi coi nuovi player che sul Web spingono verso linguaggi, codec, pratiche aperte e non controllabili da pochi soggetti. L’area del sussidio si allontana dai distributori e per la prima volta si avvicina al content provider indipendente, che è libero di studiare il format insieme al nuovo meccanismo di remunerazione. Per esempio, all’interno di una App “agnostica” rispetto alla piattaforma, e in grado (magari grazie a HTML5) di girare su qualsiasi browser. Sullo sfondo, le nuove esigenze di consumatori ormai smaliziati, che da un lato si tuffano nella “diversity” offerta dal Web, dall’altro confermano di usare i social media per i grandi, irrinunciabili momenti di aggregazione.

Il video in italiano, registrato pochi giorni prima alla Social Media Week, è qui. I vostri commenti sono più che mai graditi.

Milano da twittare

C’è un primo, grande paradosso che è apparso in tutta la sua evidenza durante la Social Media Week che si è recentemente chiusa a Milano. Mentre dai vari “panel” ci si produceva nell’ennesimo sforzo di dimostrare come la rete ci liberi da mille vincoli, scatenando la creatività delle persone e mettendo le idee a disposizione di tutti, la stampa mainstream guardava Grillo in Piazza del Duomo e concludeva questo: “Visto? La rete è roba da frustrati, astiosi dilettanti rinchiusi nelle loro camerette, ridateci il monopolio dell’informazione”.

C’era dunque bisogno di un evento non “per addetti ai lavori”, non isolato in una nuvola autoreferenziale, ma “su strada”, che incuriosissse anche visivamente l’avventore casuale. Occorreva non spaventarlo con la solita cascata di buzzword, e magari sedurlo attraverso il racconto di come la Rete cambia la nostra vita quotidiana, quella fatta di cose che si toccano e di persone che si guardano negli occhi.

Posso dire che Hagakure c’è riuscita? OK, mi limito a pubblicare qualche numero che ciascuno potrà liberamente interpretare. In fondo siamo il popolo dei 10.000 visitatori “secondo la Questura”, quindi anche la matematica è una simpatica opinione 🙂

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Circa i panel che sono riuscito a seguire, cito a memoria:

–  “Web Everywhere!” il dibattito sulle prospettive di una rete omnipresente: anche qui siamo in pieno conflitto d’interesse, ma non posso esimermi dall’esaltare la splendida deriva socioantropologica innescata dai brillantissimi Bennato e Mulé;

Social Media & Comics, dove incontrastate star della satira in rete come Zerocalcare hanno trasformato Palazzo Reale in una sorta di Zelig improvvisato;

Governi, piazze, mercati e palazzi. Come Twitter cambia il mondo in cui Matthias Lufkens, capo della sezione Digital di Burson-Marsteller, ha raccontato in che modo – ancora a volte troppo ingenuo – i governanti dell’orbe terracqueo usano i social media (come cambia in fretta il mondo, vero Eric?);

Non potevo infine mancare (perché ero sul palco, mica per altro) il dibattito di chiusura, dove – fortunatamente con modalità del tutto ludiche – l’ineffabile Gianluca Neri ha tormentato i relatori con pungenti domande sui possibili trend del 2013. Io me la sono cavata con un nuovo Prezi sull’evoluzione degli ecosistemi dei media, in realtà una specie di anteprima della presentazione che sto per tenere a Berlino per il Media Web Symposium 2013. Per una analisi più puntuale di quella roba lì, rimando al prossimo post dalla Crante Cermania.

Concludendo, sono sicuro che i molti personaggi che sono pagati non per lavorare, ma per parlar male del lavoro degli altri, avranno da ridire anche sulla Social Media Week. Da parte mia, io non vedo l’ora che ne organizzino un’altra, magari all’ombra del Colosseo, e possibilmente col sole. Perché OK, la neve a fiocconi è bella e romantica, ma insomma, ecco, come dire.

La carica degli ovetti

ovetti-twitter-renzi-130x300Se seguite la campagna elettorale su twitter con un minimo di assiduità, non potete non averli incontrati almeno una volta. Sono loro, gli ovetti, le centinaia, forse migliaia di account con un nome, ma senza un volto (costerebbe troppo) che stanno infestando le conversazioni online sui temi politici. Come è fin troppo facile capire, li hanno creati ad arte per intervenire tempestivamente nelle discussioni dove, legittimamente o meno, viene attaccato un candidato da difendere. La strategia è quella del branco: non conta la forza degli argomenti, ma solo il numero, il mettere in minoranza chi minaccia l’autorevolezza del personaggio da proteggere. Proprio come alle elementari.

E’ la vera novità di questa campagna elettorale online. Lo sciame di disturbatori fittizi è gestito da dei piccoli eserciti di volontari. E spesso si tratta anche di volontari “a loro insaputa”, perché a volte sono stagisti che non hanno nemmeno la certezza che verranno pagati per la loro autoclonazione, per la loro capacità di moltiplicarsi in decine di “Elio Vito” (lo ricordate?) in grado di ripetere a manetta una serie di frasi fatte da opporre in automatico anche di fronte all’argomentazione più stringente.

Del resto, se la stagione politica che abbiamo alle spalle continua a premiare, nei talk show televisivi, esattamente questo tipo di comportamenti, non dobbiamo stupirci se vengono ripetuti sui social media, dove al vantaggio della clonazione infinita si aggiunge la sensazione di un miglior rapporto costo/beneficio.

Il vero problema, duole ricordarlo ancora dopo averlo più volte affermato in ambito aziendale, è la facilità con cui il più becero e vetusto approccio alla comunicazione sul web viene venduto ai committenti di questa breve ma evidentemente remunerativa stagione elettorale: i politici. Invece di spiegar loro come, in passato, gli strumenti digitali hanno svolto un ruolo forse non decisivo, ma nemmeno trascurabile, durante una campagna per il voto si preferisce calarsi  nel più scontato “digital divide” del cliente, del quale è un gioco da ragazzi assecondare il naturale terrore di “essere criticati su twitter”.

E quindi via con gli sciami di droni che possono attaccare in massa senza mettere a rischio vere “vite umane”, vere reputazioni con un nome e un cognome. E tanti saluti ai profeti del marketing conversazionale che avrebbe dovuto premiare la trasparenza, trasformandola in credibilità.

Rimane solo da chiedersi, la prossima volta, se ci sarà ancora qualcuno disposto a pagare l’affama-stagisti di turno per una “strategia” di questo tipo. Ma siamo in Italia, e la memoria corta, purtroppo, non ce l’ha solo l’elettorato attivo.

Le elezioni, gli effetti-annuncio e i pensieri compiuti

Negli ultimi giorni mi è apparso evidente che rispetto alle ultime elezioni politiche, quelle del 2008, negli ecosistemi dei media qualcosa di non trascurabile è forse cambiato.

Questa potrebbe essere la prima campagna elettorale in cui una larga fetta di elettori (non necessariamente coincidente con il “club dei 5 milioni” di Severgniniana memoria) è mediaticamente esposta all’integralità dei contenuti dei programmi proposti dalle varie formazioni politiche.

Fino a qualche anno fa, il meccanismo prevedeva che questi contenuti dovessero necessariamente passare attraverso il “filtro della digeribilità” stabilito a priori dalla televisione, e in seconda battuta dei giornali. Con i tempi della televisione e la “reductio ad headline” della carta stampata, e pochissimo spazio a disposizione dei commentatori politici veri e propri, qualsiasi proposta politica risultava ostaggio dell'”effetto annuncio”. La conseguenza diretta era che una proposta per il Paese poteva avere elettoralmente senso solo in funzione della sua “titolabilità”, che è inversamente proporzionale alla necessità di spiegarla o raccontarla in un concetto compiuto.

Una volta, per trasmettere la prospettiva reale di una idea politica, esistevano i comizi. Il candidato parlava in una piazza, che si gremiva in varia misura di persone disposte a farsi raccontare il contesto dei problemi e farsi convincere dalle varie soluzioni. La televisione ha ucciso i comizi, favorendo gli esponenti poveri di contenuti ma ricchi di “titoli” suggestivi, come “abolirò l’ICI” o – per rimanere nella stretta cronaca – “restituirò l’IMU”, senza che questi ultimi si sentissero in obbligo di spiegare dove avrebbero trovato – per esempio – la copertura finanziaria.

Ora, io non intendo affollare ulteriormente la già nutrita schiera degli osservatori che sottolineano la crescente importanza dei social media nella discussione delle varie posizioni politiche in vista del 24-25 febbraio. Vorrei piuttosto limitarmi a sottolineare che – grazie al moltiplicarsi delle piattaforme mediatiche a disposizione di tutti (e non solo del “club” di cui sopra) – è oggi possibile tornare a seguire la campagna elettorale nella sua interezza.

Sui canali “active” di Sky Tg 24, per fare solo un esempio, è possibile seguire tutti i comizi dello Tsunami Tour di Beppe Grillo, per capire se si tratti davvero di un populista demagogo o di qualcuno che solleva problemi e propone soluzioni nuove. Allo stesso modo, attraverso le apparizioni pubbliche di Bersani, è possibile vivere in diretta  i tormenti del centro-sinistra ora che la sua vittoria è nuovamente messa in discussione. E non fosse stato per Sky, le molte proposte ed idee per il Paese scaturite dal dibattito delle Primarie avrebbero avuto una esposizione molto inferiore su tutti gli altri media. E allo stesso modo, avremmo subito il teatrino di Berlusconi senza assistere in tempo reale allo psicodramma delle liste PDL in Campania, dopo la vicenda Cosentino. In questa nuova “arena politica integrale” si possono capire i mutamenti di strategia di Monti e dei suoi sodali, e farsi delle domande sulla costante assenza di Fini e Casini dalle sue apparizioni pubbliche.

Non ci sono giornalisti o commentatori o tipografi di mezzo. E se proprio non ci si arriva con la diretta satellitare, si può supplire con lo streaming sul web, dove magari “i passi salienti” vengono ripresi dall’amico su facebook e non dal titolista che deve comporre la prima pagina.

L'”integralità” non sposta un voto? Sarei cauto prima di sostenere una cosa del genere. Nella disponibilità di nuove piattaforme, utilizzate da un numero sempre maggiore di elettori, c’è infatti un nuovo linguaggio e un nuovo racconto della politica. Una “nuova pratica” che lascia maggiori margini alla capacità dei residui indecisi di farsi un’idea sulla scelta finale al di là degli annunci roboanti cui ci eravamo abituati negli ultimi 20 anni. Al di là di quegli imbattibili slogan che facevano sembrare il “programma di 252 pagine” una sorta di dichiarazione di sconfitta in partenza.

Saranno tre settimane molto lunghe quelle che ci separano dal voto, ma forse – per una volta – qualcuno potrebbe riuscire a riempirle di contenuti. Lo spazio, almeno quello mediatico, non manca. L’audience, per la prima volta, non è solo quella della televisione o delle edicole. A meno che non si preferisca credere di essere ancora nel 2008, o peggio – come sento ripetere su twitter – nel 1994.

EuroNews: 20 anni e un po’ sentirli, ma grazie lo stesso

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Sembra davvero ieri, ma sono passati due decenni da quando, quasi inosservato, con sede a Lione partì il primo canale all-news paneuropeo. Una clamorosa sfida per il 1993, quando tutto sommato poche erano le case equipaggiate di un impianto satellitare per riceverla. E non dimentichiamo l’ostacolo delle 5 lingue in cui iniziò a trasmettere, ciò che implicava la rinuncia all’anchorman in video, vero e proprio elemento imprescindibile di quello che ancora oggi chiamiamo “il telegiornale”.

Di quei tempi ricordo un aneddoto tra il romantico e il picaresco: per captare il segnale a Roma dovetti abituarmi a spostare a mano la rudimentale parabola “prime focus” da un metro e mezzo che avevo faticosamente installato sul terrazzo dai 19.2 gradi est dell’unico satellite commerciale disponibile (Astra) agli ormai famosi 13 gradi est di Eutelsat. Per farlo, avevo destinato uno speciale impermeabile –  che poi  ribattezzai “il cappotto satellitare” – all’unica funzione di proteggermi dal freddo e dalla pioggia nel breve tempo necessario a svolgere questa operazione. Tempi eroici, lontani anni luce dal florilegio di canali digitali in alta definizione disponibili oggi, tutti sulla stessa posizione orbitale.

Tornando invece a EuroNews, a distanza di 4 lustri credo si possa parlare di una sfida largamente vinta: sono oggi 344 i milioni di case che possono riceverla in 155 paesi in tutto il mondo, offrendo un inedito “punto di vista europeo” sui fatti della cronaca internazionale ai quattro angoli del pianeta.

Il panorama dei canali all-news si è molto affollato nel frattempo, ma EuroNews continua a conservare un suo “special flair” grazie forse alle improbabili voci dei commentatori, al placido rituale delle rubriche in sequenza fissa, ma anche e soprattutto alla sua capacità di inventare “una nuova equidistanza” che non cade mai nel falso mito dell’imparzialità.

Il fatto di essere sovvenzionata dalle istituzioni europee, e di attingere largamente dall’informazione televisiva dei canali pubblici del vecchio continente, la fa ancora più apprezzare in opposizione al moltiplicarsi dei canali all-news commerciali (vengono in mente soprattutto le reti di Murdoch), dal ritmo forsennato e sempre sgradevolmente conditi da musiche roboanti per annunciare le esclusive e gli scoop più vari, spesso composti da  aria fritta.

Ciò di cui peraltro il canale sembra soffrire più di altri concorrenti è la concorrenza di internet. Chi oggi cerca qualcosa di diverso dalla “pappa pronta” del proprio TG nazionale, pubblico o privato che sia, ha da tempo abbandonato il “convento della salvezza” di un canale internazionale a fruizione lineare per aggregare autonomamente le proprie fonti informative sulla rete.

E’ forse per questo che EuroNews si sta espandendo soprattutto nei Paesi a bassa alfabetizzazione informatica, dove Twitter & soci costituiscono ancora una concorrenza tutto sommato poco temibile.  L’importante è che il management capisca  in tempo che dietro l’angolo si annida proprio quella “sindrome del business traveller”, che già sancì il declino della CNN di Turner a tutto vantaggio della più affidabile BBC.

Intanto però consentitemi di ringraziare ancora una volta questi giovani pionieri che per vent’anni, da Lione, ci hanno fatto sentire un po’ meno soli, e un po’ meno beceri, con ottimi programmi informativi in lingua italiana, mentre da queste parti si recitava il de prufundis di ogni forma di dignità dell’informazione televisiva. Non dimentichiamo che fu grazie a EuroNews che potemmo assistere quasi in diretta, e con la traduzione simultanea in italiano, al duetto Berlusconi-Shultz al Parlamento di Strasburgo. Oggi va appena meglio, ma  nel 2003, vi assicuro, non era cosa da poco.